Il mondo, diverso per ciascuno di noi, tra disillusioni, delusioni e amore

Pubblicato il 9 Maggio 2022 in , , da Giorgio Landoni

Come esseri umani (gli unici in grado di parlare e comunicare), per poter esistere e affrontare il mondo in modo personale, cioè per sapere davvero “stare al mondo”, occorre che ci rendiamo conto che la nostra visione del mondo è diversa da quella di tutti gli altri e che la nostra incidenza sui fatti del mondo è realmente molto relativa.

Nella vita di tutti noi, accadono continuamente situazioni ed eventi ai quali in genere non prestiamo molta attenzione per quanto essi a volte influiscano anche notevolmente su tutto l’insieme della nostra esistenza.

Il cinema si occupa frequentemente di queste situazioni. Molti ricorderanno “Match point” di Woody Allen oppure, qualche anno prima, “Sliding doors” di Peter Howitt, due film (ma se ne potrebbero citare moltissimi altri) che illustrano l’assoluta casualità che governa il vivere umano. Sto parlando evidentemente del nostro rapporto con la realtà, il rapporto che noi esseri umani abbiamo con ciò che è fuori di noi con cui bisogna fare i conti. Il tipo di rapporto che intratteniamo con la realtà ha origini lontane e chiama in causa la nostra storia personale anzi, per essere più precisi, la nostra genealogia, ossia la storia che ci precede e nella quale ci inseriamo quando veniamo al mondo. Proviamo a chiarire questa situazione, al solito secondo il modo di pensare della psicoanalisi, molto diverso da quello della comune logica razionale.

Stare al mondo e non domandarsi solo “come va?”

Quando incontriamo una persona conosciuta l’apostrofiamo in modo abbastanza standardizzato, per esempio chiedendo: “Come stai”, oppure “Come sta?”. Sia la domanda sia la risposta riguardano lo stato di benessere (o di malessere) di quel momento. Di solito si tratta di un misto dei due senza grandi preoccupazioni, a meno di stati di particolare tensione, negativa (e allora parleremo di sofferenza), o positiva (che definiremo come benessere o addirittura come felicità). La nostra preoccupazione principale in genere riguarda appunto i nostri stati di benessere, di salute fisica e/o mentale, in quanto soddisfacenti o carenti. Sembriamo ritenere che la realtà della nostra vita abbia a che fare con il modo in cui ci sentiamo di volta in volta, in un determinato momento. Non è completamente vero.

La vera domanda da porre potrebbe essere invece: al di là dei casi della vita, come vivo io? Come è impostata la mia vita? Troppa filosofia? Può essere, ma con un suo fondamento. Capita spesso, infatti, che noi siamo talmente presi dal nostro sentire personale, dal nostro vissuto del momento oppure dalle nostre sensazioni di malessere o di benessere, che siamo, insomma, così concentrati su noi stessi da lasciare che la nostra vita trascorra come se  fosse solamente immaginazione o fantasia. Non la usiamo, quindi, ma la consumiamo solamente o lasciamo che si consumi da sé.

Oppure, al contrario, possiamo essere così assorbiti da fatti esterni, concreti, materiali, sui quali in fondo abbiamo poca presa (ma dei quali temiamo di perdere il controllo), così da non porci mai la questione di quanto siamo realmente presenti in tutto quello che andiamo facendo. Detto altrimenti: stiamo creando qualcosa che ci esprime o non cerchiamo piuttosto il modo di sfuggire o di riempire un vuoto di cui temiamo la presenza incombente?

Anche in assenza di uno standard preciso, è possibile trovare una misura  del sentirsi vivi e del buon modo di vivere che valga per tutti? Questo è un punto fondamentale. Il modo in cui ci accomodiamo nella vita è un fatto molto personale che si riflette in quella miriade di sfumature particolari delle quali è fatta la nostra soggettività.

Questo è appunto il nostro mondo, quello che parla di noi quando noi ne parliamo. A partire da noi stessi, infatti, queste sfumature si estendono a tutti gli aspetti della vita: dai rapporti sociali a quelli professionali, a quelli affettivi e sentimentali, alle abitudini alimentari come a quelle che riguardano l’uso del tempo libero. E così via.

È relativamente semplice notare le caratteristiche specifiche delle persone, specialmente di quelle che ci sono più vicine, tuttavia, a meno che esse non risaltino in modo particolare in negativo o in positivo, in genere non vi prestiamo molta attenzione o, al massimo, qualora esse siano particolarmente disturbanti, le consideriamo alla stregua di stranezze di qualche conto, poco o tanto a seconda dei momenti.

Tutto questo rivela un fatto concreto: la nostra presa sulla realtà è in fondo molto relativa, anzi minima. Questo problema è presente in tutti noi ,sia pure con sfaccettature e con intensità diverse che danno luogo a soluzioni particolari. Queste ultime conferiscono un’impronta specifica alla vita di ciascuno e un modo personale e irripetibile di contribuire a plasmare un ambiente o una cultura se si vuole usare un termine più sofisticato.

Questo modo di stare al mondo secondo espressioni assolutamente personali, parla di noi e del modo in cui il mondo si è presentato a noi quando lo abbiamo incontrato all’inizio della nostra esistenza.

Un breve esempio. Una signora si lamenta: tutto, esseri viventi e cose, fatti, sembra congiurare per deluderla. È una costante della sua vita e ne è amareggiata e irritata.

Pare che per lei conti solo quello che manca, quello che non c’è. Avere un significato per lei è essere sempre e comunque deludenti. Tutto quello che le viene offerto ha poco valore. Se chiede un libro e lo riceve, non lo leggerà, ma se gliene offrono uno pensa subito: “Cosa vuoi? stai al tuo posto!”. Qualcosa di negativo si è impadronito del suo mondo, del suo funzionamento mentale, umano.

Ipotesi bizzarra per il senso comune: “è stata forse svezzata in modo brusco?”.

“Cosa vuole che mi ricordi?” risponde a questa domanda, ma aggiunge subito dopo: “Avevo due mesi e la mamma dovette essere ricoverata. Mi affidarono alla nonna…”. Appunto: tutto quello che contava, la mamma, non c’era più, era sparita di colpo, il mondo era cambiato, negativo. Come si fa a spiegare a una bambina di due mesi che quel brusco cambiamento che la privava di tutto quello che contava e che lei non poteva capire, ma solo subiva, non voleva dire che qualcuno ce l’avesse con lei!

Dimenticato? Affatto e neppure ricordato, ma inciso in lei, nella carne del suo corpo come una cosa naturale.

All’inizio, il mondo intero è lì per noi

“Ciao! Benvenuta/o fra noi in questo luogo! Felici che tu sia qui! Cosa possiamo fare per te? Chiedi e ti sarà dato!”. A tutti piacerebbe sentire profondamente vero che si sia stati accolti più o meno in questa maniera quando siamo venuti al mondo. Si capisce: questa è proprio la formula della felicità. Naturalmente questa formula prevede la presenza di qualcuno, un ambiente che si esprima in questi termini, mettendosi a disposizione, a nostra disposizione, come una guida che ci conduca a visitare un luogo assolutamente nuovo, completamente straniero.

A disposizione, però, non significa “disponibile”. La disponibilità è una qualità precaria, ondeggiante, tutta da verificare. Ci si può mettere a disposizione e accorgersi poi che la disponibilità va sfumando in atteggiamenti che esprimono appunto una gradualità e una presenza diverse. Diciamo comunque che, in una situazione mediamente accettabile, il comfort non manca e questo è ciò che dà senso a tutto quello che segue. Avere qualcuno a disposizione significa dunque, all’inizio, che il mondo intero è lì per noi.

In fondo, di solito nella nostra fetta di realtà, questo è abbastanza vero. Basta un qualsiasi piccolo cenno, un movimento, un verso, un vagito emesso ed ecco che (spesso anche se non sempre), la realtà si presenta subito con un volto benigno e affabile, a disposizione per il nostro benessere. Un segno, un cenno, un vagito e tanto basta: che potenza! Però non può durare e infatti non dura. Più o meno gradualmente, ma in fondo abbastanza all’improvviso, non è più così: il mondo non è più quello. Più o meno gradualmente esso cambia: una vera catastrofe!

Ammettiamo che di questo si tratta. Fino a un istante prima il mondo era lì per noi, poi un giorno ci svegliamo e, ripeto, più o meno all’improvviso le cose non sono più le stesse. Un terremoto, uno sconquasso al cui confronto l’esplosione di una supernova è poco più di un petardo la notte di Capodanno. Ma come: strillo e non risponde nessuno! Non mi sento a mio agio, qualsiasi cosa significhi, e me lo devo tenere! È un vero scandalo!

In realtà il mondo, l’ambiente, resta sempre più o meno lo stesso, ma siamo cambiati noi. Noi esseri umani, infatti, cambiamo anche se, ed è un fenomeno ben strano, restiamo sempre noi stessi o almeno così diciamo che sia. Chiamiamo cambiamento gli effetti psicologici, mentali, del nostro sviluppo fisico e questi effetti ci portano a renderci conto sempre più chiaramente del fatto che oltre a noi stessi c’è qualcosa d’altro, chiamiamolo un “non noi” o per essere più precisi un “non io” che appunto non è me stesso.

Insomma il mondo non è soltanto ”io” come ci sembrava all’inizio e fino a un certo momento. Ora esso è diventato anche qualcosa d’altro, qualcosa di diverso da noi, qualcosa che sta fuori, in un altro posto. Vi è anche di più perché tutto questo significa che ci sono altri posti, ignoti, fuori dalla nostra portata, che non vi è un solo luogo, il nostro, che tutti li riassume e li ingloba. E questo non è che il primo di una serie di passi, a volte persino tragici, che progressivamente ci chiariscono che noi siamo noi, ma il resto, il famoso “non noi, non io”, dopotutto non si cura granché della nostra eccezionale esistenza e, per di più, resta anche assolutamente indifferente alla nostra maestosa volontà.

Tutto quello che segue è una presa ridotta sulla realtà

Verrebbe voglia di tornare indietro, a un livello di sviluppo psichico inferiore, ma molto più piacevole, come sempre quando l’illusione ci culla. A dire il vero ci torniamo continuamente, per esempio ogni volta che ci addormentiamo e, dormendo, sogniamo ossia diamo spazio, per quanto possibile, all’illusione che i nostri desideri non incontrino ostacoli. Almeno per un attimo, fino a che restiamo nel sonno. Tuttavia questo livello superiore dello sviluppo psichico è fondamentale e da come esso sarà governato dalla singola persona deriveranno conseguenze diverse, un diverso destino.

Non è piacevole rendersi conto del fatto che la nostra presa sulla realtà è molto ridotta, miserella direi, rispetto a quello che si vorrebbe da piccoli. Si sa che i bambini, naturalmente, vogliono tutto. A dire il vero, però ,le cose andrebbero formulate in un modo leggermente diverso ossia: i bambini vogliono troppo.

Per questo il venire a patti con la realtà, con il mondo, è un segno di crescita e se questo, invece, non riesce, insomma se non si cresce abbastanza, si corre il rischio di fare della vita una vera tragedia. Il modo in cui si riuscirà a fronteggiare le sorprese che ci attendono a partire dalla fine, crudele, dell’illusione che tutto sia sempre lì per noi, anzi che ci sia perché noi ci siamo, la fine dell’illusione che tutta la realtà equivalga al famoso “apriti sesamo” di Alì Baba che mette a disposizione tesori senza fine, questo modo dicevo, dipende da come l’ambiente ha saputo venire incontro, all’inizio, al piccolo Alì Baba che vi è in ciascuno di noi. Almeno: questa è la visione della psicoanalisi.

Merita forse qui introdurre una piccola distinzione fra le parole disillusione e delusione.

La fine dell’illusione, della favola di Alì Baba, dei sogni notturni, può approdare a diverse soluzioni, per esempio a disilluderci.

La disillusione significa solo che la realtà, il mondo, è quello che è con i suoi lati positivi e quelli negativi, con le sue gioie e le sue delusioni. In altri casi, invece, non vi è alcuna disillusione perché non si è creata nessuna illusione di partenza, non è stata data la possibilità di cullarsi nel sogno felice che tutto sia lì per noi. Allora tutta la vita potrà apparire come una delusione continua, feroce a volte, dove nulla di positivo sembra in grado di modificare quella prima esperienza negativa, troppo dolorosa.

Un altro esempio. Un signore di notevole successo professionale, ha, però, una vita piuttosto complicata. Un contrasto, un’opposizione alla sua volontà generano in lui irritazione e rabbia. A volte trascende, dà in escandescenze, complicando i rapporti personali.

Qualcuno nota: “Si direbbe che non sopporti bene che le cose non vadano come vorrebbe”. Concorda e, come facciamo tutti, tende a giustificare se stesso. Tutto accade “perché” oppure “quando qualcuno” e così via. Ma così non funziona: nella vita vi è sempre qualcosa o qualcuno che non si adatta alle nostre attese.

“Non sarebbe meglio chiedersi se non avverta ogni imprevisto come una specie di provocazione?”.

Pare che al signore sia mancata la possibilità di sentirsi l’Alì Baba della situazione, che non abbia goduto mai di qualche privilegio, sia pure momentaneo.

E lui, improvvisamente, ricorda: “Mia madre passava ore fumando e guardando fuori dalla finestra. Quanto avrei voluto che guardasse me e non qualcosa d’altro! Quanto cercavo di attirare la sua attenzione in ogni modo”!

Poco importa che i fatti ricordati siano realmente accaduti. Il racconto spiega il senso di delusione, di sconforto e di rabbia che si fa sentire in lui quando la realtà sembra “guardare” altrove non curandosi di lui, della sua esistenza.

Consideriamo allora un caso medio, diciamo un caso abbastanza buono il che in fondo equivale anche al suo opposto, ossia abbastanza cattivo. Vedendo che il sesamo non si apre, o non si apre più quanto e come prima o addirittura che non vi è alcun sesamo e che anzi forse esso non è mai esistito, in un caso mediamente buono dunque, vi sarà una certa disillusione, una blanda rassegnazione, un’alzatina di spalle e un dirsi qualcosa che potrebbe suonare più o meno così: “Bene: la mia presa sulle cose del mondo è molto meno forte di quanto vorrei, ma in fondo non me ne importa molto. Non ne farò certamente un problema filosofico. So per esperienza che ci sono comunque molte cose interessanti nella vita e quindi se il mondo va avanti senza di me farò in modo di andare avanti anch’io con quello che mi metterà a disposizione”.

Equivale a dire più o meno che, preso atto della situazione, cercherò di volgerla a mio favore per quanto possibile, ben sapendo che solo questo mi darà quella moderata felicità, passeggera e sempre precaria, che in fondo caratterizza l’esistenza di ogni essere più o meno normale.

In questi casi, quando si riesce ad accettare che le cose non vadano sempre come noi vorremmo, ma che questo non è un torto che ci viene inflitto bensì è la normalità della vita, si può riuscire a essere ragionevolmente soddisfatti perché si vive nella prospettiva che ciò che conta veramente è quello che esiste, quello che possiamo avere, la realtà presente, completa anche se non assolutamente corrispondente a come la vorremmo.

Per esempio: succede a tutti di avere una giornata storta. Ci si rifugia a volte in se stessi e si aspetta che passi, fiduciosi, ma sempre con un fondo di dubbio, che insomma “domani è un altro giorno” o almeno così si spera.

Oppure si può procedere in altro modo: “sai che c’è? Mi consolo da sola/o, mi faccio un regalo”, e forse si riesce così a superare la difficoltà, vedendola per quello che essa è: un momento negativo, ma non l’espressione di un destino infernale.

Un signore, comperata una bellissima bicicletta, una vecchia, nobile “Bianchi” tutta nera, con le sue decorazioni dorate e un bel manubrio cromato e lucido, esce soddisfatto per fare la prima pedalata. Si ferma davanti a un negozio e, legato il velocipede con una bella catena a un palo, entra. Esce dopo forse cinque minuti: la bicicletta non c’è più.

Passato un comprensibile momento di rabbia e di sconforto, il nostro, il giorno dopo, potendolo fare, se ne compera un’altra. Identica, ma munita di una catena enorme.

Diverso è il caso in cui invece l’illusione che le Mille e una Notte esistano veramente non abbia potuto formarsi in noi in modo sufficientemente stabile, quando per esempio si è stati immersi in un ambiente instabile, soggetto a sbalzi di umore eccessivi e continui, non prevedibili ma attesi. In questi casi si può generare in un bambino un senso di insicurezza accompagnato dall’idea di doversi continuamente guadagnare una benevolenza sempre sul punto di fuggire via. Più che a uno svanire progressivo, l’illusione sarà sempre sottoposta al dubbio e all’incertezza. La sua fine, la sua scomparsa fatale e necessaria suonerà come un torto che ci viene inflitto ingiustamente, come una beffa anzi persino come un’offesa.

È come sentire di essere nati sfortunatamente sul lato sbagliato della vita, costretti quindi a osservare con una certa invidia i fortunati, ossia tutti gli altri salvo noi, ai quali è capitata invece la sorte benigna di poter godere di quello che a noi è stato malevolmente precluso. Non è necessario che l’ambiente sia negativo, cattivo se vogliamo. Basta che vi sia una situazione incertezza, uno scarto continuo fra le attese e le risposte ottenute in un ambiente anche valido ma emotivamente poco affidabile. In casi come questi la questione della realtà che sfugge alla nostra presa, che non si piega alla nostra volontà, può diventare un problema, a volte notevole.

Non è raro trovare persone che, senza rendersene pienamente conto, sembrano impostare tutta la loro vita in un continuo tentativo di piegare la realtà al proprio volere, cercando continuamente di venire a capo del fatto misterioso e inaccettabile che questo non accada. Alcuni, io fra gli altri e chiedo scusa, ritengono un poco malignamente che molti filosofi stiano su questa linea. A differenza del medico che ascolta, o almeno così dovrebbe fare, il filosofo chiede di essere ascoltato nel suo sforzo di spiegare al mondo la realtà e, a volte, in modo così perentorio da tollerare con una certa difficoltà le opinioni diverse.

Vi è infine anche il caso estremo, il più difficile, quello di chi ha vissuto una totale privazione di ogni privilegio, intensa, senza interruzioni sin dal primo momento, a volte effettiva e reale come nel caso di certi abbandoni precoci, a volte immaginaria, ma non per questo meno efficace per la nostra vita psichica e affettiva. Allora la vita può essere veramente molto difficile. La realtà del mondo non può  presentarsi se non come distante, rifiutante fino all’ostilità, una continua minaccia per sé e per la propria incolumità, mentale innanzitutto, ma anche corporea. Una minaccia totale dunque, come quella di un nemico temibile da contrastare con ogni mezzo, fino a contrapporgli, a volte per salvarsi, delle costruzioni personali, delle neorealtà come deliri, allucinazioni, creazioni mentali di quella determinata persona.

Ferite, disillusione e amore

La disillusione, per quanto utile e necessaria, rappresenta sempre un momento delicato nella nostra vita. Prendere atto di come stanno le cose ossia che la nostra presa sul mondo è molto ridotta, è sempre una prova importante perché in fondo significa innanzitutto che mancherà sempre qualcosa al senso di pienezza, il paradiso terrestre, che riteniamo di avere avuto un tempo e che si vorrebbe continuasse per sempre perché in esso identifichiamo la felicità che tutti cerchiamo. È una ferita che, rimarginandosi poco alla volta, potrà lasciare solo una cicatrice oppure che resterà in parte o che, in casi estremi, rimarrà aperta e dolente per sempre come il rimpianto di certi amori perduti che il ricordo ammanta di un’aura di perfezione inarrivabile.

Ogni evoluzione parla del modo in cui siamo stati accompagnati in questo percorso che, progressivamente, ci svela la realtà della vita che ci attende. È questione di amore. Da un lato qualcuno rinuncia a una parte di sé offrendola a un estraneo e nello stesso tempo qualcun altro si appropria di qualcosa che gli è estraneo e se ne fa carico. Chiamiamo questi qualcuno “genitori”, non solo biologici, ma genealogici,  quelli che ci inseriscono in una traccia di cui loro già sanno e di cui a noi, ciascuno a modo suo, come sa fare, trasmette la conoscenza. Non è certamente una questione di cultura, di ceto sociale o di censo.