Quando Roma era un villaggio di capanne – “Il primo re” Matteo Rovere, 2019

Pubblicato il 23 Ottobre 2023 in Outdoor Cinema
Il primo re

Ancora oggi chi visita il Parco Archeologico al centro di Roma che comprende i resti dell’antica Urbe, sulla sommità del colle Palatino può osservare dei fori nello strato di tufo che emerge dal terreno. Si tratta della testimonianza documentale di quando Roma non era che un agglomerato di capanne di legno, fango e paglia costruite in posizione difensiva al colmo del rilievo più vicino al guado del Tevere. Dal punto di vista storico la Roma Quadrata delle origini è esattamente questo: un villaggio risalente all’età del ferro ossia ai secoli compresi tra il X e il VII a.C. Come tutti sanno la leggenda vuole invece che la Città Eterna venne fondata il 21 aprile del 753 a.C. (Natale di Roma) da Romolo, che uccise il fratello gemello Remo poiché costui aveva oltrepassato in armi il solco sacro (pomerio) tracciato con l’aratro per delimitare il perimetro della nuova città.

Il primo re

Tra simbologia e mito

Il film Il primo re, chiara allusione del titolo al primo dei “sette re di Roma”, ha lo scopo dichiarato di riportare al “vero” il mito eponimo (fondante) della città eterna ossia la leggenda di Romolo e Remo. Demitizzando la storia senza per questo abbandonare la dimensione mitica ossia la presenza del soprannaturale nelle sorti dell’uomo. Inteso sia come individuo sia come collettività (tribù, polis o semplice gruppo spontaneo formato per un fine comune che può essere anche solo la lotta per la sopravvivenza). L’ambizione è dunque quella di riportare lo spettatore alle capanne del Palatino sotto l’abbondante stratificazione agiografica dovuta non solo alle centinaia di testi letterari, ma anche a molto cinema, specialmente degli anni ‘50 e ‘60. Da qui anche alcune scelte estetiche molto forti e d’impatto, come la recitazione in latino arcaico, con ovvia sottotitolazione, la fotografia volutamente “sporca” di Daniele Ciprì e la musica di Andrea Farri, molto postmoderna e dunque adattissima per l’antichità più remota. Interessante anche l’uso degli effetti speciali “made in Italy” per le sequenze iniziali (l’esondazione del Tevere) segno che anche la computergrafica può essere utile se usata a scopo creativo e non solo per stupire la platea con irrealistiche carambole.

Il primo re

Usanze ancestrali

Se dal punto di vista storico le cose siano andate proprio così è ovviamente impossibile a sapersi, ma in ogni caso il film ci propone un’ipotesi verisimile. Che spiega anche alcune usanze ancestrali del popolo romano come la passione per i ludi gladiatorii (combattimenti tra gladiatori) e la funzione sociale delle vergini vestali e del fuoco sacro perenne che esse dovevano custodire, pena la morte. Intento riuscito? Alla fine questa domanda rimane senza risposta. Se è vero che si tratta di un’operazione decisamente anomala tanto valeva rinunciare del tutto anche a quel sedimento di mito che rimane comunque di sfondo e riportare il tutto a una pura e semplice lotta ancestrale come con ogni probabilità furono le guerre antiche: il sistema più rapido (anche se aleatorio) per procurarsi le “materie prime”. Gli schiavi innanzitutto, ossia la forza lavoro: il petrolio dell’antichità. Prodotto da Raicinema (quindi pagato dai contribuenti italiani) più alcune consociate nazionali e straniere il film è costato circa 9 milioni di euro e ne ha incassato poco più di due. Unico blooper: il pane bianco. Nell’antichità, visti anche i sistemi di molitura, nessuna farina avrebbe garantito qualcosa di anche vagamente simile a quanto guarnisce oggi i banchi di una qualsiasi forneria.

Il primo re

Il Regista

Matteo Rovere (1982) esordisce alla regia dirigendo il corto Lexotan (2002), vincitore del premio Kodak al festival Linea d’ombra di Salerno. A questo seguono altri cortometraggi e documentari, fino al 2006, quando con Homo Homini Lupus ottiene premi nazionali e internazionali, tra cui il Nastro d’Argento per il miglior corto italiano. Nel 2008 realizza il suo primo lungometraggio, Un gioco da ragazze, cui seguono Gli sfiorati (2011) e Veloce come il vento (2016), il suo più importante successo grazie anche all’ottima interpretazione di Stefano Accorsi. All’attività di regista affianca quella di sceneggiatore e, con Domenico Procacci, di produttore cinematografico e televisivo per Ascent Film e Groenlandia. In questa veste il film più noto passato sulla sua scrivania è Smetto quando voglio (2014) di Sydney Sibilia.

Un utile confronto

Per capire più a fondo il significato del film di Matteo Rovere, può essere utile il confronto con un film di 58 anni prima sullo stesso argomento: Romolo e Remo (1961) di Sergio Corbucci (1926-1990).

Produzione impegnativa, con il gotha dell’attorialità italofrancese: Virna Lisi (Julia), Franco Volpi (un cattivissimo Amulio), Laura Solari (Rea Silvia), Piero Lulli (Sulpicio), il viscontiano Massimo Girotti visibilmente a disagio nei panni di Tito Tazio, Ornella Vanoni (un’androgina Tarpeia), Jacques Sernas (Curzio) e molti altri validi caratteristi. E i “Figli della Lupa” del titolo? Per il loro ruolo la scelta cade su due culturisti americani molto presenti nella cinematografia italiana del periodo: Steve Reeves (Romolo) e Gordon Scott (Remo). Due “uomini forti” rodati come interpreti dei vari Maciste, Hercules, Ursus, Tarzan e via enumerando in titoli da serie B.

Il primo re
“Romolo e Remo”, 1961 Jacques Sernas e Massimo Girotti in armatura tardo imperiale

Il film comincia con una chicca storica: la festa detta dei Lupercalia, antica cerimonia propiziatoria dedicata al dio Lupercus (Fauno) protettore delle greggi, ma si perde subito per strada con le consuete ovvietà di genere: scene gladiatorie (la lotta contro un orso in un’arena arcaica fatta di legno), imboscate, fughe rocambolesche, intrighi di corte, inutili crudeltà dei “vilain” di turno, spacconate degli “eroi” e blooper in quantità industriale. Dalle solite staffe alle armature in uso nel Basso Impero. Insomma un prodotto tipico del momento che non è certo passato alla storia… del cinema.

Una numerazione mai utilizzata

Ancora oggi molti ritengono che gli antichi romani contassero gli anni del loro calendario Ab Urbe Còndita (dalla fondazione di Roma) ossia dal 753 a.C. Niente di più erroneo anche perché le esigenze di enumerare il corso del tempo erano ben diverse dalle nostre. Gli eventi memorabili erano guerre, carestie, alluvioni, rari fenomeni astronomici o meteorologici. Nel migliore dei casi annate feconde e prospere. In età monarchica, a Roma come in tutti i regni antichi, il calcolo era effettuato sugli anni di regno dei singoli sovrani (per es.: «Nel quinto anno di Servio Tullio…»). Allo stesso modo, in epoca repubblicana il calcolo si effettuava sui consoli in carica. Ricordiamo che il loro mandato era annuale. In epoca imperiale si torna al computo degli anni di governo (tribunicia potestas) del sovrano. Secondo questo calcolo, per esempio, si sarebbe detto che Gesù di Nazaret nacque nel 18° di regno di Ottaviano Augusto (5 a.C. Sì, avete letto bene: Gesù Cristo è nato tra il 4 e il 6 avanti Cristo) e morì nel 19° di regno di Tiberio (33 d.C.).

A stabilire la “data di nascita” di Roma, in base a calcoli e documenti che ci sono ignoti, fu il letterato Marco Terenzio Varrone vissuto nel I sec. a.C. ossia ben sette secoli dopo l’ipotetica fondazione. Sta di fatto che la data proposta da Varrone venne universalmente accettata e sulla sua base, in epoca imperiale, si cominciarono a celebrare gli “anniversari” più importanti. Culminati nel 247 d.C. quando l’imperatore Filippo l’Arabo decretò feste solenni per i mille anni della città Caput Mundi (capitale del mondo). Giusto un paio di secoli prima che l’Impero d’Occidente si dissolvesse nei regni Romano Barbarici. Ma questa, come si dice spesso al cinema, è un’altra storia.

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