“Il complesso di Giano”, Capitolo 7

Pubblicato il 19 Luglio 2018 in Letture Ideas

 “Il complesso di Giano”, Capitolo 7

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Quella mattina si svegliò senza pensieri, senza ispirazione e senza desideri, in un silenzio ottuso e calmo. Non si aspettava niente. Perché l’essere umano attende, attende così spasmodicamente sempre qualcosa che sembra farlo per lavoro. Si inventa le feste, per aspettarle, e la sua stessa venuta al mondo giunge dopo un’attesa. Norma ogni giorno aspettava senza pazienza qualcosa di nuovo, sorprendente, diverso dal giorno precedente. Ora era felice di essere in uno di quei miracolosi frangenti in cui tutta la vita sta appiattita su un fondale lontano e si sperimenta il lusso di non aspettare, perché il peggio è finalmente arrivato. 

Faceva colazione guardando in ipnosi, sul tetto della casa di fronte, il solito corvo in bilico sull’antenna, la quale oscillava per il peso dell’animale. Ludovico e Samuele lo trovavano esilarante.

Una bella luce s’infrangeva sulla facciata della casa del corvo e Norma lo ritenne un buon segno. Pensò a Gabriele, ma abrase subito il pensiero perché già il solo predisporsi a immaginare l’amore prospettava labirinti di attese avvoltolate a spirale che le facevano un po’ senso.

“Va meglio adesso?”

Le venne un colpo. “Mi hai spaventato, diavolo di un CK. Non ti hanno insegnato a bussare, prima di entrare nelle scatole craniche altrui?”

Fine del momento si fa per dire magico.

“Allora, sei pronta?”

“A fare che, CK? A spendermi in una relazione difficile, alla mia età? A salvare il mondo, alla mia età?” Dopo i bei minuti del corvo nero, ecco tornare l’attesa ad avvolgersi tutto intorno, bella pesante come sempre. Le vennero in mente la sciamana, il robottino vicino al bambino e le ciabatte insanguinate nella piana dei cadaveri. E Gabriele che beveva dal suo bicchiere.

“CK, dimmi cosa c’è di vero in questo mondo del cavolo.”

“Cerchi forse qualche certezza, Norma? O preferiresti qualche speranza? Se cerchi risposte, prima dovresti trovare le domande.”

“Dimmi un po’, nello sgabuzzino dove hai raccattato questa massima ce n’erano altre o era l’unica?”

Squillò il telefono e Norma cadde subito nell’ansia da giorno dopo, quella che prende quando a mente diciamo fresca ci si trova a rimestare una brutta figura. Sapeva che era Gabriele, primo perché i suoi poteri da controllore si erano affinati e poi perché pure uno stoccafisso avrebbe capito che si trattava di lui, che quando diceva che avrebbe fatto una cosa la faceva. Aveva ereditato il maledetto senso del dovere dal nonno generale – l’aveva ereditato per interposta persona, perché suo nonno non l’aveva mai conosciuto – e la sera prima aveva detto che l’avrebbe chiamata.

Non ci poteva pensare, alle stupidaggini che aveva detto, e le si seccavano le fauci al solo pensiero di dover affrontare quel poveraccio a cui aveva fatto quello che aveva fatto.

Non trovò il coraggio di rispondere.

CK si spazientì. “Credevo avessi deciso di prendere tra le mani la tua vita.”

“Non adesso, però. E dire che mi ero svegliata bene.”

Il telefono squillò di nuovo. Un uomo di un’insistenza perniciosa. Perché non la smetteva?

Sollevò la cornetta con una voce da patibolo.

“Ciao, Gabriele.” Secchezza delle fauci.

“Come facevi a sapere che ero io?”

“Puro intuito senile, caro capitano.” Era sepolta in un imbarazzo solido.

“Piantala. Non è stato facile chiamarti.” Gabriele sapeva essere diretto.

Norma si raggelò per un secondo, poi, visto che il muro abbattuto la sera prima non era stato ricostruito durante la notte, pensò che non valeva la pena frapporre nuove distanze. “Anche per me è complicato. Come stai?”

“Non lo so, Norma. Fino all’altro ieri uscivo con Marina.”

E chi era Marina? Ah, sì, certo. “Sono stata una stupida, Gabriele.” Non riusciva nemmeno a essere gelosa, perché era troppo mortificata.

“Non preoccuparti. Lei esce anche con un altro. Sai bene che io sono sempre stato una seconda scelta.”

“Vuoi anche spararmi, già che ci sei? So di aver sbagliato.”

“Insomma, Norma, quello che mi hai detto ieri sera lo pensi anche oggi?”

Norma sentì una grossa immensa fitta che riassumeva tutto ciò che Gabriele aveva compresso dentro di sé per tutto quel tempo. Gli doveva una dichiarazione di resa. “Certo, capitano, anche oggi penso di amarti.”

“Ok.”

“Pranziamo insieme?”

“Cosa devo rispondere?”

“Dì di sì, Gabriele. Aiutami.”

“Ok.”

“Ci vediamo alla una. Ciao.”

“A dopo, Norma.”

Solito saluto informale, ma Norma percepì infine una lontana incrinatura della voce di Gabriele in entrambe le sillabe del suo nome, non più solo nella seconda. Non aveva avuto il coraggio di chiedergli se era corrisposta, perché sentiva di dover espiare la sofferenza che gli aveva inflitto. Come aveva potuto lei, creatura sciatta e informe, essere amata da una creatura perfetta e non capire?

“Forse sono troppo distratta, CK, ed è per questo che non capisco niente.”

“Sì, è così.”

“Sei proprio un consolatore dei miseri. Comunque a pranzo non ti invito.”

“Tanto non mangio da mille anni. Però, prima che tu ti metta a cucinare l’arrosto, dobbiamo tornare alla piana dei cadaveri.”

“Lo so.”

Il tempo in quel luogo di certo trascorreva, perché l’odore ormai era disgustoso. Norma non si sorprese di vedere la sciamana, che le chiese ancora del robottino.

“Non riesco a capire quale connessione ci sia tra questo posto e il furto del robottino. Non è che il mio furto ha provocato questa carneficina?”

“Mavalà.” Sbottò CK. “Tu non sei certo il centro dell’universo.”

“Scusa.” Certo che no, lei era una nullità.

“Norma, vai laggiù.”

“Dove?”

“Vicino al bambino che hai visto ieri.”

Sapeva dov’era quella povera anima con la maglia a righe bianche e azzurre. Quelle righe macchiate di sangue le si erano stampate nel cervello. Si avvicinò scossa da conati di vomito e dal dispiacere.

“Non vedo niente.”

“Guarda bene.”

Inspirò quell’aria malata e vide tra i corpi il clone del robottino rubato, tutto macchiato di sangue. Non si chiese se era proprio lo stesso robottino o semplicemente uno uguale. Si terrorizzò e basta.

Murukai era lì riverso tra i cadaveri. Sembrava morto anche lui. Che cosa ci faceva lì il giocattolo di suo figlio? Oddio, Ludovico. “Dov’è mio figlio?” gridò.

“Al lago con i suoi fratelli che gioca. Tranquilla.”

Norma non riuscì a sentire la frase, perché era già nel suo salotto che componeva un numero di cellulare.

“Ciao, Maddalena, tutto bene?” Tutto rimase sospeso, fino alla risposta.

“Benissimo, stiamo andando a mangiare i pesciolini alla griglia. Vuoi salutare i bambini?”

“Sì.” Sentire le loro voci le restituì la circolazione sanguigna, la vita. All’improvviso si ricordò dell’arrosto e dell’invito. Che cretina! Non faceva che combinare disastri.

“C’è anche Matteo. Lo vuoi salutare?”

Non che le interessasse, ma ovviamente Maddalena glielo passò senza aspettare la risposta.

“Ciao, Norma, come stai?”

“Bene. Scusa, devo andare. Ho un impegno per pranzo.” Evitò di dire con chi perché non aveva voglia di dare spiegazioni. Aveva altro a cui pensare. “Buona giornata, Mattia. Buon divertimento.” Per la prima volta dopo tanto tempo era stata quasi gentile con lui.

Tornò alla piana. Ormai si destreggiava con abilità somma – somma in relazione alle sue scarsissime capacità di destreggiamento – nelle presunte altre dimensioni che suo malgrado ormai frequentava.

“Cosa c’entra mio figlio? È stato qui?”

“Non credo. Ma ho il sospetto che in qualche modo conosca l’autore di questo scempio. L’ha visto da qualche parte, prima che questi cadaveri fossero portati qui per essere occultati e dimenticati. Non so dirti altro.” Disse la sciamana, che era sempre tra i piedi.

“Devo parlarne subito con Ludovico. E tu, CK, non è che hai portato qui mio figlio? Ma sei impazzito?”

“Lui è un controllore molto potente, non ha bisogno di nessuno per viaggiare. Lascialo stare, ora. Gli parlerai quando torna. Mi sembra che tu abbia un impegno per pranzo.”

“Non devi far spaventare nessuno, Norma. Resta salda e vai dal tuo ospite.” Disse la sciamana.

“Ma perché voi stregoni vi preoccupate più della mia situazione sentimentale che del destino dell’universo?”

“Tutto è collegato, Norma, e tu dovrai cambiare le tue convinzioni sul concetto di priorità.” disse CK mentre tornavano.

Norma – ormai il suo concetto di realtà e priorità era deviato – si dedicò al suo arrosto con patate e preparò un creme caramel. Si vestì in modo fin troppo spartano, indossando una maglia bianca che aveva l’appeal di una canottiera a manica lunga e mise sopra uno scamiciato nero che avrebbe potuto trovare migliore impiego come straccio per la polvere. Poi si guardò allo specchio pensando se doveva truccarsi. Dopo lunghi minuti di indecisione, optò per una riga nera di eyeliner intorno agli occhi. Infine, tra il vestito bicolore e gli occhi pesti, pareva in tutto e per tutto un panda, e in più si sentiva in via d’estinzione.

Il citofono suonò che mancavano cinque minuti alle 13.

Quando vide le rose rosa, Norma fu talmente travolta dalla tenerezza che per un attimo riuscì persino a non pensare al sangue che nell’altra dimensione intrideva le sue ciabatte.

Gabriele aveva il sorriso calmo di uno che si sa controllare ed era così elegante che lei si sentì il plantigrado che era.

“Non credere che abbia indossato la prima cosa che mi è capitata, sai? Ci ho pensato, prima di conciarmi così!” esordì.

“Eh? Cosa dici?”

“Era un modo per rompere il ghiaccio.”

“Quale ghiaccio? Quello che crei tu? Tranquilla, non sono venuto a mangiare te.”

Non le si avvicinò nemmeno. Appoggiò le rose sul tavolo.

“Scusami, Gabriele, se sono in totale imbarbarimento mentale e sembro un panda. Sono felice di vederti ma mi sento anche male, perché in realtà è la prima volta che ti vedo. Mi spiego? È la prima volta che ti vedo da quando sai quello che provo.”

“Forse non dovevo portare le rose.”

“No, ero così già prima. Le rose sono il petalo che fa traboccare il vaso. Aperitivo?”

Si sedettero in poltrona ai poli opposti della sala. Gabriele, seduto al tradizionale posto di CK, centellinava un goccio di vino, mentre Norma iniziò ad abbuffarsi di patatine e olive.

Lui pareva desolato nel vedere una donna non giovanissima così tragicamente goffa. “Facciamo una bella cosa, Norma: ci comportiamo normalmente, come facevamo prima di ieri sera. Cominciamo dalla normalità che c’era nel nostro rapporto.”

Avendo di recente sperimentato come la normalità non abbia alcun fondamento nella realtà o in chi per essa, Norma si alzò, inglobò il vino in un sorso, inciampò nel tappeto, si sporse verso Gabriele e lo baciò castamente sulla guancia, ma con inaudito trasporto.

“La normalità che c’era nel nostro rapporto mi sto sforzando di dimenticarla.” Gli disse fissandolo con i suoi occhi cerchiati di nero.

“Hai ragione. Sembri un panda.”

Pranzarono con calma, ridendo spesso e lei ogni tanto toccava le rose, che nel frattempo aveva messo in una caraffa. “Non possiedo nessun vaso.” Si giustificò, mentre lui continuava a compatirla.

Si alzarono da tavola per prendere di nuovo posizione su due poltrone distanti e stavolta lui bevve il porto da un bicchiere proprio. Erano le cinque del pomeriggio.

“Devo andare. Prendo servizio tra un’ora e mezzo.”

“Sì, i bambini arrivano alle sette e non ho ancora stirato.” Le venne in mente il robottino tra i cadaveri. “E poi, sai, devo visitare un paio di dimensioni parallele, amore mio.” si disse la frase solo nel pensiero, ovviamente. Soprattutto le ultime due parole riusciva a formularle solo lì, per ora, perché anch’esse facevano parte della sua ultima fase di follia, o di guarigione che dir si voglia. No, follia.

Davanti alla porta si trovarono vicini e solo allora lui con sforzo le prese una mano. Per tanto tempo aveva fatto in modo di toccarla solo quando era necessario, attento a non trasferire nel contatto nessun sentimento.

“Non ho ancora dato a me stesso il permesso di avvicinarmi troppo. Mi sembra di tradire Mattia, i bambini, i miei doveri di soldato.”

“Ti capisco, perché anch’io mi sento un traditore degli affetti, e in più un traditore della patria per aver fatto questo a un rappresentante dello Stato. E anche un traditore del momento opportuno, per aver combinato un pasticcio così puerile alla mia età. Sono una campionessa delle esternazioni inopportune. Ma non una campionessa vincente, bensì del tutto mediocre.”

“Norma, tu parli troppo. Sai cosa ho detto a me stesso per tanti anni? Che a un rappresentante della legge non può non venire naturale amare una Norma.”

Il discrimine tra ciò che è opportuno e ciò che non lo è in certi casi è talmente sottile che, più ci si muove sul confine che esso disegna, meno si capisce da che parte si dovrebbe cadere. L’unica cosa certa è che prima o poi, appunto, si cade.

E così Gabriele baciò Norma, tradendo finalmente se stesso.

 (segue)

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