Macchine che pensano: l’uomo e l’automa

Pubblicato il 20 Giugno 2023 in , , da Giorgio Landoni
macchine che pensano

Sempre più spesso si parla di Intelligenza artificiale, della realizzazione di qualcosa capace di pensare pur non essendo, almeno in apparenza, un essere vivente: è l’automa, la macchina che pensa, la realizzazione di un sogno molto antico

Chiunque faccia acquisti su qualsiasi sito commerciale online, come Amazon, oppure ricorra a Siri o ad Alexa, condivida dati sul cloud o navighi in Internet utilizzando i più comuni motori di ricerca, ha incontrato e ha interagito con uno strano essere che, da qualche tempo, circola fra di noi. Ultimamente gli è stata conferita un’identità: Intelligenza Artificiale, quasi nome e cognome.

Dire che un essere è qualcosa di artificiale è già di per sé abbastanza curioso e contraddittorio, però l’essere in questione, vivente o meno, rappresenta uno stravolgimento sconvolgente del nostro abituale modo di pensare. Si tratta, più o meno, della realizzazione di qualcosa capace di pensare pur non essendo, almeno in apparenza, un essere vivente: è l’automa, la macchina che pensa, la realizzazione di un sogno molto antico.

Dopotutto forse però non si tratta d’altro che di:” Una nuova tecnologia la quale cerca di trasformare il processo cognitivo umano come mai dopo l’invenzione della stampa”, così almeno la definiscono H. Kissinger e alcuni suoi sodali.

Una certa preoccupazione non sembra del tutto illegittima.

Macchine che pensano: di cosa parliamo quando ci riferiamo all’intelligenza?

L’intelligenza ha goduto e gode ancora di un notevole prestigio nel sentire comune che tende a farne una qualità molto idealizzata.

Nell’Ottocento, ebbe un certo successo un poema in nona rima, composto da uno sconosciuto autore toscano fra il XIII° e il XIV° secolo, nel quale si sviluppa in forma di visione l’allegoria dell’intelligenza come una donna bellissima, cinta di una corona di sessanta pietre preziose e la cui dimora, dove essa abita con la sua corte, è l’anima, con i suoi sensi, le sue virtù e la sua saggezza.

A parte questo caso in fondo marginale, l’intelligenza in sé non ha mai attirato particolarmente l’attenzione di coloro che si occupavano del pensiero umano. Ci si rivolgeva piuttosto all’intelletto di cui l’intelligenza era semplicemente una manifestazione. Classicamente quest’ultima definiva quel complesso di facoltà psichiche e mentali che ci consentono di pensare, di spiegare o capire i fatti e le azioni, di elaborare modelli astratti della realtà, di intendere e di farci intendere dagli altri, di giudicare.

Inoltre, l’intelligenza ci mette in grado di adattarci a situazioni nuove oppure di modificare quelle esistenti quando queste costituiscano un ostacolo sia al nostro adattamento, sia alla nostra stessa esistenza.

Dal canto suo, il termine intelletto ha una tradizione filosofica di antica origine e la sua distinzione dall’intelligenza come atto che lo caratterizza, non ha mai avuto un significato particolarmente importante.

Possiamo pensare, però, che sia un puro caso se, introducendo l’uso del termine, Anassagora lo usa per riferirsi alla divinità ordinatrice del cosmo?

Sembra significare che l’attività dell’intelletto, l’intelligenza attraverso la quale esso si manifesta, sia da intendersi addirittura come un atto divino avente la funzione di introdurre una legge capace di mettere ordine nel caos trasformandolo in cosmos.

In altri termini: l’intelligenza è quella facoltà che presiede ad atti capaci di introdurre un principio razionale in grado di umanizzare la realtà della natura e questo ha in sé qualcosa di divino.

Come dire: il cuore è necessario, ma la ragione è un’altra cosa, è indispensabile.

Tutta la realtà del mondo porta d’altronde l’impronta dell’intelligenza dell’uomo il quale, da sempre, tende a umanizzare il caos della natura che lo circonda perché, prosaicamente, è costretto a trarre da esso di che vivere per poter in esso sopravvivere.

In questo le caratteristiche dell’intelligenza umana sono molto diverse da quelle dell’intelligenza animale poiché solo l’uomo è in grado di umanizzare qualsiasi ambiente, unico animale in grado di vivere in qualsiasi ambiente sulla terra.

Macchine che pensano: l’intelligenza artificiale

Da qui il problema: è possibile creare artificialmente questa caratteristica umana? Dico creare e non riprodurre perché il passaggio che viene ora proposto sembrerebbe essere quello di produrre qualcosa che ne riproduce una caratteristica fondamentale e, addirittura, sia in grado di funzionare in modo autonomo: la macchina che pensa.

Qualche filosofo sostiene che in fondo essa esiste già nel senso che tutta la cultura funziona da sempre come una sorta di grande automa, una macchina mossa e governata dal sogno di resuscitare il fantasma dell’origine e di impadronirsi in tal modo di quello che eternamente “si muove da sé”, cioè la sostanza immaginaria e fatale dell’automa immortale.

Possiamo anche accettare un’idea di questo genere se pensiamo che esiste un elemento costante nella storia dell’umanità che potremmo chiamare “la costruzione di idoli”.

A tali idoli ci si può rivolgere con gli atteggiamenti più vari, come è sempre accaduto e da questo punto di vista si potrebbe vedere anche l’intelligenza artificiale come uno dei tanti idoli di cui è costellata la nostra storia.

Come tutti gli idoli, anche l’intelligenza artificiale presenta allora i suoi lati oscuri.

Può essere utile chiarire però, che quella che noi oggi chiamiamo IA non è qualcosa di immateriale, magari un software molto raffinato, bensì appunto una megamacchina che, anche se noi la immaginiamo come qualcosa di astratto, un asettico amalgama di algoritmi e dati posti in un congegno, implica in realtà una materialità molto concreta anche se per lo più ancora piuttosto opaca.

Essa richiede gigantesche infrastrutture produttive: dai cavi sottomarini che congiungono i continenti ai dispositivi personali di ognuno di noi nonché ai loro componenti, dalla trasmissione di segnali che passano nell’aria all’approvvigionamento di dati estratti da ogni piattaforma e dispositivo fra quelli che tutti utilizziamo ogni giorno.

Vi è di più, perché questa “macchina” si impadronisce di moltissime cose: di risorse naturali, di lavoro umano, di privacy, che quasi divora per annettersele e utilizzarle così compromettendo, secondo l’opinione di un numero crescente di persone interessate alla questione, sia l’eguaglianza che la libertà di tutta l’umanità.

Infatti, se osserviamo le reazioni di fronte alla situazione, possiamo notare che esse variano in fondo fra due estremi: da un lato vi è chi, come ad esempio Noam Chomsky, linguista, saggista e polemista, nega decisamente che possa anche solo esistere qualcosa come un’intelligenza non vivente.  All’opposto, un gruppo di 350 “leaders” del settore sottoscrive un appello allarmato e allarmante espresso in questi termini: “Mitigare i rischi di estinzione rappresentati dall’Intelligenza artificiale deve essere una priorità globale insieme ad altri rischi per la società come le pandemie e la guerra nucleare”.

Anche negando la possibilità di un’intelligenza artificiale come fanno Chomsky e altri, resta una preoccupazione che si va diffondendo. Essa riguarda da un lato l’eguaglianza fra tutti gli esseri umani contenuta in alcune dichiarazioni di principio che fanno parte delle nostre comuni convinzioni, dall’altro la libertà di ogni specifico essere umano.
Per non disperdermi troppo su di un argomento che richiede competenze particolari che certo non possiedo, mi limiterei a trattare questi due punti: dove risiede l’eventuale pericolo costituito dalle “macchine intelligenti”, rispetto all’eguaglianza e alla libertà degli esseri umani?

Macchine che pensano: fin dai tempi della rivoluzione industriale

Già la rivoluzione industriale, introducendo macchine che sostituivano lo sforzo animale, dell’uomo e dei suoi sodali biologici su questa terra, generò una forte preoccupazione.

Oggi però le cose sembrano diverse. Se un tempo l’essere umano governava comunque la macchina, senza alcuna discussione al riguardo, oggi il timore che pervade molti indica una situazione opposta: la macchina, in quanto capace di pensare, potrebbe dirigere l’essere umano e governarlo, suo malgrado, secondo le proprie intenzioni?

Da qui le reazioni che esprimono in maniera diversa la stessa preoccupazione secondo un’unica struttura che ripete lo stesso schema di pensiero: cosa accadrà di noi, esseri umani? Sottinteso: potremmo finire e anche molto male.

La questione non riguarda l’aiuto che noi possiamo ricevere dagli strumenti della tecnologia quando essi vanno sostituendo un numero sempre maggiore di funzioni non solo manuali, ma anche intellettuali e operative finora considerate tipiche dell’attività umana. Non riguarda neppure l’uso improprio di un oggetto di nuova invenzione perché, come si sa, a volte il problema non sta nella cosa, nell’oggetto materiale, ma nasce dall’uso che si intende fare di esso. In questo non vi sarebbe nulla di nuovo: colui che arrivò al primo coltello poteva anche pensare di usarlo solo per affettare certi vegetali di cui si nutriva.

Oggi è in gioco qualcosa di  molto diverso: la possibilità che questi strumenti di nuova creazione possano sfuggire al controllo dell’uomo, l’idea che vi possano essere macchine pensanti in grado di impadronirsi dell’umanità sino a distruggerla.

Questa idea esprime una fantasia abbastanza comune, ampiamente illustrata da film e spettacoli televisivi che sono continuamente proposti a spettatori inquieti ma anche affascinati come dimostra, senza alcun dubbio, il grande successo che queste rappresentazioni incontrano.

Il pericolo che qualche essere alieno, e anche le macchine lo sono in fondo, sia in grado di annullare l’umanità è l’effetto prodotto da una fantasia che tutti alberghiamo in fondo a noi stessi. In essa si esprime da un lato il senso di smarrimento che proviamo sempre nei confronti dell’ignoto, e non vi è cosa più ignota del futuro, dall’altro il senso di precarietà collegato all’idea del tempo che scorre e che porta con sé la nostra esistenza.

A questa situazione non si può porre rimedio: l’autorità del tempo è indiscutibile. Il tempo, quel qualcosa  che noi chiamiamo così, produce in tutti  noi una reazione umanamente molto comprensibile se solo pensiamo agli effetti che esso produce.

Come sempre, quando qualcosa è emotivamente troppo difficile da sostenere, noi volgiamo lo sguardo all’esterno. In questo modo la paura del futuro e il senso di precarietà che ci abitano diventano terrore di un nemico sconosciuto e terribile in grado di provocare una catastrofe globale.

Macchine che pensano e gli uomini (esseri umani)

Si potrebbe pensare allora che la questione non stia tanto nell’esito più o meno catastrofico che viene ipotizzato, ma che essa riguardi anche una certa idea di noi come esseri umani.

In breve: se pensiamo di essere macchine, ammassi di elementi chimici controllati e guidati da circuiti elettrici, se pensiamo a noi stessi come automi che vagano nel tempo senza alcuno scopo particolare che non sia quello di farci gli affari nostri, abbiamo mille ragioni di temere che macchine più sofisticate, più ciniche, più egoiste di noi possano presto o tardi soppiantarci.

Se invece riteniamo di essere diversi dalle macchine e di avere, a differenza di quelle, la capacità di interrogarci sul senso del nostro essere al mondo, sul senso delle persone e delle cose, insomma di pensare, allora la questione cambia.

In fondo, le macchine, tutte le macchine, anche le automobiline con le quali tanti bambini dei due sessi iniziano a giocare, sono il supporto materiale, lo schermo possiamo dire, sul quale proiettiamo quello che ci anima, passioni, positive e negative, desideri, ideali, aspirazioni ma anche timori e angosce.

Per usare quel linguaggio tecnologico che nomina intelligenza artificiale il risultato della collocazione di una funzione matematica, un algoritmo, su un supporto materiale, un chip, potremmo dire che tutte le macchine, come ogni elemento della realtà, sono il chip, più o meno grande o sofisticato su cui ognuno di noi colloca il suo proprio algoritmo, quello che lo caratterizza come essere vivente.

Così la macchina è sempre quella, ma il modo in cui noi la vediamo o la viviamo varia in funzione della nostra soggettività.

Si potrebbe allora rovesciare un certo modo postmoderno di presentare le cose: noi non siamo algoritmi, funzioni matematiche, ma usiamo la matematica, insieme ad altre forme espressive, artistiche, religiose, filosofiche, tecniche, per costruire simboli con cui creiamo un mondo di cui trasmettiamo agli altri la forma, la struttura, insomma la nostra visione.

Come il pavone, scrive Pierre Legendre, solenne uccello magico che dispiega le sue penne come specchio alla propria immagine, ma si tratta dell’uomo, che porta la sua immagine senza saperlo.

Macchine che pensano e libertà

Un aspetto importante delle preoccupazioni sull’intelligenza artificiale riguarda dunque il fatto che le macchine potrebbero impadronirsi di noi e privarci della nostra autonomia ancora prima che della nostra vita: potremmo perdere la nostra libertà e diventarne schiavi.

Questo punto comporta un paio di elementi che, pur non articolandosi fra di loro in modo automatico come si potrebbe pensare, riflettono comunque un rischio molto concreto se solo pensiamo, senza troppi falsi pudori, a come siamo fatti in realtà noi umani.

È evidente, anche se non per tutti, che non vi è sulla terra predatore più completo dell’essere umano.

Con questa ulteriore precisazione: le sue prede preferite sono altri esseri umani.

Tornando ora alla libertà, sappiamo tutti quanto questa sia un elemento fragile dell’edificio umano in quanto essa riposa sulla nostra immaginazione nel duplice senso della capacità di illudersi e di usare i simboli che creiamo per ritenere di sottrarci così alla schiavitù della materia.

Ritenerci liberi è dunque abbastanza vicino a un’illusione, se non abbiamo bene in mente il nostro funzionamento reale.

Quando ci si riferisce alla libertà, è molto facile cadere negli eccessi della idealizzazione. Un esempio può essere quello che ci fornisce una favola di Fedro, attualmente presentata come favola per bambini anche se non lo era affatto a suo tempo.

In essa si racconta l’incontro del cane e del lupo e il loro breve dialogo. Al cane, robusto, ben pasciuto, sprizzante salute da ogni poro, il lupo, magro, irsuto, sporco e indebolito da un lungo digiuno forzato chiede dove trovi tanto cibo disponibile. Il cane parla del padrone che, gentilmente, gli riempie la ciotola tutti i giorni. Il lupo nota però un cerchio spelacchiato sul collo del cane: di che si tratta? È il segno del collare che il padrone mette di giorno, mentre la notte il cane è lasciato libero per fare la guardia. Il lupo se ne torna allora nel bosco perché, e questa è la morale di Fedro: la libertà non ha prezzo. Conclusione errata anche se la morale di Fedro ha un suo valore, come tutte le morali.

La questione non risiede infatti nell’alternativa o schiavi o liberi, ma nel problema del quadro che fornisce i limiti nei quali la libertà esiste e dei quali non può fare a meno per esistere

Il marchio del collare è infatti il prezzo che tutti noi, volenti o nolenti, dobbiamo pagare per la nostra liberazione rispetto all’ambiente naturale, alla nostra condizione animalesca di base. Per ciascuno di noi, “l’assicurazione sociale”, il fatto di essere legati insieme, tende a limitare sia i rischi di un deterioramento individuale troppo rapido, sia l’esercizio incontrollato delle nostre attitudini personali.

Questa, piaccia o non piaccia, è la condizione della nostra libertà autentica.

Nessun essere umano può avere alcuna forma di autonomia senza riferirsi a un quadro comune eteronomo.

Come essere sociale, il soggetto umano, il quale non può esistere se non come essere sociale, è assolutamente eteronomo, non autonomo insomma, sin dal suo apparire nella vita. Quindi noi esseri umani, in realtà siamo molto meno liberi di quanto pensiamo e, soprattutto, di quanto vorremmo.

Prendiamo ad esempio la possibilità di parlare liberamente, quella che chiamiamo la libertà di parola, un elemento essenziale della nostra vita quotidiana. La possibilità che ognuno di noi ha di esprimersi liberamente, anche solo per fare qualche vibrante appello a una rivoluzione totale in grado di sovvertire l’ordine ingiusto del mondo, dipende dal fatto di sottomettersi alla legge della lingua ossia di parlare una lingua determinata.

Questo significa che, da bambini, apprendiamo la nostra lingua come qualcosa che non ci appartiene, che è dunque eteronomo nel senso che ci è imposto dall’esterno.

Nessun genitore ha mai richiesto l’accordo preliminare di un figlio, dei due sessi, circa l’apprendimento della lingua “madre” e se possiamo ben dire di avere una lingua madre, essa ci viene da fuori, ci è insegnata o meglio in-segnata: un segno ci è posto dentro, appunto in noi. Solo passando attraverso questa eteronomia della lingua io divento soggetto umano e, in quanto tale, libero di esprimermi. Infatti, se così non fosse resteremmo tutti al livello di vagiti primitivi, incomprensibili per i nostri simili e quindi non si potrebbe dire che siamo liberi. Lo stesso si può dire della regolamentazione che sostiene la società. Occorre che vi sia una legge comune in grado di abilitare ognuno di noi in modo da renderci possibile l’agire liberamente.

Per uno psicoanalista questo equivale a dire che tutti noi abbiamo a che fare con un Superio, la Legge con la maiuscola, insomma una struttura interiore che ci guida nelle nostre scelte mostrandoci in modo vario, più o meno soffice o duro, cosa sì e cosa no, lasciandoci in fondo la responsabilità circa il da farsi.

Se noi aboliamo questo quadro comune, ossia se eliminiamo le leggi, anzi la Legge come principio razionale necessario, non ci potrà essere alcuna libertà perché ognuno di noi si troverebbe in uno stato di autonomia solo apparente, ma in realtà sottoposto al potere della forza: subire quella del più forte oppure opprimere il più debole con la propria forza.

Detto in altri termini, in assenza di una struttura interiorizzata, ci sarebbe spazio solo per strutture esteriori sempre più coercitive.

Questa è la legge biologica del mondo animale, che, nell’essere umano, evolve poi in legami di tipo feudale: io ti favorisco a patto che tu mi sia fedele e faccia il mio interesse.

Un’autonomia di questo genere sarebbe semplicemente la fine del dominio della Legge come noi la conosciamo, del principio di ragione, intelligenza divina secondo Anassagora, e quindi anche della libertà come noi la pratichiamo, bene o male, attualmente.

Algoritmi e IA: un ripetitore che dà risposta alle domande che gli vengono poste

Ora cosa ha a che vedere tutto questo con la cosiddetta intelligenza artificiale? Se ci pensiamo ben poco in fondo, perché quello che così si chiama è solo una  funzione matematica applicata all’informatica per risolvere determinati problemi secondo una procedura data e in un tempo definito.

In definitiva l’intelligenza artificiale è un ripetitore che dà risposta alle domande che gli vengono poste se e solo se quelle domande sono già previste nel suo codice di funzionamento.

Però il problema esiste perché se al predatore di cui dicevo si offre l’occasione, tutti rischiamo di diventare prede.

In che modo, nel caso specifico?

Per il semplice motivo che queste forme di tecnologia mettono in evidenza una questione che già da tempo si faceva sentire: noi siamo chiamati a funzionare al disopra delle nostre possibilità psichiche. Detto altrimenti: ci viene richiesto uno sforzo emotivo e intellettuale di integrazione di dati sensoriali che supera le nostre possibilità di elaborazione.

Insomma, è come se fossimo costretti a mangiare troppo e continuamente.

Di questo esiste la controprova. La proporzione degli individui realmente creativi rispetto alla massa degli umani probabilmente non ha subito grandi variazioni nel tempo. Le persone creative hanno la funzione di apportare alla moltitudine la sua razione di partecipazione sociale e questo è assolutamente evidente nel fenomeno dei cosiddetti “social” dove un/a “influencer” può avere migliaia se non milioni di “followers” passivamente recettivi alle sue indicazioni.

La moltitudine si accontenta di questa partecipazione finta, evitando il contatto diretto con la realtà: accade di continuo, per esempio semplicemente alzando il volume del cellulare che cancella il canto degli uccelli o anche il rumore del veicolo che sta per travolgerti.

Cosa intendiamo allora per perdita della libertà? Forse si potrebbe pensare al rischio di una gerarchizzazione sociale più marcata di quella dei tempi che furono, i tempi feudali, a una stratificazione per selezione razionale in grado di separare certi individui dalla massa per dare loro la posizione di fabbricanti di evasione teleguidata ad uso della massa assoggettata.

Sarebbe possibile quindi che una minoranza sempre più ristretta elabori non solo i programmi vitali, politici, amministrativi, tecnici, ma anche le razioni di emozione di ciascuno, le evasioni epiche come immagini di una vita totalmente artificiale?

Questo pare a me un problema: che l’algoritmo che noi chiamiamo intelligenza artificiale determini la nostra esistenza con il nostro tacito accordo, poiché ci risparmierebbe la fatica di farcene carico, ma impoverendo inesorabilmente l’immaginazione di tutti.

In fondo, l’immaginazione non è altro che la possibilità di fabbricare qualcosa di nuovo a partire da quello che si sente, il vissuto come si dice comunemente.

Se guardiamo al livello mediocre delle comunicazioni che si svolgono sui social media, ma anche delle trasmissioni televisive o degli spettacoli cinematografici composti in gran parte sul montaggio etnografico di esistenze morte, sia in quanto estinte sia in quanto votate alla morte (i violenti di vario tipo che popolano tante trasmissioni), qualche perplessità di questa natura può avere un senso: sembra che vi sia una selezione naturale dei creatori e dei soggetti trattati in grado di soddisfare il bisogno di alimento emotivo della maggioranza statistica dei consumatori i quali ricevono ciò di cui abbisognano e il massimo che possono assimilare.

Pessimismo eccessivo? Può essere, però ciò che l’intelligenza artificiale propone non avrebbe ragione di suscitare allarme se non vi fosse in questo un granello di verità.

In fondo, potrebbe sembrare attraente che, in poco tempo, i problemi di vita manuale siano liquidati in un mondo di persone sane, ben nutrite, tese a far sopravvivere la massa degli umani definitivamente stabilizzata sui suoi limiti. Bellissimo in fondo. Però privando l’homo sapiens di un suo attributo specifico, quello che, dal corpo, alla mano, alla psiche (o mente che dir si voglia), gli assicura il privilegio individuale della creazione sia materiale sia simbolica.