Da vedere in DVD: “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” di Martin McDonagh

Pubblicato il 11 Ottobre 2018 in Outdoor Cinema
Tre manifesti a Ebbing, Missouri

sceneggiatura Martin McDonagh cast Frances McDormand (Mildred Hayes) Woody Harrelson (Bill Willoughby) Sam Rockwell (Jason Dixon) Caleb Landry Jones (Red Welby) John Hawkes (Charlie Hayes) Lucas Hedges (Robbie Hayes) genere drammatico prod Usa, 2017 durata 115 min

 

È sempre amareggiante, alla fine di un film, fare il conto di ciò che avrebbe potuto essere e di ciò che invece è stato. Pensare che l’interessante soggetto avrebbe potuto avere uno svolgimento alla Dürrenmatt e imbattersi invece a ogni piè sospinto in eccessi di retorica, in troppa enfasi, in forzature narrative. Due righe sul plot, tanto per capire il quadro. Nella sonnacchiosa cittadina di Ebbing (Missouri), ossia Profondo Sud, una ragazza è stata violentata e barbaramente uccisa. A quasi un anno dal fattaccio l’indagine non ha fatto alcun passo avanti e, anzi, il caso sembra finito tra la polvere degli archivi. La madre della vittima acquista così lo spazio pubblicitario di tre enormi cartelloni stradali e affigge altrettanti manifesti che puntano il dito sull’inerzia della polizia locale. Il fatto suscita scandalo e riprovazione e neppure il confronto diretto tra lo sceriffo e la donna appiana la situazione. Che precipita quando l’ufficiale con la stella di latta si suicida (per un tumore allo stato terminale) e la sua azione viene letta come conseguenza dei manifesti. Che a un certo punto finiscono pure bruciati in un crescendo di tensione che sembra inarrestabile. Sottotraccia si leggono i veri temi della storia. Temi attualissimi nella società americana: il razzismo sempre latente negli stati ex unionisti, l’omosessualità e l’omofobia, la violenza endemica, coperta dall’ipocrisia e dal perbenismo, e la violenza esplicita, senza regole e, soprattutto, senza sanzioni, attuata da chi indossa l’uniforme nei confronti di chi non si uniforma al pensiero unico. Una comunità semirurale chiusa e impermeabile, pregiudizialmente ostile a chi non si allinea o, semplicemente, non la pensa come la maggioranza. Ecco: questi erano i binari alla Dürrenmatt su cui il treno di McDonagh avrebbe potuto correre spedito e sicuro verso la fine contando su un bel cast di professionisti seri. E invece il convoglio deraglia subito. Il personaggio dello sceriffo Willoughby, certamente il più complesso, esce di scena troppo presto e si limita poi a tirare le fila con banali letterine agli altri comprimari. Il personaggio chiave dell’agente Dixon, gay vampirizzato da una madre assassina, diventa una macchietta e una banderuola (assurda la scena in ospedale nella stessa stanza della sua vittima, Red Welby, “colpevole” di aver concesso a Mildred Hayes lo spazio pubblicitario). Altrettanto marionettistico il ruolo di Charlie Hayes, ex marito di Mildred, con diciannovenne fidanzata-oca al seguito (anche qui, per tutte, la sua rentrée domestica con aggressione incorporata). E si potrebbe continuare a lungo, ma sorvoliamo il resto e focalizziamoci sul finale. Mildred e Jason sono insieme in auto, in partenza per una “missione punitiva”. Qualcuno ha violentato e ucciso, ma il colpevole del delitto di Ebbing non è lui. Non di meno – logica aberrante – lo stupratore merita la morte. Tuttavia un dubbio si fa strada: uccidere o non uccidere, questo è il problema. «Decideremo strada facendo» è la salomonica (si fa per dire!) conclusione. Considerando che dal Missouri di Ebbing all’Idaho dell’ignaro violentatore ci sono oltre 2mila km ne esce il più bel quadretto, tutto Made in Usa, di giustizia à la carte fai-da-te.

 

E allora perché vederlo?

Per capire quanti danni possa ancora fare nel Terzo Millennio il vecchio “spirito della frontiera”.

Tre manifesti a Ebbing, Missouri

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