Da vedere in DVD: “L’albero dei frutti selvatici” di Nuri Bilge Ceylan

Pubblicato il 13 Maggio 2019 in Outdoor Cinema
L'albero dei frutti selvatici

tit orig Ahlat Agaci (Il pero selvatico) sceneggiatura Nuri Bilge Ceylan, Akin Aksu, Ebru Ceylan cast Aydin Dogu Demirkol (Sinan Karasu) Murat Cemcir (Idris Karasu) Bennu Yildirimlar (Asuman Karasu) Hazar Herguklu (Hatice Karasu) Serkan Keskin (Süleyman Akbaş) genere drammatico prod Turchia, Fr, Ger, Bulg, Macedonia, Bosnia-Erz, Svezia, Qatar 2018 durata 180 min.

 

Distretto di Çan, provincia di Çanakkale, Turchia. Per intenderci in altri termini, siamo nei paraggi dell’antica città di Troia, sui Dardanelli, tanto che nella piazza principale del capoluogo fa bella mostra di sé il Cavallo del film Troy (2004), donato alla città dai produttori. Ma tanta gloria del passato non importa ai protagonisti della storia, che vivono il disagio della Turchia erdoghiana, in bilico tra regressione religiosa e suggestioni imperialiste. Lo sguardo è quello di un ragazzo (Sinan) poco più che ventenne di ritorno a casa dopo la laurea. In cerca di occupazione e collocazione sociale, ma ancor più di un posto (e di un senso) nella vita. Il padre (Idris) è un insegnante elementare perennemente in bolletta per il vizio del gioco e la madre (Asuman) una casalinga quasi disperata per le condizioni economiche in cui versa la famiglia a causa del padre dei suoi figli di cui peraltro è ancora innamorata. Sperduta in mezzo ai campi c’è poi la fattoria dei nonni dove Idris si ostina a cercare una falda acquifera scavando un pozzo per il momento ricco L'albero dei frutti selvaticisolo di pietrisco. Verbosetto, lentino, il film di Ceylan si struttura principalmente attorno alle lunghissime tirate di Sinan sui massimi sistemi dell’universo, ossia sulla sua vocazione di scrittore e sui valori autentici della vita. Eccolo quindi alle prese con l’ex fidanzata, ora promessa sposa a un ben migliore partito, con il sindaco, con lo scrittore Süleyman Akbaş, ricco di una discreta fama locale e ben piazzato nelle vetrine delle librerie, con un trasportatore di sabbia, potenziale editore, con un paio di giovani imam con i quali sembra discutere all’infinito come facevamo qui, da ragazzi, negli oratori, con il prete della parrocchia. E poi, ancora, con la madre, con il padre, con i nonni… Tutto per cavare qualche barlume di senso a una cosa tanto insensata quale può esserlo solo la vita. La vita di un giovane, soprattutto. Delle tre ore buone di film, per le prime due abbondanti il regista sembra menare il can per l’aia tanto da indurre lo spettatore a posizioni sempre più scomode sulla poltrona per evitare la narcolessia. Poi, quando Sinan torna a casa dopo il servizio militare e tutto sembra cambiato (mentre nulla cambia), piano piano, quasi inavvertitamente, tutte le tessere fino a quel punto sparpagliate sul tavolo vanno al loro posto e il mosaico si compone, denso e robusto. Bello il finale. O meglio: belli i due diversi finali in cui si biforca la storia come se fossero proiezioni soggettive dei rispettivi personaggi (padre e figlio). Finali che ruotano attorno al pozzo, pomo della discordia e simbolo della condizione umana: una fatica da Sisifo che non porta a nulla. Ovvero un obiettivo da raggiungere, costi quel che costi. Proprio come il mestiere di vivere.

 

E allora perché vederlo?

Perché nel nostro paese di non-lettori, tutti hanno un romanzo nel cassetto.

L'albero dei frutti selvatici

 


SCELTO PER VOI

 

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