Il delicato, interessante equilibrio tra cultura e intelligenza

Pubblicato il 14 Novembre 2021 in , , da Giorgio Landoni
intelligenza

Se per intelligenza intendiamo quella razionalità assoluta che ci guida sempre nella nostra esistenza, occorre ammettere che è un’illusione, che non esiste se non nei nostri auspici

Un signore afferma: “Ho tre lauree e non mi vaccinerò”. Ho pensato che egli stesse mostrando in questo modo il rifiuto dell’idea che il non volersi vaccinare sia indicativo di uno stato di inferiorità culturale o intellettuale, come sembra spesso di cogliere nella pressione mediatica sull’argomento.

Ora, se da un lato quel signore aveva ben ragione di pretendere che la sua scelta venisse considerata con maggiore riguardo, ne avrebbe avuta, invece, molta meno se fosse stato convinto del fatto che le sue tre lauree dicessero molto più del semplice fatto che le sue facoltà intellettuali, la sua intelligenza, sono di un buon livello, forse superiore alla media, ma solo in certi ambiti.

È assolutamente certo che nessuna laurea accademica, di per sé, potrebbe minimamente spiegare le inclinazioni che lo muovevano in una direzione piuttosto che in un’altra rispetto ai vaccini.

In fondo, rivolgendosi un po’ a tutti, egli diceva più o meno: “Non voglio vaccinarmi, ma non sono né un ignorante né uno stupido! Le mie tre lauree dicono che sono una persona molto intelligente!” e, a prescindere da ogni considerazione in merito ai vaccini e alle vaccinazioni mi sembra che egli ci offra l’occasione di interrogarci su cosa sia l’intelligenza.

Un pregio….. davvero pregiato

Quando, riferendoci a qualcuno o a qualcosa noi parliamo di intelligenza o di intelligente, conferiamo all’oggetto di cui si parla una qualifica particolarmente pregiata.

Cosa è dunque l’intelligenza, questo termine di uso comune, ma che in fondo resta talmente generico da poter sembrare oscuro?

In termini scientifici, per la psicologia moderna, l’intelligenza consiste in un insieme di facoltà che ci consentono di pensare ossia di capire la realtà spiegandone gli accadimenti, elaborando spiegazioni e teorie astratte, formulando ipotesi e concetti sulla base dei quali prendere poi decisioni, indirizzare scelte e assumere i comportamenti più appropriati per ottenere vantaggi o evitare rischi.

Detto in modo sintetico, l’intelligenza riguarderebbe la capacità di elaborare le percezioni della realtà che ci giungono attraverso i nostri sensi per darci una rappresentazione di questa realtà, di quello che stiamo percependo. Così vi è chi parla di intelligenza rispetto alla capacità di capire la realtà, a quella di comportarsi, a quella di svolgere mansioni, di risolvere problemi più o meno complessi e così via.

Si sono elaborate varie teorie al riguardo, in genere di tipo sperimentale ossia basate su esperimenti ripetibili, e si sono anche prodotti test per misurare il livello di intelligenza.

Tradizionalmente la psicologia ha sempre cercato di creare strumenti per valutare l’intelligenza delle persone, per misurarla. Poiché, secondo una concezione diffusa e conosciuta, affinché un metodo sia affidabile occorre che esso non sia solo preciso, ma anche oggettivo, si è ritenuto e si ritiene ancora, pur con molta meno convinzione di un tempo, che i numeri, precisi e obiettivi fossero in grado di fornire indicazioni utili sul livello di intelligenza delle persone.   Molti dei cosiddetti test psicologici erano e sono ancora basati sui numeri per determinare il cosiddetto quoziente intellettuale (QI), in fondo solo una cifra di una scala numerica.

Il quoziente intellettivo

Il cosiddetto Quoziente intellettivo è un numero situato su di una scala che dovrebbe indicare il livello di intelligenza di una data persona.

In realtà si è visto che questi test avevano un valore molto relativo, poiché esistono variabili imprevedibili e non numerabili con esattezza, oltre a contingenze di vario tipo, a fattori momentanei in grado di influire fortemente sui risultati dei test. Per fare un esempio: quanto pesa la speranza? E come si misura la gioia, in centimetri o in litri? È proprio quello che si può ipotizzare accada nel caso del signore che prende la decisione che abbiamo visto.

Cosa misuriamo?

Gli elementi che contribuiscono maggiormente a rendere questi test poco affidabili sono sostanzialmente di due tipi: culturali ed emotivi.

  • Il livello culturale di una persona contribuisce a migliorare o peggiorare i suoi risultati anche in presenza di accorgimenti e correttivi adottati per ridurre al minimo queste possibilità. Per esempio, il signore con tre lauree otterrebbe probabilmente dei risultati molto buoni in alcuni o forse in molti dei test esistenti, certamente, però, non in tutti. Se poi li somministrassimo a un pastore itinerante degli altipiani etiopici ci guarderebbe probabilmente molto stupefatto. Significa che egli sia stupido? Proviamo a rispondere  dopo essere riusciti a elaborare un test riguardante le sue greggi e poi confrontiamo i nostri risultati con i suoi.

Per restare al caso dal quale siamo partiti è chiaro che il rapporto fra livello culturale e intelligenza non è affatto così automatico come si potrebbe pensare.

L’essere alfabetizzati che ci caratterizza in quanto persone di una certa parte del mondo e in una certa epoca, come parte di un’umanità più complessiva, non è di per sé gran cosa. Ha più che altro funzioni pratiche. Difficile circolare in una città se non sai leggere le insegne, gli annunci, le indicazioni stradali, i percorsi dei mezzi pubblici eccetera.

Leggere, però, è semplicemente il fatto di riuscire a dare un senso a certi segni che rendono i suoni della nostra voce. Scrittura e lettura consistono semplicemente nella trasformazione di suoni in segni visibili, ma il fatto di conoscere questi segni, di riuscire a interpretarli ossia a trasformarli di nuovo in suoni della voce, non garantisce affatto che si capisca quello che stiamo leggendo.

Insomma, cultura e intelligenza possono coesistere in una persona, ma non si tratta di un rapporto scontato: si può essere molto colti, ma non è detto che questo significhi essere molto intelligenti.

  • Vi sono poi i dati emotivi: sappiamo che molte persone di fronte a qualsiasi situazione di esame, scolastico oppure medico o anche di laboratorio come in fondo è anche un test, si emozionano, pregiudicando in modo più o meno ampio il proprio rendimento e falsandone, quindi, in varia misura i risultati. È esperienza comune che quando ci emozioniamo il cuore corre più veloce, arriviamo anche a sudare un poco, la vista si offusca e così via. Se certe nostre valutazioni potessero essere fatte sempre prescindendo dalle forti correnti emotive che certi temi risvegliano e che inesorabilmente influiscono sul giudizio corrente, avremmo raggiunto l’ideale di una razionalità perfetta: l’intelligenza ideale che permette sempre di cavarsela. In realtà tutte le nostre inclinazioni sono sempre fortemente caratterizzate da una componente emotiva intensa per cui si può dire tranquillamente che l’intelligenza, come la si intende comunemente, ha in fondo poco a che fare con l’intelligenza reale.

Intelligenza e personalità

Un passo avanti importante è stato fatto quando si è cercato di abbandonare l’illusione che la razionalità assoluta fosse possibile: l’intelligenza è solo una delle componenti della nostra personalità.

Lo studio del rapporto tra questa e le altre componenti della personalità nelle intenzioni di chi lo ha promosso avrebbe dovuto rendere possibile il superamento della tradizionale antitesi fra ragione e sentimento, evidenziando la stretta interdipendenza funzionale fra tutti i processi della vita psichica (percezione, associazione, immaginazione, memoria, apprendimento, motivazione), compresi quelli di natura affettiva.

Questo significa anche che per molto tempo l’intelligenza è stata considerata come un unicum, collegata al concetto stesso di autorità. La semplice idea che un capo, un re per esempio, potesse essere stupido, era più o meno sacrilega. Sembra che sia ancora così oggi in certe parti della nostra Terra, anche a dispetto di certe evidenze o di evidenze certe.

Oggi comunque si tende invece a dividere l’intelligenza in varie componenti in relazione alle funzioni che via via le si attribuiscono, come ho appena indicato. Una componente che contribuisce ad aumentarne il livello è la memoria. Una buona intelligenza non può in genere prescindere da una buona capacità di memoria anche se il contrario non è sempre valido.

Concludendo: se per intelligenza intendiamo quella razionalità assoluta capace di guidarci sempre nella nostra esistenza, occorre malinconicamente ammettere che essa è un’illusione, che non esiste se non nei nostri auspici un poco troppo onnipotenti. Abbiamo solo qualche momento di razionalità pura all’interno di un magma bollente costituito dal nostro fondo emotivo e, quando si parla di intelligenza, esso non può essere ignorato.

Se per intelligenza intendiamo quella razionalità assoluta che ci guida sempre nella nostra esistenza, occorre ammettere che è un’illusione, che non esiste se non nei nostri auspici 

 Ragione ed emozione

Tutti abbiamo fatto l’esperienza nella nostra vita di situazioni emotivamente intense che ci hanno provocato momenti di confusione mentale, di scarsa lucidità ossia di ridotto rendimento intellettuale. Siamo diventati meno intelligenti? Sì ma anche no, nel senso che anche se sul momento le nostre facoltà intellettuali si sono ridotte, questo non significa che il nostro livello intellettuale generale sia diminuito.

D’altra parte, chiunque di noi sa bene di quali stupidaggini siamo capaci in qualsiasi momento della vita. A tutti probabilmente è capitato di domandarsi come sia potuto accadere che abbiamo agito nel tale o talaltro modo in una certa occasione, a significare la nostra sorpresa di fronte a comportamenti o atteggiamenti francamente poco sensati.

Alcuni psicologi, prevalentemente nordamericani, hanno pensato di uscire dalla difficoltà cercando di unire razionalità ed emozioni in un tutt’uno un poco caotico, riferendo l’intelligenza alla maggiore o minore capacità di governare le proprie emozioni.

Probabilmente a qualcuno è noto il nome di Daniel Goleman, uno dei guru della cosiddetta intelligenza emotiva. L’intelligenza emotiva è un’invenzione relativamente recente che si dà come obiettivo quello di considerare il peso della situazione emotiva delle persone nell’uso che esse sono in grado di fare delle proprie capacità cognitive assimilate, più o meno, all’intelligenza razionale. Introducendo questa nuova concezione si sono anche elaborati nuovi test per misurarla ed esercizi per svilupparla.

Alcuni autori hanno quindi inventato un nuovo quoziente, il Quoziente di intelligenza emotiva il quale si propone di misurare l’intelligenza complessiva di una persona attraverso la valutazione del livello della cosiddetta competenza emotiva. Anche se spostata dalle facoltà cognitive a quelle emotive, siamo sempre nel campo delle misurazioni e della ricerca di uno strumento capace di definire l’intelligenza umana in modo talmente preciso da non permettere equivoci di sorta e di permettere contemporaneamente confronti attendibili.

Questa posizione si va scontrando con un’impressione sempre più diffusa di scarsa autenticità, di una specie di insegnamento bonario, di esortazione paternalistica e che tutto possa alla fine risolversi in una manipolazione rivolta all’adattamento della persona agli imperativi sociali che predominano al momento.

Un’idea diversa di intelligenza

Al di là di questo genere di obiezioni, resta il fatto che qualunque misura, per quanto precisa possa essere, non fornisce risposta all’interrogativo: da cosa origina quell’insieme di capacità che collochiamo sotto il nome di intelligenza? Da dove nascono e in che modo? Cosa le produce?

Tentare di approfondire questa questione ci porterebbe in un campo ultraspecialistico che interesserebbe solo un numero molto limitato di persone. Mi limiterò quindi a presentare un’ipotesi psicoanalitica al riguardo poiché essa gode del pregio di una assoluta originalità.

Un punto è importante per iniziare. Come ho già avuto modo di scrivere, noi esseri umani siamo limitati: per esempio il tempo della nostra esistenza ha un limite e questo vale per tutti.

Di più, di qualcosa che ci limiti e che limitandoci ci contenga, che ci inquadri dandoci la sensazione della nostra individualità, di qualcosa che ci costituisca come persone, quella data persona diversa da tutte le altre, noi abbiamo un bisogno assoluto. Nessuno può sentire se stesso come persona, nessuno può vedersi, imparare a riconoscersi se non all’interno di un quadro che delimiti il campo della sua osservazione in modo preciso.

Il limite equivale a chiarirci che noi, pur non potendo essere tutto, siamo tuttavia completi. Pur non essendo tutto, ognuno di noi è pur sempre un essere umano completo.

Tuttavia, noi esseri umani, contenuti nei termini del limite, del finito quindi, conteniamo a nostra volta l’idea e l’aspirazione dell’infinito. L’esistenza di questa idea di infinito si esprime in molti modi: per esempio con la religione, o con i numeri, che noi abbiamo inventato e la cui serie è infinita, oppure ancora con la scala musicale che, con pochi segni, permette di creare una gamma infinita di suoni.

Per tentare di dare un senso a questo infinito che ci caratterizza e che certamente non appartiene a nessuna specie vivente, animale o vegetale, all’infuori dell’essere umano occorre fare un passo indietro.

Per la psicoanalisi la coscienza è solo una parte della nostra soggettività. Vi è dell’altro e questo “Altro” essa lo nomina Inconscio. Nel nostro inconscio noi abbiamo molte cose ma una non ne abbiamo: il limite.

Nel fondo dell’essere umano il limite non è presente, non si fa rappresentare da niente.

Nel nostro inconscio il limite, la fine, la morte dell’essere umano per esempio, non esiste, ma non vi è rappresentato neppure il suo inizio, l’atto che ha dato luogo alla sua esistenza.

Certo noi sappiamo di essere nati e di non poter uscire vivi dalla vita, ma nella profondità del nostro essere manca una rappresentazione di tutto questo.

È come una scena vuota e noi, in fondo, ci muoviamo e pensiamo come se il tempo fosse iniziato con noi e dovesse continuare all’infinito.

Quali conseguenze?

Perché questo? O per meglio dire: quali le conseguenze?

Una conseguenza è assolutamente centrale per capire il senso dell’intelligenza: non avendo in noi praticamente nessuna idea di un vincolo che ci condizioni, di un legame che possa costituire un modello che assorbe tutti gli altri possibili e li indirizza condizionandoli, noi possediamo la capacità di costituire legami e collegamenti, senza alcuna fine, all’infinito, senza alcun limite.

Dire di questa possibilità non significa che tutti ne siamo capaci alla stessa maniera, ma questa capacità fonda il nostro sistema psichico. Unici fra tutti gli esseri viventi, noi possiamo creare, nella nostra mente, ogni tipo di collegamento immaginabile e anche oltre.

L’esempio principe è costituito da tutti coloro che sono capaci di creare e che per questo destano in noi un senso di ammirazione e anche, perché no, di invidia. Ammiriamo i musicisti che creano la musica perché noi possiamo ascoltarla, i poeti e  tutti i letterati che, usando solo una trentina di segni sanno regalarci tutto quello che si legge e che si continuerà a leggere, oppure i matematici che, sempre con una trentina di simboli o poco più, disegnano l’universo con le loro formule misteriose.

Non a caso li ammiriamo: sanno trasmetterci un piacere, il piacere dell’intelligenza umana in azione, l’intelligenza nel suo aspetto e nel suo funzionamento più completo, che non necessita di numeri per farsi valutare e apprezzare.