La mia mania di pensare a voce alta. E alla voce “geniale”…

Pubblicato il 3 Dicembre 2018 in
L’amica geniale

Io sono specialista per diventare antipatica anche alle persone dalle quale vorrei tanto essere amata. È una specialità che mi segue e mi perseguita da quando sono bambina: la mania di dire sempre ad alta voce quello che penso. Pensando sempre per conto mio, il contrario di tutti e di tutto. Secondo me, che forse non sono infallibile.

Vediamo se riesco a far perdere la pazienza anche a voi.

Devo cominciare dal principio, con ordine. Mi regalano il romanzo della Ferrante  L’amica geniale. Lo leggo in fretta e furia. Non lo trovo geniale, ma poiché tutti invece lo considerano un capolavoro, con maggiore umiltà lo rileggo. E cerco di spiegarmi perché non lo trovo geniale: perché mi rendo conto che, senza scriverci un romanzo, io sono stata una bambina così.

In collegio, essendo più grande e robusta delle mie coetanee, ero sempre quella che sistemava le liti, i bronci, le discordie. A volte anche a pugni. Essendo la migliore della classe, ero sempre quella che aiutava le altre, una o due più delle altre. Dalle elementari all’università. Quella che, dopo, insegnava, scriveva, parlava. Stupiva e veniva ascoltata. Ragazze così forse non ce ne sono troppe o tante, ma parecchie certamente sì. Chi ha vissuto in collegio, lo sa. E forse la pensa come me. Direte: sì, ma qui c’è l’atmosfera, la Napoli povera e sporca, la camorra… Perché, io sono cresciuta forse nel Paese delle favole? La guerra, la deportazione degli ebrei, il fascismo e il dopo. Tutte favole? Ma tutto questo non spiega molto: alcuni milioni di persone hanno vissuto così, ma non hanno scritto un bel romanzo: la Ferrante, sì. E ora il film in televisione per sette milioni di telespettatori. Tutti strani? Certamente no. Il film è girato in modo prezioso, riverente, colto. L’amica genialeGli attori (le attrici) piccoli e grandi recitano un po’ a ‘fermo-immagine’ per stupirci. L’atmosfera è straordinaria, io la riconosco in quella Napoli che anch’io frequento nei miei romanzi gialli. E allora, insisto: che cosa non va a parer mio in quel capolavoro? Le didascalie! Come abbiamo fatto in Piemonte, Veneto e Lombardia a capire, apprezzare, ridere e commuoverci con i DeFilippo, o Toto’, i De Rege … e tutti quelli che ci hanno raccontato miserie e nobiltà nei loro dialetti stretti che pure abbiamo capito, ricordato e persino citato a distanza. Mi direte che questo era un dialetto stretto e quello di Totò era largo, accogliente, gentile… sulla misura della nostra capacità di comprenderlo. In questo caso l’operazione invece era difficile, impossibile o studiata per essere speciale? A qualcuno è venuto in mente che per leggere la didascalia si perdeva l’inquadratura o viceversa? Che la simultaneità per una telespettatrice ragazzina o anziana era impossibile? Che io ho perduto molte battute che sicuramente erano speciali e anche molte speciali inquadrature che avrebbero meritato un attimo di pausa, di riconoscenza. Verso l’autrice e verso il regista. Invece a metà, stanca di non leggere, di non capire o di non vedere, ho spento e sono andata su un romanzo di Hans Tuzzi che senza essere riconosciuto come geniale, l’ho trovato ben scritto, spiritoso, intrigante, ben inserito nell’epoca (gli anni ’80) e nel territorio (Milano) con un personaggio autentico e speciale come l’ispettore Norberto Melis. Lo so che non è la stessa cosa, non era un paragone né un confronto. Che mi renderà antipatica a sette milioni di telespettatori. Per favore, a voi no. A voi io voglio bene davvero. Scusatemi.

Elda Lanza

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