“Il complesso di Giano”, Capitolo 1

Pubblicato il 14 Giugno 2018 in Letture Ideas

Il complesso di Giano 1 capitolo

 (Scaricare il PDF del primo capitolo se si preferisce stampare e  leggere …senza occhiali)

=============================================================

Il misero sé che ognuno trascina altro non è che uno dei propri possibili doppi.Chissà perché le era venuta in mente quella frase. A volte si svegliava con il mal di testa, a volte con in testa gruppi di parole assemblate a caso. Doveva appuntarsele al più presto. Ciò che non scriveva, dimenticava. Dimenticare per lei era intrinseco allo scrivere.

Norma alzò la testa e aprì un occhio per guardare l’ora. Tra un minuto sarebbe suonata la sveglia. Si sdraiò per finire il pensiero. Aveva sempre dentro qualche frase inutile, che non sapeva se avrebbe avuto il tempo di scrivere da qualche parte o si sarebbe dimenticata nella strada tra casa e scuola, tra scuola e supermercato, tra supermercato e posta, tra posta e banca, tra banca e casa. Non era per via della memoria corta, anzi. Per uno strano caso la sua memoria funzionava per tutta una serie di stupidaggini, eccetto che per i migliori pensieri che le venivano in mente. Chissà perché.

Per scrivere il tempo le mancava sempre, ma non per pensare. Ogni tanto al pensare riusciva persino a dedicare qualche minuto della sua esistenza. Aveva tre figli, due piccoli e una grande, una casa con una sua animaccia nera che faceva apposta a sporcarsi, un lavoro da svolgere nel tempo libero, un marito che aveva preso il volo come l’uccello del malaugurio.

Né l’amore per i suoi figli né le cose di ogni giorno riuscivano a spegnere quell’antipatica strana sensazione che la tormentava e che si configurava come una fitta. O almeno lei la chiamava così. Quando aveva compiuto gli spostamenti di massimo tre isolati che la sua avventurosa vita le riservava ogni giorno non le restava che pulire, cucinare, lavare, stirare, riordinare. Di notte, traduceva libri per bambini e faceva la giornalista per dei giornaletti che te li raccomando. Ovviamente quando riusciva a convincere quei cari signori a farla lavorare.

Avrebbe voluto fare cose più importanti, ma in qualche modo doveva sbarcare il lunario. Lei preferiva dire lunare lo sbarco, poiché percepiva se stessa un po’ come un’astronauta (con l’apostrofo) che fa una gran fatica a muoversi per via della tuta spaziale. Lei c’era nata, con addosso una tuta spaziale. Era certa che sarebbe invecchiata aspettando la grande occasione. Anzi, cercando la grande occasione. Il che non è filosoficamente meglio, come qualcuno sarebbe portato a pensare. La bellezza della ricerca non esiste. Esiste la strada da percorrere e lei si figurava che non percorrerla sarebbe stato un peccato mortale. Punto. Tutto il resto era il resto.

Si alzò, ma ormai era tardi per cercare foglio e penna: aveva già scordato la frase del risveglio. Era sola, da quando suo marito se n’era andato con una studentessa di diciannove anni. Norma non aveva ancora quarant’anni, ma sentiva che non era proprio così.

“Tu hai centotrentotto anni mentali e li dimostri tutti.” Disse guardandosi come poteva nel rimasuglio di specchio che restava dopo essere caduto due volte. Gli mancava l’angolo in alto a destra. “Meglio così, almeno non vedo il bianco della ricrescita dei capelli dalla parte della riga.” Si vestì, andò in cucina a preparare la colazione e poi andò in stanza a svegliare Ludovico. Erano già in ritardo per la scuola.

“Oggi voglio il tè.” Disse Ludovico. “Il tè con i cracker.”

Perché i cracker? Cosa c’entravano i cracker con il tè? Non poteva mangiare come al solito latte e biscotti? Quel bambino la faceva uscire di testa. Non sapeva mai quale storia avrebbe inventato per portarla alla pazzia. Era un essere imprevedibile, logorante. Certamente per lui era difficile essere così spaventosamente divergente, ma certo facile non era per sua madre sopportarlo. Non facile.

“Crescerà.” Si raccontava per tirarsi su di morale. “E io invecchierò fissando il tempo che passa.” Non era un tipo dalla facile consolazione.Mentre versava il tè nella tazza notò che la pelle sul dorso delle mani si stava raggrinzendo.Le sembrava che giorno dopo giorno la carne e la pelle si adattassero sempre di più allo scheletro, assumendone la drastica forma. Versò il latte, spalmò la marmellata di fragola sul toast caldo, sistemò le tazze sul tavolo, chiamò per la centesima volta Ludovico, gli mise davanti tè e cracker e fece per sedersi a bere il suo caffelatte.

“Ciao mamma.”

Era Samuele. Lui era un tipo indipendente, che si arrangiava da solo. Forse perché lei lo guardava poco, intenta com’era a soddisfare le richieste del fratello maggiore. Ecco un poderoso senso di colpa che la affliggeva spesso. Norma mise davanti a Samuele latte al cioccolato e toast con la marmellata.

“Anche io voglio il toast con la marmellata!” si mise e frignare Ludovico.

Perché faceva sempre così? “Ti faccio contento, perché non ho voglia di arrabbiarmi.”Tempo tre minuti e Ludovico si era spiaccicato il toast alla marmellata sui pantaloni.

“Fila a cambiarti.” grufolò Norma. E lui niente. “Muoviti! Insomma, non sai fare altro che rovinarmi la vita?”

Ludovico si alzò con la faccina afflitta e fece per togliersi i pantaloni appiccicosi. Poi si ricordò del giochino che aveva messo dietro la tazza, lo prese e si tirò addosso il tè, per fortuna ormai freddo

“Ecco, guarda, la mamma fa tutto per te e tu come la ripaghi?” Era uno dei suoi tormentoni preferiti quando Ludovico piantava colossali capricci, inadatti alla sua età.

“Con i capricci!” disse Ludovico.

Poverino! Aveva risposto automaticamente ed era così confuso che aveva scambiato un piccolo incidente per una sorta di tragedia. Se ne stava in piedi di fianco al tavolo, con i pantaloncini alle ginocchia e la felpa fradicia. Le fece una gran tenerezza. Colpa mia che lo spavento sempre, pensò Norma. Ma cosa sto facendo? Ha solo otto anni. Gli disse di andare in stanza a cambiarsi, ma stavolta con gentilezza.

“Sei diventata brava, mamma?” disse Ludovico con la sua vocina da bambino che a lei suonò più del solito come una vocina da bambino.

Perché si faceva prendere così dall’ira? Perché lo sgridava come una strega cattiva?

“Mi perdoni?”

“Sì, mamma.”

Che vigliacca! Che putrida! Trattare così una delle pochissime persone che desiderava stare con lei, che aveva come unico desiderio quello di stare con lei. E poi domandare perdono, sapendo bene che lui le avrebbe perdonato tutto.

“Accidenti, è solo un bambino!” si disse ancora una volta mentre si lavava i denti.

“Non voglio andare a scuola. Voglio il papà.” Eccolo che piantava un’altra grana. Ma lei stavolta non voleva arrabbiarsi.

“È vero che i film più belli non finiscono mai?”

“In un certo senso sì, Ludovico.” Che bella immagine! Invidiava questa sua capacità innata di concepire le cose della vita come visione. A lei non era mai venuto in mente un modo così carino di descrivere il desiderio che le cose piacevoli non abbiano termine. Quel bambino che spesso si comportava come se fosse più piccolo della sua età in realtà capiva tutto, anche ciò che non capiva lei. Era un soggetto parecchio singolare. Quindi perché non parlargli a caso del disagio che la tormentava da un bel po’? Che madre scellerata!

“Ludovico, ho bisogno di fuggire dalla realtà. Mi sento come in sospeso.”

Sì, ma come si fa ad affliggere un bambino di terza elementare con i propri problemi esistenziali? Doveva veramente essere andata a male, di recente.

“Anch’io mi sentivo così quando ero piccolo, tanti anni fa.”

Tanti anni fa, diceva sempre. Forse. O forse tanti di più e lei che era la madre tutto sommato era stata presente soltanto alla sua nascita. Era nato con gli occhi aperti. Aperti come la sua mente.

“Tranquilla, mamma. Ne parliamo quando torno da scuola.” Le diceva sempre di stare tranquilla.

Nel frattempo si era del tutto dimenticata dell’altro figlio, che se ne stava di fianco a lei, ammutolito dalla logorrea di madre e fratello. Aveva già scarpe e cartella ed era pronto per uscire. Era un bambino di grande saggezza, per fortuna. Faceva la prima elementare.

Scaricò Vic e Sam a scuola e tornò a casa a pulire. Di solito riusciva a fare tutto. Più o meno bene, a volte male, ma tutto. In fondo l’unica cosa che restava fuori era scrivere il suo romanzo. Ma forse quella era proprio la scusa giusta per non scriverlo mai, quel romanzo.

Era il 28 febbraio di un anno bisestile. 28-2 era brutto. Le faceva l’effetto di prefisso telefonico di Marte. Si sentiva come se fosse appena tornata da un viaggio spaziale. Si era sentita sempre così, ma da qualche settimana era peggio: non riusciva più a controllare il suo smarrimento.

Mentre stendeva passò alla televisione la notizia che era stato scoperto il decimo pianeta del sistema solare. “L’impossibile prende forma”, pensò. “Mi correggo: quell’impossibile lì, non quello che spero io.”

Suonò il campanello. Era sua cugina.

“Ciao Silvia, cosa ci fai da queste parti?”

“Sono uscita prima da scuola perché non ce la facevo più a stare seduta lì ad ascoltare. Alla mia età ci si stufa in fretta.”

“Vuoi un cafù?”

“Sì, grazie. Poi scappo subito, che inizio il turno a mezzogiorno.”

Cafù era il modo in cui la loro nonna chiamava il caffè solubile.

“Come stai, cugi?”

“Non lo so. E tu?”

Sua cugina aveva otto anni meno di lei e, nelle ore in cui non lavorava, cercava di finire un corso per vedere se riusciva a trovare un nuovo lavoro che non fosse pagato male. Avevano un senso di fallimento in comune e per questo stavano bene insieme. Si vedevano per fasri compagnia e per non parlare dell’argomento.

“Nemmeno io.” Dopo un caffè silenzioso la cugina se ne andò. Norma a quel punto pensò che avrebbe potuto lasciar perdere tutto e scrivere qualche pagina. Ecco, sì, si sarebbe messa al computer per portare avanti il primo capitolo del suo romanzo. Stazionava al primo capitolo ormai da sei anni, da qualche mese prima che nascesse Samuele. Poteva anche tradurre, o magari farsi un giro al mercato. Nella bancarella vicino alla gelateria aveva visto dei bei vestiti a fiori. Ecco un’altra bella scusa.

Un vestito a fiori. Per andare dove? Non aveva nessuna voglia di tradurre nessuno stupido irritante libro per bambini che lei avrebbe scritto molto meglio. O forse no. Intanto il romanzo avrebbe aspettato. Si infilò scarpe e cappotto. Non andava quasi mai al mercato. Ma sentiva quella fitta strana e uscì.

Faceva freddissimo e scendeva una specie di polvere di ghiaccio. Le venne subito il mal di testa. Giornata ideale per andare al mercato. Attraversò le bancarelle senza alcun interesse e i vestiti a fiori quando arrivò erano già finiti. Ne restava solo uno verde con le margheritone gialle, di otto taglie più della sua e uno rosso che le piaceva ma era una taglia meno. Provò quello grande tanto per fare.

“Lo riprende un po’ sui fianchi ed è perfetto.”

Avanzava un metro di tessuto, cosa che la faceva sentire magra ma non elegante.

“Crede davvero?”

“Su, Gianni, non vedi che è troppo largo?” lo apostrofò la signora al suo fianco.

“Hai ragione, Maria.”

“Venga giovedì prossimo, signora. Ne arrivano ancora.”

“Grazie. Torno di sicuro. Buona giornata, signora.” Quindi esistevano ancora le persone oneste.

“Buongiorno. Vedrà che con una settimana di frutta le andrà bene anche una 42.”

Frutta. Erano secoli che non mangiava una mela. Visto che c’era avrebbe preso un po’ di frutta. Vagliò otto diverse bancarelle e le sembrò che tutti avessero le stesse cose allo stesso prezzo.

Ma come diavolo fanno gli altri a capire cosa è di qualità migliore? Possibile che sono la sola che non sa distinguere le pere belle da quelle brutte? Mentre rifletteva sui massimi sistemi ortofrutticoli, passando vicino a una bancarella, fu presa da una fitta potente e si fermò. Ultimamente sceglieva così. Andava dove la portava la fitta.

“Tutto a un euro, signora. Un euro, un chilo.”

“Fantastico,” disse Norma. “Magari fosse tutto così nella vita.”

“Basta volerlo, signora mia. Basta convincersi.”

Un ambulante filosofo. “Mi dia quattro chili di mele, sei di arance e uno di zucchine.”

“Altro?”

“Sì, anche un paio di chili di finocchi e qualche pera.”

“Mandaranci? Quattro chili tre euro.”

“Ok.” Offerta imperdibile.

“Guardi che bei carciofi! Costano un po’ di più, ma sono stupendi.”

“Vada per i carciofi.” Allora non era tutto a un euro.

“Ah, mi servono anche le banane, ma non le vedo.”

“Sono sottocoperta.” Il venditore sollevò una coperta rosa e sotto effettivamente c’erano le banane. Gliele porse e lei notò che aveva degli orrendi geloni alle mani. “Fa troppo freddo per loro. Se non stanno al calduccio diventano nere.”

A Norma fece molta tenerezza quell’uomo che prendeva freddo insieme alla sua frutta e sentì anche una certa affinità con le banane, per via del marcire se esposti alle intemperie.Pagò e il fruttivendolo le passò le borse. Poi passò al super per due cose e come al solito ne comprò cinquanta.

“Mamma mia.” Ora che si era caricata come un asino le sovvenne che doveva anche portarsela a casa, tutta quella roba. Arriverò con le braccia alle ginocchia come uno scimmione.

“Buongiorno e grazie.” Disse Norma.

“Buongiorno a lei, signora.” Rispose il fruttivendolo con un sorriso.

Lei fece per andarsene.

“Aspetti. Prenda anche questi!” disse porgendole quattro limoni.

“Come mai?” Erano giganteschi e probabilmente pesavano più di un chilo. No, non voleva un altro chilo.

“Glieli regalo.”

“Grazie, magari ne prendo uno soltanto.”

“No, deve prenderli tutti. Altrimenti potrebbe pentirsene, quando ne avrà bisogno.”

Sembrava così convinto che lei non ebbe il coraggio di rifiutare di nuovo. Era maleducato rifiutare un omaggio. Li aggiunse alle pesanti sporte che già aveva, che le sembrarono subito più leggere. Per il regalo, ovviamente.

Era pronta a fare la sua via crucis ortofrutticola fino a casa. Sapeva che ci sarebbero state altre soste.

Visto che qui al mercato si fanno dei buoni affari, tanto vale dare un’occhiata in giro.Trovò cinque cucchiai di legno a un euro e quattro spugnette a cinquanta centesimi. Poi una pentola antiaderente a due euro e un pacco di brioche a un euro e dieci. Aveva fatto una bella spesa. Un folgorante affare dietro l’altro.Nata per il risparmio. Fiera dei limoni gratuiti che custodiva nella borsa fece rotta verso casa, soddisfatta. Aveva sempre evitato di comprare quei cosi a rotelle dove si mette la spesa.

“Sai cos’è? Quando si usa uno di quelli vuol dire che ci si è arresi.” Le aveva detto una volta suo suocero.

Per questo trasportava i sacchetti a braccia. Io non mi arrenderò mai. No. Aveva acquistato un appartamento al secondo piano senza ascensore per via della poesia dell’edificio ottocentesco. E ovviamente perché era stupida.

“Vuol dire che porteremo su le cose un po’ per uno.” Aveva detto suo marito e lei era stata d’accordo, perché si era innamorata all’istante di quella casa.

Dopo il trasloco aveva avuto il sospetto che un-po’-per-unofosse una sua identità alternativa (Norma soffriva dalla nascita di uno sdoppiamento interiore che aveva soprannominato Complesso di Giano, come la divinità romana con due facce che le era sempre piaciuta tanto) e infine Mattia se n’era andato e lei aveva avuto la certezza che un-po’-per-unoera proprio lei. Entrò in casa ed ebbe un attacco supplementare di fitta.Continuava a pensare alla sua vita come se fosse mancante di qualcosa. La sua vita era un florilegio di fallimenti, una trama fitta di doveri inutili, come una leggiadra ragnatela di ghisa. Era una normale fallita. Andò a sedersi un attimo sul divano. Scrisse un appunto sul suo taccuino. “E mentre scrivo fuggo. Scrivo fuggendo. Seguo le linee del pensiero e arrivo di là.”

Là dove? All’improvviso sentì i sacchetti della spesa che crollavano dal tavolo e la frutta che rotolava fuori. Andò a vedere cos’era successo.C’erano arance sparse per tutta la casa. Norma mise tutto in frigo e fu presa da un microattimo di disperazione. Dovrei trovare un altro mondo e portarci anche i miei figli, per salvarli dalla mia dabbenaggine. Ma mi sa che non ne sarò mai capace.

Sentiva ogni giorno sempre più forte il bisogno di fuggire dalla realtà. Un bisogno disperato, sofferente. Doveva sbrigarsi! Forse era la sua unica e ultima possibilità.Malgrado tutta la gente che conosceva era caduta in uno stato di aberrata solitudine. Era certa che tutti fossero convinti che era perché Mattia se n’era andato. E invece non era così. Mattia se n’era andato perché lei era diventata così, un’aberrata solitaria. Parlava da sola, non vedeva nessuno, scambiava pareri solo con bambini delle elementari. Ottimi interlocutori i bambini delle elementari, peraltro. I migliori, forse.

Sua figlia Maddalena usciva la mattina all’alba e tornava la sera tardi stravolta. Il più del tempo libero lo trascorreva dal suo ragazzo, che era da poco andato a vivere da solo. Ormai si fermava da lui anche la notte, ma i suoi ventidue anni gliene davano il diritto.

Così Norma, dopo aver passato decenni a parlare e parlare, da quasi due anni, a parte le discussioni spesso insensate con Ludovico, era piombata nel silenzio. Le dispiaceva per Samuele, che era mutanghero di suo e lei certo non lo stava aiutando. Cercava qualcosa, ma aveva la strana impressione di non ricordare cosa. Soffriva di un’assurda e tangibile mancanza.

Nel tempo ricavato tra un impegno e il successivo scriveva. In fondo era il lavoro con cui si pagava il pane. Concentrarsi non ci riusciva, perché per la prima mezz’ora finiva i lavori rimasti in sospeso e il resto del tempo lo perdeva nel timore di fare tardi. Poi abbozzava un paio di righe ed era il momento di uscire. Un banale caso di scriptus interruptus.Quel giorno aveva per fortuna in mente ben due frasi, che si affrettò a mettere giù.

”Credo nel cupo ottimismo. Sono un teorico di questa teoria (che genio!), che pratico con… Con cosa la praticava? Pertinacia? Pervicacia?

Niente da fare. Aveva dimenticato con cosa praticava le sue teorie.

Squillò il telefono. Era la solita venditrice di surgelati che voleva rifilarle montagne di bastoncini di pesce, fagiolini e minestroni per grandi comunità. Non aveva manco cominciato a concentrarsi che era già ora di andare a prendere i bambini. Per non fare tardi metteva il timer del forno. Patetica.

Casa, scuola.

Si nascondeva dietro gli altri genitori assiepati ai cancelli, sperando che i suoi figli non la vedessero. Le piaceva spiare la loro vita senza di lei.

Quando la vedevano le correvano incontro tutti molli, come scossi dalla gioia. Che belle creature, i bambini.

“Ciao, amore mio.”

“Ciao, mamma.”

Ricordò le parole smarrite. Ah, ecco, rilassata ostinazione.

Casa.

Appena entrata corse ad accendere il computer. “Rilassata”

“Mamma, ho fame!”

Merenda.

“Mamma, ho fame!”

“Ostinazione.”

Così praticava le sue teorie. Salvò, spense il computer e il suo sogno quotidiano.

“Mamma, ho fame!”

Incredibile, la ripetitività dei bambini.

Con quel ritmo la pubblicazione del suo primo romanzo sarebbe avvenuta di lì a centomila giorni e lei avrebbe trovato senza dubbio un editore solo perché l’autore a quel punto avrebbe avuto trecento anni. Un caso umano, più che editoriale. La sua carriera procedeva più lenta della deriva dei continenti, i quali ultimamente si stavano divertendo a sorpassarla.Ma non si trattava soltanto di questo. Era la convivenza con quella forma di inquietudine. Nata e cresciuta con lei, aveva assunto un aspetto dismorfico. Non che fosse insopportabile, questo no. Semplicemente la logorava.

“Mamma, ho sete!”

Non solo non riusciva a scriverli, i suoi pensieri, ma nemmeno a pensarli.Passò il pomeriggio a sgridare i figli e a stirare un poderoso ammasso di roba.

Cena.

“Ciao mamma, stasera resto da Diego. Ci vediamo domani.”

“Sì, tesoro, va benissimo. Venite a cena domani?”

“Te lo faccio sapere nel pomeriggio.”

“Sì, tesoro. Buona serata. Saluta Diego.”

Be’, almeno la chiamava ancora per dirglielo, che stava fuori a dormire.

Era la sua bambina, la gioia dei suoi occhi. Adottarla era stata una delle tre azioni migliori della sua vita, insieme a generare gli altri due figli.

“È ora di andare a nanna.”

“Non ho sonno.”

“Non piantare grane, Ludovico, o ti do una sberla che ti spalmo sul muro.”

“Ma cosa dici, mamma? È il formaggio che si spalma, non i bambini.”

“Credimi, figlio, puoi fare battute più divertenti.”

Mentre i ragazzini si mettevano il pigiama Norma pensò alla sua sfolgorante giornata di banalità.

I bambini dormivano con lei. Non riuscivano a stare soli nella loro stanza da quando Mattia se n’era andato. O forse era lei che non riusciva a stare sola nella sua stanza. Samuele le diede un bacino incerto sulla guancia e si addormentò all’istante.

Ludovico era un insonne cronico. Aveva paura dei mostri, dei dinosauri e di molte altre nefandezze che prendono forma nel buio. Ora che Mattia se n’era andato la paura di quel bambino non spariva mai del tutto. Forse intuiva che anche sua madre aveva paura.

“Ludovico, devi imparare ad addormentarti da solo! Avrei proprio bisogno di farmi una doccia.”

“Mamma, mi fai le coccole?”

Norma voleva sgridarlo ancora, dirgli che ormai era grande. Ma è grande un bambino di otto anni? Poi pensò alla paura feroce che aveva lei stessa e allora si sdraiò di fianco a suo figlio e gli accarezzò la testa, finché lui prese sonno. Andò in bagno e si guardò allo specchio.

Fece la doccia e guardò scendere resti di viola dai suoi capelli tinti.

Lei non temeva mostri e dinosauri, ma aveva paura lo stesso, perché vedeva i fantasmi.

Fitta.

Sì, vedeva i fantasmi.

Altra fitta.

Fantasmi veri, per quanto vero possa essere un fantasma.

Ennesima fitta.

Non c’è niente di più vero di un fantasma. Pensò mentre si asciugava i capelli.

Aveva paura. Sapeva che di lì a poco l’avrebbe visto.

Andò in cucina a bere, passò davanti alla sala ed ecco fatto.

Succedeva da quando le avevano trovato quelle dannate macchie nel cervello. Una notte si era svegliata e aveva perso la sensibilità di tutta la parte sinistra del corpo. Di corsa al pronto soccorso, dove aveva aspettato per nove ore per fare una visita neurologica, una tac, un’altra visita neurologica. Referto: “Lei ha delle strane macchie nel cervello, nella zona dei lobi frontali.”

“E che schifo sarebbe?”

“Dobbiamo fare una risonanza magnetica. Le prendiamo appuntamento tra quindici giorni.”

“Ma cosa devo fare?”

“Una vita normale. Buongiorno.”

L’avevano dimessa così. Come poi faccia uno che sa di avere delle macchie nel cervello non identificate a vivere tranquillo non gliel’avevano spiegato. Una vita normale? Ma come si fa a vivere una vita normale?

Quindici giorni d’inferno, poi la risonanza magnetica. Referto. “Lei ha delle strane macchie nel cervello, nella zona dei lobi frontali. Deve ripetere l’esame tra sei mesi.”

“Ah, ora sì che è tutto più chiaro. E adesso che faccio?”

“Guardi, se facessimo una risonanza magnetica al cervello di tutte le persone oltre i trent’anni più della metà mostrerebbero qualche anomalia.”

Che consolazione scoprire di far parte della metà anomala degli esseri umani! Poteva considerarsi in buona compagnia?

Norma aveva passato un’altra settimana nel terrore più totale, e poi aveva deciso di vivere.

Da lì in poi la putrefazione del suo cervello doveva aver preso piede, perché aveva iniziato a vedere le ombre. Poi le ombre avevano preso forma ed erano diventate fantasmi. In realtà li vedeva da sempre, ma ora che sapeva delle macchie le sembrava di vederli più spesso e meglio.

Ce n’era uno in particolare che passava le serate sul divano rosso della sala. Un tipo con la barba bianca e una tunica, bianca anche lei. Perché il fantasma di una specie di Mago Merlino si scomodava ad apparire proprio a lei?

Erano le macchie nel cervello.

Piano piano iniziò a vedere sempre meglio il fantasma e scoprì che lui voleva comunicarle qualcosa. “Le macchie.” Pensò. “È colpa loro. Forse le macchie sono diventate più grosse.” Anche quella sera lui era lì che la aspettava.

(Segue)

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.