L’arte come riflesso di un’epoca – “Il peccato, il furore di Michelangelo” Andrej Konchalovskij, 2019

Pubblicato il 13 Febbraio 2024 in Outdoor Cinema
Il peccato, il furore di Michelangelo

Il regista russo Andrej Konchalovskij ha mosso i suoi primi passi dietro la macchina da presa accanto all’amico Andrej Tarkovskij come sceneggiatore di Andrej Rubliëv, film sul pittore di icone che abbiamo presentato all’interno di questa stessa rassegna. Anche qui un’epoca storica è rappresentata mediante episodi della vita di un artista particolarmente significativo del tempo rappresentato. Siamo nell’Italia del rinascimento e l’artista in questione è uno dei più grandi artefici universalmente conosciuto: Michelangelo Buonarroti.

Fedele ricostruzione ambientale e psicologica

Tra i principali meriti del film di Konchalovskij va segnalata innanzitutto la rigorosa ricostruzione ambientale dell’epoca descritta, sfrondata da tutti gli abbellimenti che il cinema è solito conferire ai personaggi positivi. Il regista mostra invece un rinascimento antiretorico, arruffato, sporco e violento, molto più vicino alla realtà rispetto a quanto messo in scena anche molto di recente da produzioni di genere, sia cinematografiche sia televisive. A sua volta il personaggio principale viene spogliato dall’aura quasi mistica di cui di solito viene circonfuso ponendolo quasi al di sopra degli altri comuni mortali. Investito di una sorta di romantica e innata tensione verso il bello e il sublime. Il Buonarroti di Konchalovskij è invece un uomo avaro, a volte persino avido, bugiardo alla bisogna, umorale, invidioso e doppio, violento con i suoi pari e servile con i potenti. Un personaggio vero, autentico, insomma. Con la sua grandezza artistica, che lo rende unico, e le sue debolezze molto umane che lo rendono un figlio del suo tempo. Come quando si azzuffa verbalmente con Jacopo Sansovino (grandissimo sculture e architetto) dandogli del «mediocre privo di talento» solo per qualche divergenza estetica.

Il peccato, il furore di Michelangelo
La cave di Carrara

Certamente memore della lezione di Tarkovskij con il Rubliëv, Konchalovskij mostra poco o nulla dell’esecuzione di opere d’arte, mentre si focalizza molto di più sul contesto nel quale l’opera nasce e sulla psicologia dell’artista. Interpretato da uno sconosciuto Alberto Testone che mostra una straordinaria somiglianza fisica con quanto le fonti iconografiche riportano a proposito del vero Michelangelo. Altro merito del film è anche l’impiego di un cast di attori pressoché sconosciuti (fatta eccezione di Orso Maria Guerrini nel ruolo del marchese Malaspina) tutti ottimamente calati nei rispettivi ruoli.

La vita dei cavatori di marmo

Il rigore nella ricostruzione scenica fa risaltare ancora di più i due blooper in cui incorre la sceneggiatura. Uno abbastanza macroscopico, l’altro del tutto veniale. Il primo riguarda l’espressione «Bianco come lo zucchero» che ricorre più volte nelle parole di Michelangelo a proposito del marmo di Carrara, la materia prima più ambita dagli scultori sin dall’epoca romana. Ebbene nel XVI secolo lo zucchero così come lo conosciamo noi, ossia in minuscoli e candidi granelli ricavati dalla barbabietola, non esisteva sicché il paragone è del tutto fuori luogo. La barbabietola inizia a essere studiata e coltivata nel XVII sec. e sfruttata industrialmente solo nel XIX. In precedenza esisteva una specie di zucchero fatto di grumi brunastri da canna da zucchero, raro e costoso, smerciato in farmacia come medicamento. L’errore veniale riguarda invece la circolazione di carri e carretti nelle strade di Firenze. Che vengono fatti circolare a destra, come si usa oggi. Molto probabilmente (ma non non ci sono dati certi al proposito) era vero il contrario. Come nel resto d’Europa. Fu Napoleone a imporre la circolazione a destra in tutto il continente, fatto spiegabile con il suo essere mancino. Ad eccezione naturalmente dell’Inghilterra che non cadde mai sotto il suo dominio.

Il peccato, il furore di Michelangelo
Michelangelo alle cave

Molto interessanti invece, su un piano quasi documentaristico, le lunghe sequenze girate nelle cave di Carrara dove autentici cavatori in costumi d’epoca ricostruiscono nei minimi dettagli la tecnica di estrazione del marmo così come avveniva 500 anni fa. A cominciare dalla cosiddetta lissa, ovvero la discesa frenata dei blocchi su slitte di legno con l’ausilio di lunghi canapi, argani e carrucole. Corretta anche la parlata dei cavatori. Ancora oggi le maestranze locali parlano un dialetto più vicino al romagnolo che al toscano, fatto dovuto all’ascendenza della popolazione locale reclutata per il lavoro di estrazione.

Un film meritevole di visione proprio perché sfrondato da tutti i luoghi comuni che siamo soliti attribuire al genio michelangiolesco, anche e proprio in virtù del cinema. Un film che fa tornare alla memoria la celebre battuta di Orson Welles (nei panni di Harry Lime) sulla ruota del Prater di Vienna nel film Il terzo uomo (Carol Reed, 1949): «Nel ‘500 in Italia c’erano violenze, stupri, guerre e distruzioni, ma avevano Leonardo, Raffaello e Michelangelo. In Svizzera, dopo 500 anni di concordia e pace fraterna cosa ne è venuto fuori? L’orologio a cucù».

Il peccato, il furore di Michelangelo
Michelangelo con Dante

Il regista

Andrej Mikalchov-Konchalovskij (n. 1937) nasce in una famiglia di intellettuali (il padre Sergeij è poeta, il fratello Nikita anch’egli regista cinematografico) e la prima scelta giovanile è quella di dedicarsi alla musica. Poi cambia indirizzo e si iscrive al Vigk, la scuola di stato di cinema della Russia sovietica. Qui conosce e stringe amicizia con il di poco più anziano Andrej Tarkovskij con il quale collabora come attore nel film d’esordio L’infanzia di Ivan (1962) e come sceneggiatore per il successivo Andrej Rubliëv (1966-69). Alla metà degli anni ‘60 risale anche il suo esordio come regista con alcuni titoli che possiamo iscrivere in quel “cinema del disgelo” che caratterizzò i regimi comunisti dell’intera Europa Orientale dopo i processi di destalinizzazione avviati da Nikita Chrushëv tra la fine dei ‘50 e l’inizio dei ‘60. Dopo aver lavorato in patria per un altro decennio, si trasferisce negli Stati Uniti dove gira alcuni film di successo tra cui Maria’s Lovers (1984), A 30 secondi dalla fine (1985) e Tango e Cash (1989) che lo consacrano sul piano internazionale come un valente artigiano della macchina da presa capace di unire arte e successo di pubblico. Dopo la caduta del muro di Berlino torna in patria dove gira film di vario genere spaziando anche tra cinema e televisione. Con sporadici ritorni all’estero come per la realizzazione del film su Michelangelo.

Il peccato, il furore di Michelangelo
La Lissa

Un altro Buonarroti dello schermo

L’antecedente più immediato del film di Konchalovskij è certamente Il tormento e l’estasi (1965) di Carol Reed con Charlton Heston nel ruolo di Michelangelo e Rex Harrison nei panni di Giulio II.  La sceneggiatura deriva dall’omonimo romanzo (The Agony and the Extasis) di Irving Stone.

L’inizio non è da film di fiction ma sono 11 minuti di documentario su Michelangelo. Nello stile più comune all’epoca ossia con una voce off che commenta e sintetizza il percorso artistico del grande artefice. Con il pretesto dell’esposizione a New York della Pietà Vaticana avvenuta nel 1964. Uno dei primi esempi di “esportazione temporanea” di opere d’arte a scopo culturale. Trasferimento voluto dallo stesso pontefice Paolo VI, noto conoscitore e mecenate dell’arte proprio come i suoi predecessori rinascimentali. A papa Montini si deve, per esempio, l’istituzione della sezione di arte contemporanea dei Musei Vaticani. Per tornare al film, la lunga digressione documentaristica termina, com’è ovvio, con la Pietà Rondanini (l’ultima opera di Michelangelo) nel vecchio allestimento del Castello Sforzesco.

Uno stacco seguito da due dissolvenze (in chiusura e in apertura) ci porta finalmente al XVI secolo e al lavoro dei cavatori di marmo sulle Alpi Apuane.

Il peccato, il furore di Michelangelo
Michelangelo alle cave

Al centro dell’opera cinematografica non sta però l’arte di Michelangelo scultore, bensì la sua decorazione ad affresco della volta della Cappella Sistina eseguita negli anni tra il 1508 e il 1512. Al coté documentaristico va anche assegnata la corretta illustrazione di come veniva eseguito un affresco mediante i “cartoni” e la sinopia. Gli esterni del film sono stati girati in una riconoscibile Todi chiamata, non banalmente, a rappresentare la Roma del tempo in cui l’antica basilica paleocristiana di San Pietro stava per lasciare il posto a quella che si ammira ancora oggi.

Argomento desunto dal romanzo di Stone è la presunta rivalità artistica tra Michelangelo e Bramante (Harry Andrews), con ovvio schieramento degli autori per il primo a detrimento del secondo, tratteggiato come un mestatore di scarso talento invidioso del più dotato “avversario”. Un classico del cinema biografico. Altro classico praticato è quello dell’artista tutto intuizione e “furore” che, quasi anticipando Caravaggio, si ispira nelle taverne romane. «Se il vino è aspro, buttalo» gli suggerisce l’oste dopo di che Michelangelo distrugge gli affreschi di maniera che ha realizzato fino a quel momento e si rifugia sulle Apuane dove, con classica retorica romantica, finalmente trova l’autentica ispirazione per il suo capolavoro. Altra leggenda romantica accolta dal film (e dal romanzo) è l’amore di Michelangelo per Tessina de Medici (1478-1515, interpretata da Diane Cilento) inarrivabile oggetto del desiderio destinata a ben altre unioni matrimoniali. E qui, in un contesto peraltro corretto di ricostruzione ambientale, cade il più macroscopico blooper del film: quella tavola per il banchetto dei nobili apparecchiata come faremmo oggi ossia con forchetta e coltello accuratamente disposti ai lati del piatto. Cosa impensabile in un’epoca in cui, anche nelle corti più raffinate e nelle occasioni più importanti, si mangiava… con le mani.

Il peccato, il furore di Michelangelo
“Il tormento e l’estasi” Coltello e forchetta a tavola come oggi

Dato che il film verte sul primo intervento michelangiolesco nella Sistina chiaro che il racconto si dipani sul rapporto, burrascoso, ma anche amichevole e di reciproco stimolo a mettersi in gioco nel proprio ruolo, tra l’artista e il pontefice, Giulio II (Giuliano della Rovere). Il papa guerriero che, secondo i detrattori, non ha mai celebrato una messa in vita sua, ma che era capace di guidare in battaglia un esercito come un vero generale. Un Giulio II insolitamente glabro stante il tassativo rifiuto di Rex Harrison di farsi crescere la barba o di indossarne una posticcia. Due personaggi messi a confronto quasi da pari a pari come si capisce dalla lunga sequenza della malattia del pontefice cui si contrappone la “febbre da lavoro” dell’artista. Con Bramante sempre più calato nel ruolo del vilain e un inedito Tomas Milian nei panni del giovane Raffaello al lavoro nelle Stanze Vaticane (l’affresco con la Scuola di Atene) che recita in inglese, naturalmente con la propria voce. Non come nei successivi film del Monnezza o di Nico Giraldi, che hanno dato fama e denaro all’attore cubano, ma dove era doppiato da Amendola padre.

Il peccato, il furore di Michelangelo
Lo sguardo di Michelangelo (2004)

Da Michelangelo a Michelangelo

Sono 17 minuti di rara intensità cinematografica. Lo sguardo di Michelangelo (2004) è un cortometraggio documentaristico di Michelangelo Antonioni girato su una delle opere più note e celebri dell’artista rinascimentale: il Mosè custodito nella chiesa romana di San Pietro in Vincoli. Anzi: sul monumento funebre di Giulio II in cui il Mosè è inserito. Già privo di parola in seguito all’ictus, ma sempre grande creatore di immagini cinematografiche, Antonioni sa concentrare sui marmi, sulla luce e sulle ombre che li evidenziano o li oscurano, proprio uno sguardo che intensifica all’estremo ciò che il capolavoro trasmette all’osservatore. Uno sguardo muto, privo di commento che non sia la sua stessa evidenza, con arditissimi tagli di inquadratura dalle diverse angolazioni. Tali da sorprendere anche il più esperto conoscitore dell’opera.

 

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