L’impossibile sogno dell’uomo di essere la Legge per se stesso

Pubblicato il 27 Novembre 2022 in , , da Giorgio Landoni

Posta la domanda: “Perché il male?”, che ci siamo posti nell’ultimo articolo, passiamo alla successiva che riguarda le garanzie che la società degli esseri umani si dà per contrastare gli effetti possibili di ciò che si indica comunemente come “male”.

Queste garanzie sono sempre strutturate sotto forma di norme che chiamiamo “leggi”. Anche se esse variano nel tempo e nello spazio perché sono fortemente influenzate dalla cultura, dal costume, rispondono sempre a quel “Principio di Ragione” che differenzia in modo decisivo l’animale che parla, da tutti gli altri esseri viventi. Possiamo dire che vi è una “Legge” la quale presiede alla possibilità che la società umana non sia né una massa, né un’orda primordiale, né un branco animalesco.

Nel nostro mondo occidentale, in genere è la proibizione ciò che nelle leggi ha un posto predominante, ma è bene ricordare che in quanto espressione di razionalità le norme non hanno solo l’effetto di un ostacolo poiché possono anche assumere un aspetto prescrittivo, ossia indicare positivamente il modo giusto di condursi nelle varie circostanze della vita sociale.

Norma e linguaggio

Alla domanda “perché le leggi” possiamo dare una risposta immediata: “perché parliamo”. Ciò che caratterizza e condiziona l’essere umano come individuo sociale è innanzitutto il valore normativo del linguaggio. Questo significa che il linguaggio ha, di per sé, un valore normativo ossia che il semplice fatto di parlare implica che esista una norma, l’espressione di un principio razionale che riguarda gli esseri umani e solo loro. Il rapporto del soggetto umano alla Legge, alla norma, è una necessità solo umana, una necessità sociale della quale il linguaggio si fa carico.

E la libertà allora ci si può chiedere?

A volte effettivamente l’ordine del soggetto umano, la libertà degli esseri umani, viene presentato come se fosse in contrasto con l’ordine istituzionale della normatività. In genere chi propone questo punto di vista esprime una posizione dove è facile intravvedere sullo sfondo un’aspirazione, un’idea di libertà che assomiglia molto a un ideale inteso come assenza di limite, un’idea dell’essere umano libero solo quando non vi è alcuna costrizione. La confusione fra autorità e autoritarismo che si fa molto comunemente ne può fornire un esempio.

Si incontra allora un controsenso che appare evidente soprattutto a quelli che si occupano dell’estensione delle norme di legge, i giuristi , cioè coloro ai quali incombe il compito di proporre norme valide anche per quelli che ne contestano la legittimità per principio.

Infatti i giuristi menzionano spesso la difficoltà di introdurre elementi tipizzanti laddove esista un rifiuto della forma giuridica, tanto più che proprio chi pretende di eliminare ogni elemento cosiddetto repressivo dal vivere sociale si trova poi confrontato con la semplice constatazione dell’impossibilità, per il soggetto umano, di legittimarsi da solo quando rifiuti il principio razionale secondo il quale ogni legittimazione richiede un’autorità in grado di fornirla.

Le origini della norma

Da dove e in che modo sorgono le pratiche normative concrete del nostro vivere sociale? quale il loro fondamento? Se ci interroghiamo, non possiamo evitare di pensare che tutto derivi da un’architettura di tipo dogmatico, quindi per forza di cose anche repressiva, della quale le norme sono solo il sedimento ultimo. Mi occuperò di questo aspetto del problema dal punto di vista di uno psicoanalista, ma vorrei prima di tutto precisare: quello che ci viene trasmesso attraverso il linguaggio è innanzitutto la necessità di un quadro normativo, di un inquadramento come necessità razionale di cui abbiamo bisogno per vivere.

Questo è il punto, non i contenuti, le leggi variabili nel tempo, ma l’idea di un legame che unisce la costruzione sociale dei saperi dell’uomo su di sé e la trasmissione che li fonda. Detto altrimenti: sappiamo chi siamo perché qualcuno ce lo dice e questa è una necessità a cui non possiamo sfuggire e che si fa regola sociale di base, iniziale.

Basta pensare che ognuno di noi porta con sé dei documenti di identità che lo testimoniano. Sembra che oggi si parli a volte di una specie di frantumazione di questa necessità, del principio normativo in sé, come se la cosa non avesse conseguenze se non positive.

Esiste infatti, e sembra farsi sempre più diffuso, un soggettivismo di matrice individualistica che suggerisce l’imporsi di un nuovo regno da cui emerge un nuovo sovrano: l’individuo. Si sente risuonare l’eco di parole già pronunciate, come questa osservazione di un famoso regista, Wim Wenders che evoca “il volersi porre in mini stato da parte del singolo”, come istanza sovrana, legislatore, giudice e anche soggetto, con tutte le conseguenze che simili situazioni, peraltro note da sempre, comportano.

 Nota logica di uno psicoanalista

Alla base di qualsiasi sistema istituzionale, insomma di tutte quelle istituzioni che sono il frutto dell’esistenza di regole per tutta l’umanità, vi è una situazione universale, la filiazione ossia il fatto che la differenza dei sessi produce degli effetti i quali vanno oltre il singolo per investire tutta la specie umana in quanto tale. In particolare, per l’Occidente, la nozione di filiazione è l’ultima giustificazione di quello che chiamiamo Legge.

All’origine le leggi servono a regolamentare la successione delle generazioni. La filiazione, il processo attraverso il quale le generazioni si succedono nel tempo e il genere umano continua, porta nella specie umana la dimensione della vita nel modo particolare che la distingue: i figli dei due sessi succedono ai figli sotto l’egida di un principio che la psicoanalisi freudiana indica col nome di Edipo.

 

Il complesso che va sotto questo nome è definibile come la relazione di un soggetto ai suoi genitori, nella duplice differenza dei sessi e delle generazioni, dunque della forma e del tempo. Il complesso edipico funge da ordinatore simbolico dell’ordine umano dando senso alle cose, alle differenze, sia quelle sessuali sia quelle generazionali che ne sono la conseguenza. L’Edipo, la narrazione tragica della vicenda antica fatta da Sofocle, trasforma il tempo cronologico in tempo genealogico come successione di generazioni, di figli dei due sessi che succedono ai figli con un unico destino in cui la sorte del singolo si annulla nella continuità della specie.

Occorre sottomettersi al principio riconosciuto che nulla è a nostra disposizione di per sé, che possiamo essere solo una parte del tutto anche se completi nella nostra parzialità. Questo dice l’Edipo della psicoanalisi ammonendoci sulle conseguenze genealogiche del rifiuto di sottomettersi. Quello che ci fa esistere, a partire dal nostro nome, il nome che ci è dato, indica che possiamo essere autonomi solo a partire dall’accettazione di una condizione di eteronomia: noi esseri umani siamo fondati dall’esterno, da qualcuno/osa che non è noi stessi e che ci dice chi e cosa siamo. È inesorabile, razionalmente inesorabile: è la legge, anzi la Legge.

Voglio aggiungere che oggi, sotto la dizione di Edipo, la psicoanalisi indica anche i due compiti forse più ardui che incombono su ogni essere umano: far prevalere la vita sulla morte, sulla tendenza a distruggere, e assumere la propria identità sessuale, compito complesso quanto mai perché noi dipendiamo dal fondo della nostra natura biologica, un fondo primitivo che va sotto il nome di pulsione e che deve essere addomesticato. Doppio aspetto della legge: proibizione e prescrizione.

Questo anche indica l’Edipo: occorre addomesticare il fondo dell’animale che parla e a questo servono le norme.

 Soggetto e norma             

Quali le regole per la soggettività dell’animale che parla? E ancora prima, quali regole governano l’istituzione del soggetto umano? Esiste una regola fondante, come già accennato. Essa non gode di grande popolarità perché in genere viene colta in quell’aspetto negativo che può nascondere l’apertura su altre opportunità delle quali ognuno potrebbe usufruire.

Questa regola ha un nome semplice: proibizione. Il soggetto umano è un’istituzione che va costruita a partire dalla base animale, biologica, e questa costruzione si riproduce nel tempo sulla base di un denominatore comune: la messa in opera della proibizione come espressione negativa della Legge. Esistono, come si diceva, anche corrispondenti positivi come la prescrizione e tutto questo ci pone il problema dei modi appropriati di presentarne la necessità come principio.

Partiamo dall’inizio: fabbricare un essere umano, un soggetto e non solo un individuo dei due sessi, è un’operazione complessa che richiede si colleghino fra di loro un fondo biologico e un vincolo sociale. In mezzo, fra i due, l’inconscio, un’invenzione psicoanalitica che suggerisce di non fidarsi troppo della nostra razionalità, della nostra coscienza, in definitiva di quello che ci viene in mente perché spesso ci inganna. Si tratta di metabolizzare, di digerire insomma, tutto quello che in noi si oppone alla rinuncia, ossia tutto quello che in ciascuno di noi si oppone al fatto di fare di se stessi il centro dell’universo.

In fondo ogni civiltà ha un solo orizzonte: quello di rendere civile quello che c’è in noi all’origine, quello che anima il nostro mondo psichico come una scena teatrale sulla quale ognuno di noi va svolgendo l’azione che gli è propria. Bisogna dunque alzare ostacoli contro lo scatenarsi dell’onnipotenza immaginaria del singolo in un mondo senza leggi. In questo sta il valore strutturante della proibizione che costituisce a un tempo un limite, ma anche una rivelazione della forza del desiderio titanico, immortale che abita l’essere umano.

Come fu detto: “Tutto ciò che portiamo in noi di irrazionale, di disordinato, di violento, non di divino ma di demoniaco, gli antichi lo chiamavano “Titani””. (Plutarco: De esu carnium,I, 996c).

L’animale che parla conquista poco alla volta il suo essere civile, il suo appartenere alla civitas, su uno sfondo fantastico che la psicoanalisi chiama genericamente inconscio e che rappresenta la faccia nascosta della ragione. Con essa ci colleghiamo continuamente, per esempio nel sogno ma non solo poiché esiste anche una psicopatologia della vita quotidiana fatta di atti e comportamenti i più vari e inattesi come tutti possiamo sperimentare. Il concetto di inconscio è anzitutto logico. Esso ci rinvia alla complessità della cosa umana colta alla sua radice, nel teatro di cui ho appena detto,  accessibile per noi solo tramite la parola.

Ogni interrogativo sulla normatività deve fare i conti con questo crogiuolo delirante al fondo di ciascuno che è l’altra faccia del principio di Ragione.

La parola è già norma

L’analista non è particolarmente esperto di comportamenti umani. In genere quelli di tipo più problematico (qualunque sia il senso che si voglia attribuire a questa espressione) sfuggono alla sua osservazione. L’analista è o almeno dovrebbe essere esperto dell’inconscio freudiano che potremmo anche definire come la capacità, solo umana, di produrre una rappresentazione, psichica o mentale come meglio piaccia, a partire da niente.

È come possedere il potere di fare uso anche di quello che non esiste, di usare il negativo. Mettere in parole significa legare un gioco di immagini a dei suoni, dare esistenza al nulla, dematerializzare la materia pur portandone sempre l’impronta, allontanare il realismo delle cose e, attraverso i segni, compenetrare il soggetto umano che noi siamo e il mondo delle cose materiali. È un fatto indiscutibile che la norma è implicita nel fatto stesso che noi parliamo. È un dato razionale: le parole che noi pronunciamo non necessitano di legittimazione.

La legittimità è già stata conferita in partenza a ogni parola che noi pronunciamo dallo statuto di chi le ha pronunciate prima di noi, da chi, pronunciandole, ce le ha insegnate, i nostri adulti di riferimento che nei casi più fortunati sono stati quelli che si chiamano “genitori”. Nessuno si sogna di chiederci perché mai “cavallo” si dice “cavallo” e non, per esempio, “martello” oppure “autobus”. Questo semplice fatto ci mostra il rapporto fra il fatto di parlare, la norma che esso contiene e la genealogia basata sulla differenza dei sessi degli esseri umani che continuano la specie.

Sono loro, gli adulti che si prendono cura, come possono, di ogni nuovo nato che, insegnando a parlare, interpretano la norma, danno le regole dall’alto di una autorità assoluta, dogmatica: le apprendiamo da loro senza discussione possibile. Il pensiero greco rappresentava questa situazione attribuendo il potere della parola agli dei e Platone evoca sapientemente questa situazione nel suo dialogo intitolato “Cratilo”.

Un piccolo aneddoto per mostrare i vicoli ciechi nei quali finisce, più o meno sempre, chi vorrebbe ignorare il peso della genealogia.

Esperti del canto degli uccelli (sissignori, esistono anche questi!) hanno notato che ogni uccello possiede una “melodia” personale di base con la quale comunica qualcosa che vuol dire pressapoco: “questo è il mio territorio! Io ci sono e sono disponibile”. Questa melodia è appresa nei primi tempi di vita e, ripeto, è specifica, si potrebbe dire personale se considerassimo gli uccelli come “persone” almeno da questo punto di vista. Orbene, incuriositi da questa situazione davvero inattesa, questi esperti hanno pensato di registrare la “melodia” di uccelli adulti e poi di farla ascoltare ai pulcini per osservare cosa sarebbe successo. Ebbene: non è successo proprio nulla, i pulcini non hanno imparato nessuna “melodia”.

Ci si chiede allora (e lascio a ognuno la risposta): conta la melodia o conta il fatto che “qualcuno” la “insegni”? qualcuno che nel nostro linguaggio umano chiamiamo “genitore”?

Tornando ora a noi, si consideri, se volete, un dato molto semplice: quando emettiamo un suono, ci sono almeno due conseguenze. Da un lato questo suono evoca in ognuno un’immagine anche in assenza di qualsiasi percezione sensoriale (visiva o tattile, olfattiva o gustativa), anche se non è presente l’oggetto che corrisponde al suono. Se dico “cavallo”, ognuno vedrà da sé il cavallo anche se sul momento non è presente alcun animale di quel genere. Siamo capaci di creare immagini dal nulla e chiamiamo queste immagini “significato”, qualcosa che va da sé poiché ci è stata data all’origine un’informazione che funziona come una matrice normativa la quale sancisce  come stanno le cose senza alternative possibili: cavallo è cavallo! Punto e basta! Questa matrice normativa chiama in causa l’autorità di un interprete primo, la funzione genitoriale, mediatore indiscutibile che fa esistere la parola come tale e legittima questa esistenza costituendo il quadro delle regole nel quale solamente essa può essere.

Ancora un esempio che vale per tutti: il nostro nome personale. Ci è stato imposto dicendo :”lei/lui è…..” e più tardi diremo allora: “io sono…” e la cosa finisce lì, certificata anche su documenti ufficiali dove altri hanno testimoniato che, sì, lei/lui “è”. Una matrice normativa sta dunque necessariamente all’origine dell’essere umano come istituzione parlante e delle istituzioni delle quali la sua umanità si nutre e da cui quindi trae senso.

Il quadro normativo, l’insieme delle regole e delle leggi, è il modo in cui tale matrice manifesta se stessa come principio necessario al nostro vivere insieme.

Notazione psicoanalitica

Come capiamo questa espressione che sto usando ripetutamente: matrice normativa? La norma, la sua enunciazione come manifestazione di un principio generale, esprime semplicemente la razionalità che, sulla traccia di Aristotele e della logica che da lui è derivata, sostiene la realtà dell’essere umano come animale dotato di linguaggio.

Esiste un principio di ragione ossia il volto razionale dell’essere umano opposto all’altra faccia della medaglia (le medaglie hanno sempre due facce) il crogiuolo delirante che sempre vive nel fondo di ognuno e che può emergere a ogni istante sotto la spinta di quei moti primitivi che in psicoanalisi vanno sotto il nome di principio di piacere (e dispiacere).

Delirante poiché si tratta di una dimensione, un punto, dove la razionalità non esiste, ma vi sono solo moti indistinti, materiali come quelli dei pulcini che invocano il cibo pigolando e che danno origine a formazioni mentali molto primitive, senza qualifica precisa, che nominiamo fantasmi, forme leggere e inafferrabili, fatte di nulla eppure capaci di muovere situazioni emotive intense. Queste forme sono già un inizio di lavoro della psiche e parlano in primo luogo di una base governata da una sola legge: tutto è possibile. E, aggiungo, anche il contrario di tutto: non esiste contraddizione.

Solo più avanti, con l’avvento della parola, notiamo la razionalità dell’interrogarsi su di sé e, da qui, sul legame sociale, con altri uguali a noi ma diversi da noi (o anche il contrario se si vuole), fondamento delle successive trasposizioni concrete della civiltà umana che le leggi regolano.

Chiunque abbia o abbia avuto a che fare con la psicoanalisi si misura continuamente con le frontiere della propria esistenza nel mondo, con la questione del ripetersi indefinito degli esseri umani, la filiazione che si trova inesorabilmente iscritta entro limiti ben precisi. Tali limiti l’Edipo li indica al negativo: sono l’incesto e l’assassinio.

Ogni legge come proibizione parte da lì ad indicare la necessità di reprimere le nostre spinte più arcaiche, quelle che governano il branco degli animali dove prevale la legge del più forte. Mi ripeto ancora, noiosamente forse, ma non vi è possibilità di equivoco: la norma esiste come principio fondatore della comunità degli esseri che parlano proprio perché parlano. Al di là delle variabili culturali questo è un principio razionale generale calato in forme tecniche grazie alle quali l’uomo si trova iscritto in una società collegata sempre alla specie.

Norma e civitas

Possiamo osservare come, a partire dalle possibili forme che la norma può prendere, permesso, ordine, proibizione, indirizzo, stia diventando sempre più difficile sostenere la complessità dei possibili comportamenti umani. Sembra volersi affermare una nuova normatività antinormativa.

Possiamo formulare qualche ipotesi circa i motivi? Quale che ne sia la rappresentazione, mito figurativo, rappresentazione estetica, recita retorica, sempre e comunque gli esseri umani sanno cosa è la vita in un solo modo: ricevendo il sapere come parola di antenati, istituzioni della vita in un tempo genealogico.

In questo senso, dicevo, un’enunciazione dogmatica, parole che non si discutono, che sono legge alla quale non è necessario chiedere che abbia senso perché essa stessa, come che sia, costituisce il senso ossia ci inserisce in un ordine istituito dove il detto è tale in quanto dovuto. Si chiama dogma ma nel nostro tempo pare appunto aggirarsi un fantasma. Esso non è più quello della libertà, come raccontava un celebre regista (Luis Buñuel) in un suo film altrettanto celebre per la capacità di rappresentare la realtà al netto degli orpelli di cui ammantiamo le nostre necessarie liturgie.

Si tratta piuttosto, mi pare, del fantasma della felicità, ma confuso con quello del piacere personale inteso come realizzazione di ogni spinta individuale al netto di ogni forma di repressione vista come manifestazione del male incarnato dall’autorità. Sfugge, pare, che l’assenza della proibizione, il trascurare la necessità di amministrarla, ha anch’essa effetti i quali, come sempre, si manifestano solo a posteriori. Sono il rovescio della medaglia sotto forma di intralci della soggettività, dell’identità delle persone le quali continueranno a cercare se stesse in atti, in comportamenti, in cose, nella materia che le costituisce.

Progresso o ritorno verso l’animale? Ognuno risponderà a suo modo, ma a me pare che si debba riconoscere la necessità di una norma, di un limite che segnali l’impossibilità del “tutto”. Il soggetto umano, per essere tale, deve potere assumere la propria finitezza, il negativo che lo riguarda per imparare a farne qualcosa. Saper fare qualcosa della propria finitezza significa anche saper essere attratti dal legame sociale, amare la civiltà ossia partecipare alla civitas, alle sue regole di vita, amare le nostre spinte vitali nella loro dimensione collettiva, al servizio di una durata temporale più estesa, storica e non solo individuale.

Per concludere

Il fantasma della felicità è forse un’idealizzazione arcaica che riguarda un mondo benevolo in quanto completamente a disposizione del singolo, senza limiti, senza regole, senza norme di alcun tipo. Una sorta di “mamma”, un sogno dei nostri primi mesi di vita quando le cose vanno mediamente bene (ossia anche mediamente male) e quindi inesistente se non al fondo di ognuno di noi, nel nostro mondo interiore.

A volte questo sogno è così forte da fondare realmente un’idea, quella di potersi ergere come matrice normativa della propria soggettività. Idea ingannevole perché impossibile.

Non si tratta tanto di decidere quello che va bene o meno, cosa che facciamo tutti, quanto di rendere ogni nostra decisione un principio e pretenderne la validità per tutti. Equivarrebbe a creare un mondo a propria immagine e somiglianza, un mondo in cui ognuno detta le norme per tutti in base ai propri gusti. Se questo può anche solleticare qualche fantasia onnipotente che alberga nel fondo di ognuno, alla fine si dovrà sempre fare i conti con il bisogno di un riconoscimento che ci legittimi. È una verità indiscutibile: vi è in noi una ricerca incessante di un principio di legittimità a cui riferirsi poiché nessuno può conferirselo da solo. Anche a questo proposito la letteratura ha sempre molto da insegnarci.

Traggo da “Alice nel paese delle meraviglie”: «Bisogna vedere», disse Alice, «se lei può dare tanti significati diversi alle parole». «Bisogna vedere», disse Humpty Dumpty, «chi è che comanda… è tutto qua»

Qualche istante prima, in tono alquanto sprezzante, questo stesso personaggio aveva detto, «Quando io uso una parola questa significa esattamente quello che decido io… né più né meno». Non a caso Humpty Dumpty non è proprio un soggetto umano, anche se parla. Nella tradizione egli è uno gnomo, caricatura di un bambino o di un adulto, che nella trasposizione cinematografica moderna assume una forma definita ma neutra: una specie di uovo. Il potere indefinito che parla oppure un bambinetto che dice: “il padrone sono me!” Verrebbe da dire: fin qui nessun problema. Un bambino molto piccolo può sentirsi il padrone del mondo, quello che detta le regole. Egli può benissimo dare il nome che preferisce a qualsiasi parte della realtà a partire da quella del proprio corpo. A volte accade lo stesso a un grave malato mentale oppure accade anche che qualcuno tratti gli altri come parti di sé fino alle conseguenze più estreme come ci consegna la cronaca quotidiana.

Non sono solo disturbi dello schema corporeo ma forme di delirio che possono anche assumere risvolti sociali di grande impatto. Loro perno è l’uomo aumentato, quello che, dicevo, ritiene che sia possibile finirla con la finitezza perché qualsiasi limite, qualsiasi legge o regola, può essere abolito, perché si può tutto, solo che lo si voglia.