Renzo Piano e il ping pong delle idee

Pubblicato il 24 Giugno 2021 in da redazione grey-panthers

“Renzino, che bello!”. Oltre settant’anni dopo, alla vigilia del lancio a Ginevra del Science Gateway del Cern (la nuova struttura per la divulgazione scientifica) e a Milano del nuovo Campus del Politecnico, da lui progettati, Renzo Piano ricorda come fosse ieri il giorno in cui gli spuntò accanto il fratello Ermanno: “Abitavamo a Pegli, in una casa all’ultimo piano. C’era un bel sole, avevo un tavolo vicino alla finestra dove facevo dei pasticci. Avrò avuto dieci o dodici anni. Feci un oggetto, non ricordo neanche cosa, che stava miracolosamente in piedi. Un disegno un po’ complicato, di legno… Una roba strana, niente di intelligente. Ermanno, che aveva dieci anni di più, passa e dice appunto: “Renzino, che bello!” E io resto lì. “Come, bello?”. Resto lì a guardarlo sorpreso, incredulo… C’è sempre bisogno, in quei momenti lì, al primo manifestarsi della capacità di una persona d’avere delle idee, di qualcuno che ti dica: bene… È successo a tutti, ne sono sicuro. A me succede ancora adesso, alla mia età. C’è un’ebbrezza tutta nuova che però, attenzione, può anche durare poco e svanire se non c’è qualcuno che ti dice bravo e ti spinge ad andare avanti. Questo è l’inizio di quella splendida, interminabile, partita a ping pong che è la vita creativa”.

Lui fece un modellino, “qualcun altro farà un disegno, canterà, scriverà una poesia, un tema musicale, o farà semplicemente un ragionamento bello, compiuto, che inizia e finisce…”. Ma ciò che conta è che “qualcuno ti dia un riscontro. Tu hai un’idea, l’altro ci trova qualcosa di buono e la afferra, un terzo la commenta e ci aggiunge qualcosa. Finalmente torna a te e prende forma. E questa, proprio questa, è la scuola. Un luogo in cui cresci insieme con gli altri. Materne, elementari, medie, università. E così vedo il Campus del Politecnico progettato con Ottavio di Blasi”.

Un intervento di cucitura urbana, che ridisegna negli spazi e nel verde l’area della sede storica dell’ateneo, in linea con quell’idea del ‘rammendo’ che da anni è al centro del suo lavoro di senatore coi ragazzi (“già una cinquantina”) della stanza G124 di palazzo Giustiniani, a Roma, felicemente stravolta (gran tavolo di compensato, pareti coperte di pannelli) per progettare esempi di rinascita delle periferie. E al centro di innumerevoli appelli (troppo spesso ignorati) per spiegare quanto l’Italia abbia bisogno di ricucire il proprio territorio e le proprie anime. Un campus tutto luce, luce, luce: “Perché i giovani diventino degli adulti dalla mente libera bisogna farli crescere in un mondo di luce”. Una risposta alle tenebre in questi tempi pandemici? «Qui entriamo nel campo delle emozioni, ma sì. La luce è parente stretta dell’apertura, dell’accessibilità, della trasparenza. Ho sempre considerato la luce un elemento costruttivo, forse la materia più essenziale per costruire”.

La palestra giusta, va da sé, per cominciare «questa interminabile e meravigliosa partita a ping pong delle idee. Perché, sai, al suo primo apparire un’idea non è nulla, è una scintilla, un piccolo fantasma fragile. Ti sembra persino superficiale, ne diffidi. Spesso, per una sorta di pudore, non ne parli. Arrivi perfino a non riconoscerla come tua. Infatti probabilmente non lo è. È un barlume di qualcosa di indefinito… Una somma di tutto quello che abbiamo visto, letto, vissuto e ascoltato. Per dirla con Jorge Luis Borges, “ogni atto creativo è sospeso a metà strada tra la memoria e l’oblio”. Tra quello che ricordi di aver visto, letto e ascoltato e tutto ciò che hai dimenticato e che ti obbliga a riempire i vuoti. È così che vengono le idee. Se è vero che l’arte è rapina, allora la conoscenza è una sorta di furto prolungato tutta la vita. A viso scoperto, mi raccomando. Non c’è nulla di cui vergognarsi, io l’ho sempre fatto. Basta dichiararlo apertamente. E restituire quello che hai preso aggiungendo sempre qualcosa”.

Butti la pallina, un altro risponde. E di rimbalzo in rimbalzo, da un giocatore all’altro, da un tavolo all’altro, “alla fine quella pallina torna nel tuo campo, ma torna modificata. Bisogna giocare a ping pong con gli altri, non contro un muro, non da soli. Perché certo, può anche venirti una buona idea ma se quella idea resta lì, solitaria, si sgonfia, va ad esaurirsi e prima o poi si perde. Invece prende forza quando ci sono gli altri. Non sai quante volte dico ai ragazzi: “Dai, parla, di’ pure!”. Mi piace quando qualcuno alza il dito e fa: “Posso dire una stupidaggine?”. Ma certo! Bene! Coraggio, dilla e poi la correggi. Bisogna essere almeno in due, meglio se in tre o quattro, o anche cinque-sei. E poi anche di più. È il confronto che rende forti. Le idee e le persone”.

E torna a ricordare l’immagine del tempio di Ise, tra Osaka e Tokyo: “Avevo una sessantina di anni, era già stato più volte in Giappone ma quel tempio non l’avevo mai visto. Una folgorazione. Perché il suo valore non è nell’essere antichissimo ma nel rinascere: ci sono due terreni, uno accanto all’altro: il “vecchio” tempio a sinistra dopo vent’anni viene demolito e subentra a destra quello nuovo nel frattempo costruito. Dopo vent’anni si ricomincia daccapo. È una grande scuola naturalmente, in mezzo ai boschi con delle piantagioni di legno, e c’è una metafora dietro. Dopo essere stato accolto, dai venti ai quarant’anni impari a fare il tempio. Quando ne hai quaranta, se hai imparato, ti metti lì e questa volta lo fai tu, il tempio, finché arrivi ai sessanta. Quando sei arrivato lì, insegni a fare il tempio agli altri. Cioè restituisci, dai sessant’anni fino agli ottanta, tutto quello che ti hanno dato. Ecco, mi pare una buona ripartizione della vita che ci viene data. Non per altro ho voluto anche una fondazione dove ogni anno teniamo a bottega una ventina di giovani”.

È una fissa, per lui, la scuola. Ma sono sempre all’altezza, i maestri, di questa sfida a ping pong? Lev Tolstoj si chiedeva sulla rivista «Jasnaja Poljana»: “Chi deve imparare a scrivere: i ragazzi di campagna da noi o noi dai ragazzi di campagna?». E si lamentava che la scuola troppo spesso tarpa le ali agli scolari più ricchi di talento e fantasia. «Sì, il passato e l’Accademia, anche nel caso nostro, possono sembrare rassicuranti… Ma io vorrei dire ai ragazzi: andate nel futuro, perché il futuro è l’unico luogo dove vi è dato di andare. Tirate fuori idee, idee, idee. Perché senza le idee vi verrebbero a mancare le munizioni per essere uomini liberi». Molte verranno bocciate? Amen: «È capitato anche a me». E magari qualche volta ha pure ringraziato Iddio… «Sicuro», ride. «Lo scrisse Oscar Wilde: “Quando gli dei vogliono punirci, ascoltano i nostri desideri”. Una bastonata ogni tanto ci vuole. Aiuta a crescere. A dire appunto, col senno di poi, “meglio così”. E a difendere fino in fondo le idee delle quali sei più convinto”.

di Gian Antonio Stella
Fonte: Corriere della Sera, 20 giugno 2021