Olimpiadi 2016: il Brasile (e non solo) accetta la sfida

Pubblicato il 8 Giugno 2016 in , , , da redazione grey-panthers

Lo scorso novembre, una settimana dopo gli attentati di Parigi, un presunto jihadista francese affiliato allo Stato islamico (Isis), Maxime Hauchard, pubblicava un tweet con il quale minacciava il Brasile: “Brazil, you are our next target”. L’agenzia d’intelligence brasiliana Abin, dopo le necessarie verifiche, confermava l’autenticità dell’account, prendendo seriamente le minacce rivolte dall’Isis al paese che il prossimo agosto ospiterà le Olimpiadi a Rio de Janeiro.

Garantire uno svolgimento ottimale di grandi eventi sportivi è sempre una grande sfida per le autorità del paese ospitante che si trovano a dover affrontare una moltitudine di problematiche organizzative, ma anche legate alla pubblica sicurezza. Le Olimpiadi sono tradizionalmente un grande media event ed anche un soft target dal forte appeal per soggetti o gruppi legati alla galassia del terrorismo. Basti ricordare a tal proposito le Olimpiadi di Monaco del 1972, quando un commando di Settembre Nero assaltò gli alloggi e uccise 11 atleti israeliani.

Misure preventive anti-terrorismo

Pur considerando che la minaccia Isis è di scala globale, il Brasile fino allo scorso novembre non era ancora stato oggetto di avvisaglie jihadiste tanto che solo recentemente il parlamento ha emanato una legislazione più specifica contro il terrorismo, tra l’altro molto criticata da alcune organizzazioni per i diritti umani, come la United Nations Human Rights (UNHR) e la Human Rights Watch (HRW), in quanto il nuovo dispositivo di legge non definisce in modo preciso il concetto di terrorismo, mettendo così a rischio i diritti fondamentali dei brasiliani e aprendo le porte a un utilizzo strumentale della legge contro persone che non hanno nulla a che fare con il terrorismo.

Le preoccupazioni delle autorità brasiliane sono collegate al rischio di una complessiva e graduale degenerazione delle manifestazioni di piazza, che potrebbero sfociare in estremismo politico violento, legato in parte a un disagio socio-economico interno. Le probabilità che ciò avvenga sono quindi forse maggiori rispetto a un potenziale attacco jihadista.

Tornando al problema terrorismo, i provvedimenti legislativi sono comunque soltanto una parte del complesso di misure prese in considerazione dalle autorità brasiliane. Per prima cosa, il numero di agenti dispiegati a protezione dei Giochi olimpici è stato portato a 85.000 unità, coinvolgendo personale del ministero della Difesa, della polizia militare e civile; il doppio rispetto al personale utilizzato alle Olimpiadi di Londra del 2012. E’ inoltre stato istituito un centro anti-terrorismo che si interfaccerà con centri di coordinamento della polizia, dell’esercito e dell’intelligence, che avranno a loro volta il compito di monitorare aree sensibili della città carioca, come Barra Tijuca, Maracanà, Copacabana e Deodoro.

Un aspetto essenziale è però quello legato alle attività preventive di intelligence, che implicano la condivisione di informazioni con gli apparati di intelligence esteri, il coordinamento con le agenzie a seguito delle proprie delegazioni sportive partecipanti ai Giochi, ma anche un lavoro di monitoraggio interno che prevede lo screening di potenziali “lupi solitari” che potrebbero cercare di attivarsi con azioni spettacolari. Del resto era stato lo stesso capo dei servizi di sicurezza brasiliani, Luiz Alberto Sallaberry, a spiegare come vi sia stato un aumento del numero di brasiliani sospettati di simpatizzare con l’ideologia dell’Isis.

Se dunque al momento non sembrano esserci elementi che possano far pensare a una rete estesa dell’Isis attiva nel reclutamento, con necessari appoggi logistici, su modello francese o belga, resta comunque il timore del cosiddetto “lone wolf jihadism”.

Non mancano però le critiche alle misure prese dalle autorità brasiliane, come quelle di Lloyd Belton, analista politico presso la S-RM Consultancy, secondo cui in Brasile ci sarebbe una tendenza a equiparare un miglioramento della sicurezza con un incremento del numero del personale, trascurando invece la parte predisposta all’intelligence, fondamentale ma cronicamente sotto-finanziata .

Anche Paulo Storani, esperto di pubblica sicurezza ed ex colonnello del Bope, le forze speciali della polizia di Rio de Janeiro, è critico nei confronti dell’incremento di agenti. Secondo Storani il Brasile non ha investito sufficientemente in tecnologia per la sicurezza, cercando di compensare con un maggior numero di personale, una strategia poco efficace dal suo punto di vista.

Non bisogna inoltre dimenticare la difficoltà nel monitorare i 14.700 km di confine che il Brasile condivide con Bolivia, Colombia, Guyana Francese, Guyana, Paraguay, Perù, Suriname, Uruguay e Venezuela, confini frequentemente utilizzati dai trafficanti per il traffico di armi e droga.

Nonostante gli allarmi e le minacce potenziali, il responsabile eventi del ministero della Giustizia, Andrei Rodrigues, sostiene invece che il Brasile è pronto per la sfida olimpica e che il forte utilizzo di personale addetto alla sicurezza ha già dimostrato la sua efficacia durante i Giochi panamericani del 2007.

Rodrigues ha inoltre illustrato come le autorità governative abbiano implementato un centro antiterrorismo, in particolare per lo scambio di informazioni sia a livello domestico sia a livello internazionale, con le forze di polizia estere, evidenziando l’importanza della cooperazione tra paesi. Ci si aspetta dunque il massimo della sicurezza .

L’infiltrazione islamista in Brasile

Il terrorismo di matrice islamista in Brasile risulta particolarmente legato alla famigerata “area dei tre confini”, che collega Brasile, Argentina e Paraguay . Una zona ad alto tasso di immigrazione araba, iniziata negli anni Settanta-Ottanta, prevalentemente composta da libanesi e palestinesi e con una forte presenza di sciiti.

La città paraguayana di Ciudad del Este e quella brasiliana di Foz do Iguazu, sono particolarmente note per essere sedi di organizzazioni criminali dedite a traffici illeciti di ogni genere (prostituzione, armi, sostanze stupefacenti, merce contraffatta e rubata), come illustra un rapporto della Federal Research Division della Library of Congress degli Stati Uniti [7]. L’area dei tre confini è stata anche per lungo tempo base del terrorismo islamista legato a Hezbollah tanto che è proprio lì che sono stati preparati gli attentati all’ambasciata israeliana e alla sede della comunità ebraica di Buenos Aires del marzo 1994, coordinati dal noto terrorista Imad Mugnyeh, ucciso a Damasco nel febbraio 2008. Il medesimo rapporto riferiva inoltre della presenza, sempre nell’area, di alcune cellule qaidiste.

Oggi, nonostante l’area in questione resti comunque estremamente sensibile alle problematiche sopra esposte, in Brasile si affaccia anche un altro fenomeno che potrebbe diventare problematico nel breve e medio periodo e cioè l’infiltrazione dell’Islam radicale nelle favelas, favorito anche dall’alto tasso di povertà e dalle drammatiche condizioni di vita che fanno gola sia a predicatori itineranti sia a potenziali attivisti. Nelle favelas della zona di San Paolo sono state segnalate diverse musallat (sale di preghiera) gestite da convertiti, con un passato da musicisti o appassionati di rap e hip-hop, con una forte indole ideologica. Caratteristiche che fanno emergere un parallelo con diversi casi di ex rapper che si sono poi convertiti all’ideologia islamista radicale e si sono uniti all’Isis, come l’italiano di origine marocchina Anas el-Abboubi, il tedesco Denis Cuspert “Deso Dogg”, lo statunitense Douglas McAuthur McCain e il britannico Abdel-Majed Abdel Bary, giusto per citare alcuni casi [8]. Un fenomeno in consolidamento e che trova una sua logica secondo lo studioso Amil Khan. Infatti, sia il jihadismo sia il “gangsta rap”, pur partendo da motivazioni diverse promuovono un senso di risentimento verso la società, concentrandosi su vendetta e violenza come modus operandi per ristabilire un equilibrio”.

Nello specifico contesto delle favelas brasiliane, la retorica con la quale salafismo e jihadismo fanno proselitismo è molto importante perché mirano all’esclusione sociale, alla carenza educativa e alla povertà, prendendo come esempio la vita di Maometto. Un personaggio interno a uno dei gruppi rap-islamici di San Paolo spiega che la biografia di Maometto è segnata da esclusione sociale (come narrato dai racconti storici): orfano, analfabeta, tra i suoi primi convertiti vi erano schiavi e poveri. Molti abitanti delle favelas si identificano dunque con tale figura. Se la conversione al salafismo, chiaramente, non implica un passaggio automatico al jihadismo e all’estremismo violento, è però lecito valutare i rischi di una possibile eventualità, considerando tra l’altro che armi e munizioni sono facilmente reperibili nelle favelas.

Un fenomeno in evoluzione

Nonostante in Brasile non ci sia al momento un allarme per possibili attentati jihadisti alle prossime Olimpiadi, le autorità locali hanno comunque implementato le misure di sicurezza necessarie per poter garantire il tranquillo svolgimento dell’evento, prendendo in seria considerazione sia eventuali problematiche legate all’estremismo politico violento di matrice interna sia quelle legate al jihadismo. Per quanto riguarda invece l’infiltrazione dell’ideologia radicale islamista nelle favelas, si tratta di un fenomeno che va ben oltre l’evento olimpico e che va analizzato con una prospettiva a lungo termine in modo da prevenirne una pericolosa diffusione, con tutte le potenziali conseguenze in un contesto difficile come quello in questione.

Giovanni Giacalone, ISPI Associate Research Fellow e Itstime