“Il complesso di Giano”, Capitolo 5

Pubblicato il 5 Luglio 2018 in Letture Ideas

 “Il complesso di Giano”, Capitolo 5

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“Chi ha potuto operare questo massacro?” continuava a chiedere Norma.

Si fissava il palmo tatuato e non sentiva speranza, vedeva un mondonero e senza suoni.

Non voleva sfiorarsi la mano nemmeno per sbaglio. La puzza del sangue su cui aveva appena camminato le aveva lasciato addosso una spiacevolezza. Succede così che, dopo una sovraesposizione a un odore intenso, ti senti il suo retrogusto in bocca. Avevano guardato con cura quel macello grondante e non avevano visto niente, se non a un certo punto delle impronte che arrivavano al nulla.

“È uno come noi, che va e viene.” DisseCK.

Era tornata dopo aver immerso le mani e la mente in qualcosache avrebbe volentieri evitato, e, anche se il saporedel sangue le rivoltavalo stomaco, voleva passare il resto della giornata in santa pace. Avrebbe continuato le ispezioni dopo cena. “Non scappo più, lo giuro, ma adesso no.” Era convinta. Così convintadi non muoversiche si trovò improvvisamente in un altro posto.

C’era un bel sole candido, sulla spiaggia bianca. Norma si abbassò per raccogliere un pugno di sabbia e prese atto del fatto che aveva viaggiatosenza toccare nulla.

“Ci sei, CK?”Stava aggrappata a quel nome.

“Sono qui, Norma.”

“Come ho fatto?”

“Basta concentrarsi. Le macchie sono un semplice ausilio per principianti. Sei tu che ti spostiquando vuoi. L’ultimo scoglio sarà imparare a definire il luogo diarrivo.”

“Non ci riuscirò mai, vero?”

“Non lo so. La mia impressione è cheforsealla fine saprai dove stai andando.”

“Conosco il problema, non preoccuparti.” Mai saputo scegliere una meta e un percorso sensato in vita sua.

A pochi metri dal mare c’era una bella casetta bianca, una di quelle in cui avrebbe da sempre desiderato abitare. Norma guardò all’interno, vide se stessa e le prese un colpo, sia per il brivido dello sdoppiamento che per l’evidente minore età e migliore forma fisica del suo doppio. Anchel’altra Normastava scrivendo. Si avvicinò per spiarelo schermo del computer.

“Ci fu l’eclissi di fine millennio. Fu non èadatto, perché è successo mercoledì scorso. La dimensione di tale fenomeno deve però essere passata o futura, nel primo caso per scongiurare la paura della fine del mondo, nel secondo per evocare ancestrali paure del buio. La sua stessa natura di cosa breve e intensa lo richiede.

Non fanno che dire di non fissare il sole mentre gli si sovrappone la luna, perché si può danneggiare la retina e restare per tutta la vita con un pallino nero in mezzo alla pupilla. Ed è stata proprio questa apparente controindicazione che per un attimo mi ha fatto desiderare di rivolgere uno sguardo diretto all’eclissi.Perché con un pallino nero in mezzo alla fronte potrei evitare di vedere la faccia di un bel po’ di gente. Esoprattutto perché avere un sole tatuato negli occhi non deve essere un’esperienza così terribile. Sarebbe l’occasione di avere addosso qualcosa di bello, finalmente.

Ma, a parte la poesia, il sole non l’ho guardato che per un attimo.

Avrebbe mai voluto il sole tatuarsi nei miei occhi?

E insomma l’eclissi di fine millennio è arrivata. Non lo sapevo, quel giorno, ma aspettavo un bambino. La cosa strana è che sono passati meno di dieci giorni e mio figlio è di là che guarda la televisione. È già adolescente. Questa stranezzaè accaduta solo a me? Forseil tempo si èpiegato, assumendo una curvatura irregolare. Ma cosa sto dicendo? Il fatto èche vivevo sola fino a nove giorni fa e adesso ho un ragazzo di quindici anni, mio figlio, per casa.Cosa è successo quando si è oscurato il sole? È cambiato l’assetto del tempo?Senza conseguenze, perché pare che nessuno se ne sia accorto a parte me. Tutto qui.”

Norma leggeva in silenzio le parole che il suo doppio stava digitando ed era basita. Le faceva comunque tenerezza che in un punto ics di un universo parallelloil suo clone carino condividesse la sua stessa passione per lo scrivere.

Poveraccia. Anche lei è un po’ andata di cervello, e da questa letteratura non ci tirerà fuori il pane, proprio come me.

Restavauna domanda: che cavolo ci faceva lei in un paradosso temporale a sbirciare un’ipotetica se stessa più magra e più giovane di dieci anni?

Forse doveva svegliarsi. E da cosa? Che bello quando succedono cose assurde e poi si scopre che è un sogno. Quando ci si trova ripetuti e clonati è meglio sapere subito che si tratta di una mistificazione della realtà. Altrimenti uno si confonde. Come si può chiamare una cosa così? Magari Complesso di Giano, che un po’ rappresentail nostro desiderio di essere ogni tanto un’altra persona rispetto a quellache siamo, peròsolo per scherzoo in unarealtà parallela e irreale. E se questo nostro alter ego speculare generato da questa malattia mentale fosse meno nebuloso del previsto?

Mentre era intenta a leggereil suo doppio, che si era accorto della sua presenza, la colpì violentemente alla schienae la gettò aterra.Norma guardòdolorante la se stessa atletica.Il Complessodi Giano di cui soffriva in quel momento aveva la mano pesante, accidenti.

L’altra Norma realizzò la somiglianza e restò di pietra. Dopo untempo non quantificabile allungò la mano verso di lei, come da una lontananza, e quel braccio che arrivava da un’altra vita Norma lo afferrò con poca forza e poca convinzione, svenendo subito dopo per il male.

Si svegliò nel suo letto, con un livido che si gonfiava sul fianco. Chissà com’era quello sulla schiena. Non riusciva nemmeno a toccarsi.

“Orrendo.” Confermò CK. “L’universo ha iniziato a collassare, il tempo ha già le prime crepe. Dobbiamo fare in fretta.”

“Sai che inizio a crederti, CK? Ho un incarico che non so portare a termine, e peraltroneppure iniziare. Non sono un’eroina, questo è chiaro. Non sono nessunoe tu sei un fantasma.Ho seri dubbi sulla mia salute mentale.E adesso cosa facciamo?”

Norma si alzò con una smorfia di dolore e si trascinò fino al primo antidolorifico, che mandò giù con un bicchiere di prosecco. Tantoormai…

Fece una doccia, dormì un paio d’ore, decise di rinunciare all’impresa di salvare il mondo e poi andò a prendere i bambini. Li portò ai giardinetti, cosa che non faceva mai. Dopo una mezz’ora Ludovico si avvicinò.

“Non rinunciare, mamma.” le disse.Accidenti, sapeva già tutto. Era inutile far finta di non capire. Tanto ormai…

“Non so cosa fare, Ludo. Non sono la persona adatta e non ci capisconiente.”

“Lo so, mamma, ma non c’è scelta, lo sai.”

“Ma cosa vuoi che sappia? Mi sembra tutto un sogno.” Però i lividi erano veri e si vedevano bene.

Se era tutto vero, cosa che continuava a faticare a credere, che

sarebbe successo ai suoi figli? In ogni caso l’idea che si era fatta è che tutto si sarebbe svolto con poco solenne rapidità. Ma cos’è un universo che collassa? Boh.

Come faia immaginare l’ineluttabile che schiaccia te e tutto ciò che hai conosciuto fino a quel momentoe non correre da uno psichiatra a farsi prescrivere qualcosa di forte? Iniziò a convincersi che il problema esisteva davvero. Sempre cheuna cosa del genere possa essere definita problema.

Bella idea, comunque, rendersi conto dell’imminentefine del mondo dalla panchina deiparchetti.

“Norma, devi riprenderti.”

“Vedi, Ludo, questostregone ormai non mi lascia in pace nemmeno un attimo. Èsempre tra i piedi.

Comunque devo smetteredi prendere le medicine con il vino. Digli qualcosa.”

“Vedi, CK, forse la mamma non può curare la malattia della specie umana.” Finalmente una frase sensata.Ecco, lei non poteva guarire nientee nemmeno ci voleva provare.

Lei non poteva fare altro che starsene lì sulla panchina a farsi cadere addosso il mondo.

Una vita è un muoversi a caso, e la considerazione di ciò che ha senso o meno soffre di variazioni strane. Norma aveva deciso di reagire e dopo poche ore si era lasciata andare. Era statatentata dal desiderio di intraprenderela lotta, magari poi ci poteva scrivere sopra un libro. Ma quando mai? Tanto non l’avrebbe mai finito.

“Torniamo a casa.” Ludovico, che aveva già per mano quella delfratello, prese anche la sua.

Rientròsvuotata e si lasciò andare come un sacco sul divano. Alzò

lo sguardo. Sul quarto scaffale della libreria c’era un pupazzo dell’UomoRagno che la salutava. È rotto, come me. E per sopravvivere si arrampica sugli specchi. Come me. Io e Spider Man abbiamo molto in comune. Entrambi le prendiamo di santa ragione e pensiamo di stare bene in rosso.

Le botte che aveva preso dalla sua copia esatta, spuntata da non si sa bene dove, l’avevano traumatizzata, non c’è che dire, e facevano male anche nella dimensione solita, quella dove era sempre stata e che per lei era semprestata l’unica. Per tutta la vita aveva cercato di entrare in un mondo parallelo e ora che la sua mano apriva una porta incredibile, che la portava in luoghi su cui avrebbe potuto scrivere robe magari interessanti, lei non aveva proprio nessuna voglia di sperimentare. Meglio ritirarsi, camuffarsi. Sospettò che quell’ansia che aveva sempre avuto nelle dita per la parola scritta fosse il riflesso di questo suo destino ignoto, che ora conosceva e governava allo stesso modo dello scrivere: da schifo. Girava a vuoto tra esperienze inutili e orribili e non aveva scoperto niente di niente, nemmeno come dare una logica al suo muoversi. Questa faccenda del collasso dei mondi forse non la impensieriva abbastanza? Doveva impegnarsi sul serio. Desiderare intensamentedi farequalcosa e insiemedi scappare. Il desiderare è una brutta bestia, difficile da domare.

E, desiderando confusamente, all’improvviso Norma viaggiò. Ecco che si trovava in una villa favolosa, a una festa. Mai le era sembrato di voler partecipare a un party in una casa di lusso, però in ogni caso era contenta di essere lì se poteva servire a scoprire qualcosa. Tanto era certa che quell’impiccione di mago era da qualche parte che la controllava, anche se non si faceva vedere. Scoprì che quella era casa sua (un gran bel mondo parallelo, decisamente meglio di quello con i cloni che menavano le mani) e che gli invitati erano attori. Lei non era sciatta come al solito: era pettinata ed era bella. Indossavaun vestitoda sera, scarpe intonate (primavolta in vita sua che succedeva. Infattiquella non era la sua vita)e un bicchiere in mano. Tutti le parlavano e tutti erano favolosi. Arrivauna tizia che la invita da qualche parte, tipo un locale notturno. Normaè sul punto di salirenella macchina lussuosa della donna, èfelice e insieme hala sensazione sgradevoledi perdere tempo.

“Ehi, ho sul groppone tre figli, un mago noioso e un mondo che può implodere tra un attimo. Ma che sto a fare qui, la cenerentola decrepita?”

Così diceall’amica mai vista prima che preferisce non andaree si trovaa fare i conti con un profondo botto sonoro interiore. Sul sedile posteriore èseduta la personificazione di una fantasia sentimentale di tanti anni prima, inseguita in una memoria dell’adolescenza lontana.

Ed ecco che inquel momento Norma realizzala pericolosità estrema di ciò che stafacendo, perché viaggiare implicail rischio di perdere di vista la realtà, sempre che essa esista.

“I miei figli.” pensamentre declinal’invito. Si volta e rientra a casa, con la gola che bruciaper la tentazione.

Ma che succede? Non riesco più a distinguere il presente dal passato, oltre che il vero dall’immaginario? Ma questa Cenerentola rancidasono io?

Norma desiderò intensamentetornare alla solita realtà, ma si trovò nelsalone della festa, ora vuoto. Non riusciva a distaccarsene e così aprì una bottiglia e si versò un bicchiere di champagne. Era la prima volta che lo beveva senza dispiacersi di aver aperto una bottiglia che in fondo poteva esser conservata per un’occasione più valida. In quella l’uomo che aveva visto in macchina e che avrebbe voluto seguireentrò nella stanza. Norma lo vide e fu contenta che non se ne fosse andato. Ma non volevacompiacersi di quella presenza perché doveva tornare dai suoi figli e da CK, cosìuscì in giardino. E poi non era capace di affrontare un uomo che nella realtà quella vera (sempre che esista)non si sarebbe mai potuta permettere.

Ma che misera creatura sei tu, che te ne stai in ghingheri tra le aiuole con un divo ectoplasmae di là c’è l’abisso che attende i tuoi figli?

Mache razza di viaggioera quello? Che macchia del suo cervello l’aveva portata lì?

Lui la seguì e parlaronotutta la notte nel gazebo.Norma percorreva i suoi occhi, lasciandosi andarefinalmente in una vita soddisfacente. E i suoi figli? La fine del mondo?

Certo, certo, tra un secondo se ne sarebbe andata. Un secondo ancora, soltanto uno.

Mentre infine si decideva a tornare a casa, lo guardava e lo guardava. Che paura, aver voluto per un micron di attimo dimenticare tutto per un uomo così bello.È come preferire l’inferno al paradiso, o piuttosto come confonderli. Il peccato ha una gran bella camicia bianca, e un abito elegante, una cravatta grigia e rosae gli occhi grigi.Voleva restare lì e fare finta dinon dover tornare.

Si vergognò perché stava compiendo una profanazione, perché quel maledetto Complesso di Giano aveva il lato negativo che, avvolgendo l’individuo nelle nuvole dei desideri inespressi, faceva dimenticare il resto. Ludovico, Samuele,Maddalena. Anche CK.

Norma, con immenso sforzo, come se la sua stessa mano fosse irraggiungibile e persa dentro una nebbia lontana, fece un’infinitesima carezza di una falange sulla boccadell’uomo dei suoi sognie poi si strofinò il palmo fin quasi a escoriarne la pelle. Doveva sparire veloce, anche se la volontà di andarsene non c’era.

Al ritorno ebbe una crisi di vomito. Non era mai stata così male, nemmeno nella piana di cadaveri sanguinanti. Quella della bellezza e della spensieratezza era una tentazione nel deserto. Era un invito feroce alla resa, molto più mostruoso che la vista della morte.

Stavalì come una mammaluccasul divanoa trattenere nella retina l’immagine dell’uomo che aveva lasciato in quel suo giardino perduto, mentre stava succedendoquello che stava succedendo(ma cosa diavolo stava succedendo?).

“Va bene, Norma, è ora di cena. Alzati e metti su l’acqua per la pasta.” Si ordinò. Sentiva il bisogno di punirsi, perché un peccato commesso in un mondo paralleloè grave come uno compiutonella realtà, ma poi mandò all’inferno se stessa e i suoi pensieri da repressa.In fondo quando viaggiava il tempo non passava, no?

“E se CK e Ludovico scoprissero dove sono stata e quello che ho fatto? E se sapessero già che ho desiderato dimenticarmi di tutto? In fondoho fatto poi di così grave? Ho solo parlato con un’immaginedella mia adolescenza. Vedi cosa succede a negare i propri sentimenti troppo a lungo? E io sarei uno scrittore? Meglio apparecchiare la tavola.”Comunque stavolta non mi ha seguito nessuno. Sto migliorando la tecnica.

“Non preoccuparti, sono cose che capitano.” Eccolo lì, CK. No, anche stavoltaa quanto pare l’aveva seguita

e l’aveva vista rendersi ridicola. Sprofondò nellavergogna.

Si sentiva in colpa per essersi comportata come una sciocchina. Chissà perché una madre e controllore e scrittore (del menga in tutti e tre i casi) si era persa negli occhi di un divo del cinema, tra l’altro defunto da un decennio.

Puntuale arrivò la risposta dello stregone.

“Hai troppe cose in sospeso. Così non va, non procederai di un passo nell’indagine se non affronti i sentimenti che neghi. Ammetterli ti aiuterà.”

“Guarda che io non devo confessare proprio niente.”

“Sicura?”

“Sicurissima.”

“Devi perdere qualche ora a riflettere suun paio di cosette. È solo un consiglio.”

Norma non capiva cosa il mago volesse intendere. “Se c’è una persona che non se la racconta mai quella sono io.”

“Allora non c’è problema.” CK svanì con il sorriso serafico di uno che aveva capito. Chissà cosa aveva capito.

Dopo cena Norma chiamòMadda.

“Come stai? Diego?”

“Bene tutti e due. Come stai tu, piuttosto. Hai una voce che viene dal fondo di una caverna.”

La fortuna di aver cresciuto un quasi coetaneo dello stesso sesso è il capirsi.

“Sono a terra. Una persona – non posso dirti chi – mi ha raccontato che ha un problema grande come il mondo (e non posso dirti quanto sia rispondente l’espressione) e io non so come aiutarla.”

“Davvero? Mi dispiace tanto. Secondo me sei stanca. Sai cosa facciamo? Venerdì portiamo i bambini al cinema e poi li teniamo qui per il week end. Li vado a prendere io a scuola. Domenica andiamo al lago con papà. Ci vediamo domenica sera. Così hai tempo per riposarti e magari anche per lavorare al tuo libro.”

“Ti ringrazio. Ciao, tesoro.”

Chiamò Mattia, senza sapere perché. Voleva avere una qualche conferma di qualcosa, senza sapere di cosa si trattasse. Aveva la fitta, sperava che così passasse.Era una fitta diversa dal solito, di natura per così dire sentimentale. Colpa del divo defunto che aveva guardato troppo nel gazebo.

“Scusa, Norma, ma in questo momento non posso. Ti chiamo domani.” Norma si sentì uno scocciatore importuno. Sempre stato così lui. Lei glielo rinfacciava sempre, che avrebbe potuto chiamarlo in punto di morte e dirgli che era in punto di morte e lui, se stava parlando con qualcuno, l’avrebbe liquidata con la risatina e richiamatapoi tramite seduta spiritica.

Norma fu sollevata che il suo ex fosse così evasivo e non vedesse l’ora di liberarsi di lei. Questo però non risolveva la faccenda della fitta. Anzi.

 

 (segue)

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