“Il sesto comandamento”, di Anna Vera Sullam

Pubblicato il 15 Settembre 2015 in , da redazione grey-panthers

Rodolfo

Nell’imboccare la calle che conduceva al ponte Storto, Rodolfo camminava veloce, tenendo premuta con una mano la sciarpa a protezione della guancia gonfia e senza alcuna idea di quello che l’attendeva nel palazzo situato dall’altra parte del rio che era divenuto da qualche mese la sede della Scuola Ebraica Superiore di Venezia.

Era appena uscito dallo studio del dentista, il dottor Alberti, un brav’uomo che, nonostante le leggi in vigore, non aveva smesso di curare lui e la sua famiglia, suoi pazienti da anni. Per prendere l’appuntamento Rodolfo aveva telefonato, titubante, allo studio e parlato con la signorina Lucrezia, l’assistente del dentista, lasciandole il suo nome e chiedendole espressamente di informarsi se il medico avesse o no l’intenzione di riceverlo. La signorina Lucrezia era parsa stupita della domanda del paziente che conosceva da tempo, ma, alle insistenze di Rodolfo, era andata a chiamare il dottore.

Alberti era venuto al telefono e gli aveva detto seccamente: «Rodolfo, non fare il mona, ci vediamo il quindici».

Così il 15 di quel piovoso mese d’ottobre Rodolfo era andato a farsi estrarre un dente del giudizio nello studio lungo e stretto che si affacciava su campo Santi Filippo e Giacomo. Per raggiungere l’ambulatorio era passato per piazza San Marco, non perché fosse necessario, ma perché non la vedeva da tempo: la piazza era deserta per la pioggia e per l’ora, il colonnato del Palazzo Ducale nascosto dai sacchi accumulati per ripararlo da eventuali bombardamenti, la facciata della basilica occultata da un’incastellatura di legno. La vista di quelle fragili protezioni gli suscitò una vaga sensazione di angoscia. Aveva fatto male a scegliere quel percorso, erano meglio le strade interne, le Mercerie o la Spadaria dove non si notava alcun segno visibile della guerra in corso, dove le botteghe esibivano ancora vetrine ricche di merci e i ristoranti erano aperti, anche se un esame più accurato o un’inchiesta tra i negozianti e i ristoratori avrebbe dimostrato che gran parte dei locali era vuota e che i gestori si lamentavano di un’estate in cui i turisti stranieri avevano brillato per la loro assenza.

L’Italia era in guerra da quattro mesi, troppo pochi perché si sentissero i morsi della fame o il vuoto causato dai decessi, troppi per chi aveva creduto che sarebbe durata qualche settimana consentendo al Duce di sedersi trionfalmente al tavolo dei vincitori.

Di bombardamenti non ce n’erano stati, ma alcuni allarmi avevano indotto le famiglie a scappare nei rifugi. In realtà era stata presa di mira solo la zona industriale, in specie il porticciolo dei petroli con gli stabilimenti della Liquigas, tuttavia la popolazione, memore degli attacchi aerei subiti durante la Grande Guerra, che avevano causato più di cinquanta morti e molti danni alla città, era inquieta e scrutava il cielo con sospettoso timore.

Anche la paura che i rifornimenti potessero mancare da un momento all’altro aveva cominciato a turbare i cittadini ed era divenuta il maggiore oggetto di conversazione, mentre si mettevano in luce i primi cambiamenti nello stile di vita. I divieti di libera commercializzazione di questo o quel genere, e in particolare dell’olio e del sale, irritavano la gente, convinta che la penuria fosse dovuta al fatto che i siori, i signori, avevano fatto incetta di questi beni. Mugugni, bronto- lamenti e il timore che la guerra, forse, sarebbe durata più di quanto Lui aveva promesso.

Mentre attraversava la piazza dirigendosi verso il ponte della Canonica, Giulio si era chiesto se le disposizioni del governo stabilissero esplicitamente quale doveva essere il comportamento dei professionisti ariani nei confronti dei loro clienti ebrei. Non lo sapeva. Si era ripromesso di cercare queste norme, se esistevano, nell’elenco dei provvedimenti inviati dal prefetto alla Comunità israelitica di Venezia.

Poi, dopo essersi arrampicato per le scale ed essersi infilato nel corridoio che sfociava nell’ambulatorio, le riflessioni erano state sostituite dalla paura dell’enorme siringa che penetrava nella mandibola paralizzandola, dalle tenaglie minacciose che afferravano, torcevano, strappavano il dente martoriato, dal sangue che usciva a fiotti, dal dolore tenuto a bada dall’anestesia, ma pronto a riesplodere.

Non si erano scambiati una parola sulla domanda posta da Rodolfo: il dottor Alberti voleva ancora curare Rodolfo Donati? E più in generale: poteva un medico ariano assistere un paziente ebreo?

Era una domanda inconsistente, priva di significato: questo dicevano le attenzioni mute del dentista, le prescrizioni, la richiesta di controllarlo nei giorni successivi, il consiglio di prendersela con calma, di ritornare a casa se possibile, di as- sentarsi, almeno per quel pomeriggio, dal lavoro.

Quando si ritrovò nel campo Santi Filippo e Giacomo, con la guancia gonfia, ma sollevato e libero da un dolore che lo torturava da giorni, invece di svoltare a sinistra e andarsene a casa, si diresse verso la calle Rimpetto la Sacrestia e verso la sede della scuola ebraica, a pochi minuti di strada.

Se avesse ascoltato i consigli del medico non si sarebbe trovato coinvolto, o almeno non così profondamente, nei fatti che sconvolsero la piccola Comunità degli ebrei di Venezia in quei giorni d’ottobre del primo anno di guerra.

Il palazzo si apriva sulla breve fondamenta del ponte Storto, chiamata così per via del ponte che, a sua volta, doveva il nome al fatto che attraversava obliquamente il rio. Era un edificio non molto alto ma ampio e imponente, che la Comunità israelitica aveva comprato l’anno precedente perché potesse ospitarvi la scuola media e la scuola superiore. Era costato parecchio, 80.000 lire, uno sproposito per gli scarsi mezzi della Comunità che, per far fronte a una simile spesa, aveva dovuto distogliere fondi destinati ad altre importanti attività. La scuola però veniva prima di tutto, prima delle sinagoghe, dei luoghi di ritrovo, persino dell’assistenza. Da quando nel settembre del ’38 una velina ministeriale aveva spiegato che sarebbe stato inconcepibile “che dopo aver ammesso il principio della purezza di sangue si trascurasse quello della purezza del pensiero e della cultura”, prima ancora che fosse emanata la legge che sanciva l’allontanamento degli alunni e dei professori ebrei da ogni ordine di studio e di insegnamento, i dirigenti della Comunità avevano deciso di istituire una scuola per coloro che ne sarebbero rimasti privi. Il primo anno erano stati avviati alcuni corsi nella sede precedente, che era risultata troppo piccola per ospitare tutte le classi necessarie. Ciò aveva indotto all’acquisto del palazzo di fronte al ponte Storto dove, ormai da un anno, funzionava l’intero ciclo delle medie e delle superiori.

Rodolfo tirò fuori le chiavi per aprire il portone (averle gli dava, nonostante tutto, un senso di orgoglio), ma si accorse con disappunto che il portone era rimasto aperto: spesso il chiavistello restava bloccato cosicché la serratura non chiudeva perfettamente e bastava una spinta perché si riaprisse. Avrebbe dovuto chiamare un falegname e farla sistemare. Salì le scale silenziose. Erano le due e mezzo ed erano usciti tutti.

Era la prima volta che si trovava da solo in quel luogo. Normalmente ci arrivava di mattina quando l’edificio brulicava di studenti, di professori, di operai che in quei giorni andavano e venivano perché stavano finendo di sistemare l’alloggio del custode al secondo piano.

Rodolfo girò a destra alla fine della scala ed entrò nel salone buio perché le luci erano spente mentre, normalmente, erano accese anche a quell’ora per via del tempo e perché al primo piano i raggi del sole non riuscivano a penetrare in modo sufficiente a illuminare del tutto l’ambiente.

Il salone era lungo e stretto e circondato da stanze che fungevano da aule lungo i lati maggiori, mentre la parete in fondo era occupata da quattro grandi finestre che davano sulla fondamenta e sul canale.

C’erano cinque aule (per le medie e per i primi due anni delle superiori), un gabinetto e un ufficio per il segretario. A sinistra della scala, invece, c’erano due stanze, per il preside e per la dattilografa, e un bagno.

Le stanze destinate agli alunni del liceo erano al secondo piano, dove un salone identico a quello di sotto era circondato da tre aule, un bagno, uno stanzino dove la bidella teneva le scope, mentre, sulla sinistra, si apriva un’ampia stanza destinata a biblioteca. Mentre i locali al primo piano erano stati adibiti a uffici, quelli del secondo piano dovevano diventare un piccolo alloggio per il custode, ma erano ancora in fase di ristrutturazione.

Gli insegnanti avrebbero desiderato una stanza tutta per loro, invece erano costretti a condividere lo spazio con quello della biblioteca. Non si poteva però sacrificare un’aula, per- ché il benessere dei ragazzi veniva prima di quello degli adulti. Era quanto di meglio si era riusciti a predisporre in quei mesi di mutamenti e di turbolenza. Dall’ufficio della segretaria del preside filtrava una debole luce. Rodolfo bussò ed entrò. Stella, la giovane dattilografa, alzò la testa dalla macchina da scrivere e lo salutò con una punta di stupore, come se non si fosse aspettata di vederlo lì.

«Buongiorno, Stella, ha visto per caso il commissario?»

«No, non è venuto oggi. Aveva un appuntamento con il prefetto e poi è andato a trovare il signor Keller, ricorda? Il consigliere è ammalato e gli ha chiesto di passare da lui; devono rivedere la relazione economica. Pensavo che lei non sarebbe venuto perché sapevo che aveva un appuntamento dal dentista.»

«Infatti, ho finito dieci minuti fa» chiarì Rodolfo, e si sfiorò con la mano la guancia. Non si accorse neppure che la segretaria aveva usato il “lei” invece del “voi” imposto dal Regime. All’interno della scuola nessuno ci faceva caso, anche se il preside aveva spiegato a tutti che sarebbe stato meglio seguire le regole. Per alcuni si trattava di una semplice difficoltà ad adottare un modo di parlare estraneo alle loro abitudini, per altri invece era un gesto sommesso ma consapevole di ribellione.

«Avrebbe dovuto andare a casa» gli disse con sollecitudine la segretaria, e aggiunse: «Ha bisogno di qualcosa?».

«No, grazie. Devo sbrigare ancora alcune pratiche.» Dopo averle sussurrato un frettoloso «Buon lavoro», Rodolfo entrò nel suo ufficio dove tirò fuori un registro nel quale doveva inserire le ultime uscite. La questione del rapporto tra professionisti ariani e clienti o pazienti ebrei continuava però a disturbarlo, così interruppe il lavoro appena iniziato e si mise a cercare il fascicolo con i provvedimenti sulla razza. Lo trovò in uno dei cassetti del settimanale, un alto mobile di legno scuro con le maniglie d’ottone, a mano- pola, sistemato di fianco alla scrivania.

La lettura gli fece venire, come sempre, voglia di stringere le mascelle e digrignare i denti – cosa impossibile dato l’in- tervento appena subito –, pensando a quanti ragazzi erano stati allontanati da scuola e a quanti adulti avevano perso il lavoro. Anche lui aveva perso il proprio, ma non era quello il momento di lasciarsi andare ai rimpianti. Aveva l’impres- sione che il materiale che aveva di fronte fosse scarso, che mancassero dei fogli, perciò si risolse a tornare in segreteria.

«Stella, scusi, sa se esista un altro fascicolo con i provvedimenti del governo?»

«Non mi sembra, però l’altro giorno ho portato alcune scatole di documenti archiviati di sopra, in biblioteca. Le ho messe per terra, accanto a uno degli armadi. Magari le carte che cerca sono lì.»

«Mi pare difficile, comunque farò un salto a vedere.» Rodolfo salì le scale con la guancia che cominciava a pulsargli dolorosamente. L’ambiente era silenzioso e il giovane si chiese dove fossero finiti gli operai che stavano lavorando al piccolo bagno dell’alloggio del custode.

La biblioteca era in realtà una stanza che ricopriva varie funzioni: tre grandi armadi con le portelle costituite da grate di legno intrecciate diagonalmente e sotto le quali era fissato un tessuto rosso scuro che, anziché ravvivare, rendevano l’ambiente più cupo, contenevano libri e materiale d’archivio; c’era un altro settimanale, molto simile a quello situato nell’ufficio del segretario, nei cui cassetti gli insegnanti tenevano i testi di scuola, i registri e gli oggetti personali; un appendiabiti a piede parzialmente nascosto da un paravento che avrebbe dovuto concedere un minimo di privacy agli insegnanti che intendevano cambiarsi le scarpe o infilarsi un grembiule; un mobiletto aperto con tre ripiani sui quali erano state accatastate cianfrusaglie d’ogni tipo; un tavolo e alcune sedie dove i professori potevano accomodarsi tra una lezione e l’altra. Tutto poco invitante. Magari in futuro avrebbero potuto abbellirlo un po’.

Rodolfo si diresse verso le scaffalature ma, con la coda dell’occhio, scorse un grosso involto scuro che giaceva sul pavimento, seminascosto dal paravento. Per un istante suppose che fosse un cappotto caduto dall’appendiabiti, ma una scarpa e una gamba attaccata a questa gli levarono l’illusione.

Si accostò alla persona stesa sul pavimento con il cuore in sussulto e un folle desiderio di scappare di lì. Si trattava di una donna, non più giovane, con la gonna che si era sollevata quel tanto da scoprire due polpacci robusti. Doveva essere caduta in avanti perché il viso era nascosto e si vedevano solo i capelli grigi e inzaccherati di sangue. Rodolfo, sporgendosi un po’, notò la pozza scura che si era allargata accanto al capo. Senza alcuna speranza di poterla risvegliare, toccò la spalla della donna scrollandola leggermente, ma il corpo non si mosse. Allora appoggiò due dita sul collo, stando ben attento a non toccare quell’orribile grumo vischioso che era fuoriuscito dal cranio. La pelle era fredda e non vi era alcuna pulsazione. Rodolfo si rialzò in preda alla nausea, terrorizzato all’idea di vomitare sopra il cadavere, e si avviò barcollando verso la scala. Tornato al primo piano entrò nell’ufficio della segretaria senza bussare alla porta.

Doveva avere una faccia sconvolta perché Stella lo guardò con apprensione: «Cos’è successo? Si sente male? Si sieda, tenga. Avevo appena preso un bicchiere d’acqua per me, beva, beva la prego».

Rodolfo si afflosciò sulla sedia incapace di parlare, poi bevve l’acqua tutta d’un fiato e mormorò un «Grazie» alla ragazza.

«Stella, per favore, chiami i carabinieri, la polizia, chi vuole lei. C’è… c’è una persona morta nella biblioteca.»

Stella spalancò la bocca, sgranò gli occhi che si arrampicarono fin quasi a occultare le sopracciglia, ma non si mise a urlare.

«Oh, Signore! Com’è possibile? Chi è? Di chi si tratta?» Poi, senza aspettare una risposta da Rodolfo, che sembrava completamente stordito, sollevò la cornetta.

«Quel vicequestore che è venuto qui in Comunità ci ha lasciato il suo numero. Ha detto che, se avevamo problemi, dovevamo telefonare a lui. Potrei chiamarlo, non crede?»

Stella si riferiva al fatto che, alcuni giorni prima, per un motivo non del tutto comprensibile, alcuni personaggi autorevoli come il prefetto, il vicequestore (al posto del questore che era assente) e il provveditore scolastico erano venuti a visitare la scuola in occasione dell’apertura dell’anno scolastico 1940-1941.

Dopo aver atteso inutilmente, la ragazza formò il numero della questura.

«Hanno detto che arrivano subito» disse alla fine della telefonata.

Dopo qualche istante Rodolfo parve riscuotersi dal torpore e mormorò: «Credo che sia la professoressa Forti».

Ci vollero pochi minuti – la questura si trovava a poche centinaia di metri di distanza – prima che Stella aprisse la porta a due poliziotti in abiti civili, che entrarono nello studio con aria accigliata.

Uno dei due fece il saluto romano e si rivolse a Rodolfo:

«Sono il vicequestore Gigli, e questo è il maresciallo Russo. Come vi chiamate?».

«Mi chiamo Rodolfo Donati, sono il segretario della scuola. La signorina si chiama Stella Lampronti, fa la dattilografa. Lei è venuto qui…» Poiché il vicequestore aveva aggrottato le sopracciglia, Rodolfo si corresse: «Siete venuto qui qualche giorno fa, ci siamo conosciuti».

Gigli lo guardò come se Rodolfo gli avesse chiesto di riconoscere un gatto randagio.

«Può darsi. Allora, dov’è questo cadavere?» chiese, come se non credesse che ce ne fosse uno, come se si trattasse di uno scherzo di pessimo gusto.

«È di sopra, al secondo piano. Se volete vi accompagno.» Il vicequestore si diresse verso la scala come se conoscesse perfettamente l’ambiente, ingiungendo a Rodolfo di seguirlo e a Stella di rimanere al suo posto.

Giunti di fronte alla biblioteca, Gigli si tolse di tasca il fazzoletto e girò la maniglia della porta.

«È aperta, l’avete toccata?»

«Be’, sì, l’ho aperta, mica sapevo che ci fosse un cadavere.»

Gigli lo guardò con freddezza: «Avreste almeno dovuto chiuderla a chiave dopo».

«Mi dispiace, non ci ho pensato, ero… Non sapevo quello che stavo facendo. Non so nemmeno se ci sia una chiave. Comunque non c’è nessuno nell’edificio, salvo la signorina Lampronti e io. Non ho visto neppure la donna delle pulizie. Non ci sono neanche gli operai.»

«Dovrebbero essercene?»

«Sì, stanno lavorando qui accanto, in quello che sarà l’appartamento del custode, è molto piccolo…»

«Va bene, me lo direte dopo, entriamo. Russo dietro di me e voi rimanete dietro al maresciallo.»

Il vicequestore entrò oscurando la visuale a Rodolfo che, dal punto in cui era, non riuscì a vedere il cadavere, tanto che, per un istante, si chiese se non lo avesse sognato. Poi il vicequestore si piegò sulle ginocchia e lo stesso fece il mare- sciallo, così Rodolfo poté constatare che il corpo era lì, nella posizione in cui l’aveva lasciato.

«Avete toccato il cadavere? Lo avete spostato?»

«No, le ho solo messo due dita sul collo per sentire se c’erano segni di vita.»

«Siete un medico?»

«No, no, mi è solo sembrata la cosa giusta da fare» rispose Rodolfo imbarazzato.

«La cosa giusta da fare è non toccare nulla» rimarcò il dirigente con tono sarcastico, poi continuò: «Sapete chi sia questa donna?».

«Credo che sia un’insegnante, la professoressa Ida Forti.»

«Credete?»

«Scusate, non la vedo bene, è girata.»

«Che ci faceva qui?»

«Questa è la stanza per gli insegnanti, oltre che la biblioteca. Ci tengono le loro cose, i libri, i cappotti.»

«Russo, prendete nota, elencate tutto ciò che trovate e chiudete a chiave la porta. Questo è il luogo del delitto, locus commissi delicti» aggiunse con un tono pomposo che diede definitivamente sui nervi a Rodolfo. «Nessuno può entrare qui dentro, avete capito? Anzi è meglio che nessuno salga al secondo piano, siamo intesi? Almeno finché non verranno prese le impronte digitali. Io, intanto, vado a telefonare al giudice istruttore.» Gigli fissò Rodolfo con aria truce.

In quella il maresciallo Russo, che se ne stava ancora accucciato accanto al corpo, levò un grido di trionfo: «Dottore, penso che abbiamo trovato l’arma del delitto!».

Era un busto in bronzo che poggiava su una base quadrangolare con la quale formava un tutt’uno. Era pesante e la base aveva angoli ben definiti e taglienti.

Il vicequestore lo sollevò prendendolo con il fazzoletto da una parte e con il lembo della giacca dall’altra per non eliminare eventuali impronte, poi si voltò verso Donati e, guardandolo con cipiglio feroce, sibilò: «Con questo l’hanno uccisa!».

Il fatto era che il busto rappresentava il grande capo del fascismo e dell’Italia, il cavaliere Benito Mussolini.

«Che ci faceva qui questa statua?»

«Non lo so, ecco, mi sembra che un tempo fosse giù, non ricordo quando è stata spostata. Mi dispiace, non me lo ricordo proprio.»

In realtà ricordava benissimo dove stava in precedenza. Fino a non molto tempo prima il busto, che era stato regalato al commissario governativo da uno dei suoi amici fascisti, troneggiava sulla scrivania di costui, l’uomo che aveva governato gli ebrei veneziani negli ultimi anni, nella sede in Strada Nuova, a Cannaregio. Poi, in previsione del cambiamento ai vertici della Comunità, qualcuno, pur non osando buttare via la statuetta, l’aveva trasportata con varie scartoffie nell’edificio della scuola, dove, però, il preside aveva ordinato che fosse messa al piano di sopra, relegandola su uno dei ripiani dove si accatastavano le cose più disparate. Forse era stato il commissario stesso a esiliare in effige il capo dell’Italia, rinsavito dopo aver sperimentato cosa significava dirigere una Comunità israelitica ai tempi delle leggi sulla razza.

«Sapete dove era stata messa?»

«No, non vengo spesso qui di sopra.»

«E oggi perché ci siete venuto?»

«Cercavo delle carte che non trovavo nel mio studio, ho pensato che potessero essere in quegli scatoloni» rispose Rodolfo indicando con il dito i contenitori appoggiati per terra accanto agli scaffali. «Dentro c’è materiale di archivio, pensavo che le carte potessero essere finite lì.»

«C’è del sangue sulla base di questa statua, di certo è stata usata per colpire la donna, ma sentiremo quelli della polizia scientifica» borbottò Gigli rivolgendosi a Russo, quindi si raddrizzò. «Incredibile,» disse con voce stentorea «il busto del Duce usato per colpire un’ebrea! Perché era ebrea, immagino.»

«Sì.» Rodolfo avrebbe voluto aggiungere “Come avrebbe potuto una non ebrea insegnare in una scuola ebraica?”, ma si astenne e scese le scale in silenzio lasciando che i due poliziotti si occupassero del corpo della vecchia insegnante.

Entrò nella sua stanza e si sedette alla scrivania, appoggiando i gomiti sul ripiano e tenendosi la testa tra le mani. Era tutto inverosimile. Qualcuno aveva ucciso la professoressa Forti all’interno dell’edificio che ospitava la scuola. Chi aveva potuto fare una cosa simile? Perché uccidere una donna di oltre sessant’anni, una persona gentile, tutta dedita ai suoi studenti? Man mano che la nebbia che lo aveva paralizzato si dissolveva, gli tornò in mente ciò che aveva visto al piano di sopra: il corpo, il busto di bronzo, la borsetta aperta sul pavimento; si alzò di scatto e si avviò verso il secondo piano. Erano arrivati altri poliziotti. Non li aveva neppure sentiti entrare. Ecco, chiunque avrebbe potuto entrare in questo modo senza che qualcuno lo vedesse. Si avvicinò alla biblioteca, ma il vicequestore che ne usciva in quell’attimo lo bloccò.

«Cosa volete? Vi avevo detto di aspettarmi al piano di sotto. Qui siete di intralcio, scendete immediatamente e attendetemi nella vostra stanza.»

«Scusate, volevo solo dire che ho notato che sul pavimento c’era la borsetta dell’insegnante. Era aperta. Forse qualcuno ha tentato di derubarla.»

«State cercando di insegnarci il mestiere? Avete sentito, Russo? Il segretario qui vuole risolvere il caso da solo! Pensa che noi non ci siamo accorti che c’era una borsetta per terra, che probabilmente apparteneva alla vittima. Che ne dite, Russo? Senza il suggerimento del segretario qui non ci saremmo accorti di niente!»

Russo si limitò a sorridere.

«Andate nel vostro ufficio e aspettatemi lì. Non fatemi perdere la pazienza!»

Stella

 «Mi chiamo Stella Lampronti e lavoro come dattilografa per il preside della scuola. Questo edificio ospita la scuola ebraica, non gli uffici della Comunità. Quelli sono a Cannaregio. Lì lavora il presidente della Comunità, cioè, tra un paio di settimane ci sarà il presidente, finora c’era il commissario.» Russo la guardò e aggrottò la fronte, piuttosto confuso da queste informazioni non richieste.

«Che differenza c’è tra un commissario e un presidente?»

«Il commissario è stato nominato dal governo. A giugno però ci sono state le elezioni e adesso ci sarà un presidente che entrerà in carica tra qualche giorno. Le funzioni sono le stesse, solo che il presidente è stato eletto.»

Russo aveva l’aria di non capire bene la faccenda che, d’altra parte, non era del tutto chiara neppure a lei, ma lasciò perdere. Del resto, se il presidente, o chi per lui, stava in un’altra sede, non vedeva perché avrebbe dovuto interessarsene.

«Come mai la scuola è qui? Credevo che gli ebrei vivessero nel ghetto.»

Stella arrossì leggermente poi, furiosa perché sentiva le guance imporporarsi, arrossì ancora di più. «Alcuni ebrei vivono nel ghetto, quelli che non hanno molti mezzi, che non hanno la possibilità di comprarsi una casa altrove. Quelli benestanti abitano in qualsiasi altra zona della città. Molti vivono dalle parti di Santa Maria Formosa: ecco perché hanno deciso di creare una scuola media e superiore da queste parti. La scuola elementare, invece, è rimasta nel ghetto.»

«Capisco. E voi da quanto tempo lavorate qui?»

«Da due anni, da quando sono state emanate le leggi che… sì, insomma, io avrei voluto continuare a studiare, ma non ho potuto, e poi c’era bisogno di un altro stipendio in famiglia. Mio padre è hazan e non guadagna molto.» Si sentiva imbarazzata anche se il poliziotto non aveva uno sguardo cattivo, però non poteva criticare le leggi del governo, no?

«Che avete detto? Qual è il lavoro di vostro padre?»

«Lui fa il hazan, il cantore della sinagoga, cioè canta le preghiere, dà lezioni ai bambini e aiuta il rabbino con tutto ciò che riguarda il culto.»

Di nuovo le sembrò che Russo volesse porle altre domande sull’argomento, ma che poi ci ripensasse ritenendo non fossero pertinenti all’indagine.

«A che ora siete arrivata oggi?»

«Alle nove.»

«Vi siete mai mossa da questa stanza?»

«Sì, sono andata più volte nella stanza del preside. Un paio di volte in bagno. Sono andata anche nel salone a cercare la bidella perché lo sciacquone del gabinetto non funzionava bene e sono entrata nella stanza del dottor Donati

per fare una telefonata da lì visto che il preside era al telefono nel suo ufficio.»

«Non vi siete mossa per mangiare?»

«No, mi porto qualcosa da casa» rispose lei arrossendo, come se portarsi il cibo da casa fosse un atto disdicevole.

«Avete visto qualcuno salire le scale verso il secondo piano?»

«Dalla mia stanza non si vede niente» mormorò la ragazza.

«Questo è evidente, ma quando vi siete mossa non vi è capitato di notare qualcuno che saliva le scale o un estraneo, uno che non avrebbe dovuto essere qui dentro?»

«Ho visto due professoresse che andavano di sopra, ma è una cosa normale, e anche la bidella era lassù quando l’ho chiamata. Era andata a parlare con suo marito.»

«Anche il marito della bidella lavora qui?»

«Sì, fa il custode.»

«Vi siete accorta che la serratura della porta d’ingresso non chiude bene?»

«Sì, lo so, il custode doveva occuparsene ma non l’ha fatto. In ogni caso ci sono anche gli operai che la lasciano spesso aperta, e poi ci sono i professori, gli studenti: entrano, escono, e nessuno suona il campanello.»

«Vi rendete conto che chiunque avrebbe potuto entrare?»

«Avete ragione, ma questa è una scuola, le persone vanno e vengono e nessuno si è mai aspettato che potesse succedere qualcosa di brutto.»

Il maresciallo annuì.

«Per favore, scrivetemi su un foglio i nomi di tutte le persone che lavorano qui, i nomi degli studenti che frequentano la scuola e quelli degli insegnanti. Vi aspetto domani mattina alle 11 in commissariato con queste liste.» Stella rimase seduta anche dopo che il poliziotto e il suo superiore se ne furono andati. Prima aveva sentito il vicequestore gridare, irritato perché qualcuno non era ancora arrivato. Che persona incivile! Quel Russo invece sembrava più educato. Avrebbe potuto dirgli di più, ma non voleva mettere nei guai nessuno. Era strano che la Wanda avesse detto che era andata al piano di sopra a cercare il marito, perché in quel momento suo marito non c’era, era andato a fare una commissione, e lei doveva saperlo, quindi aveva detto una bugia. Chissà perché non aveva detto semplicemente che era andata a pulire le classi. Ma di certo lei non c’entrava nulla con l’omicidio. Le tornò in mente che la Wanda era entrata nel suo ufficio per comunicarle che tornava a casa perché non si sentiva bene. Doveva essere vero perché era pallida come uno straccio appena lavato. Era difficile comunque stabilire che cosa era importante e cosa non lo era, dato che Russo non le aveva detto a che ora era stata uccisa la povera donna. Forse non lo sapeva, doveva aspettare che glielo dicessero i poliziotti della Scientifica. Certamente era viva quando tutti i professori erano andati in biblioteca a prendersi gli impermeabili e le borse. Che cosa orrenda! Come avrebbe reagito il commissario? E il nuovo presidente che doveva insediarsi la settimana successiva? Povero dottor Donati che aveva scoperto il corpo! Sembrava che stesse per svenire. Lei avrebbe voluto fargli una carezza, stringergli la mano, ma non aveva osato. Era un bel tipo, interessante, alto, con i capelli folti e la fossetta sul mento. Ma tanto lui non la guardava nemmeno. Dicevano che era fidanzato con una goià. Di quei tempi. Il matrimonio tra un ebreo e una goià era proibito. Che stupida a mettersi a pensare a fidanzamenti e matrimoni in un momento simile! La professoressa Forti era stata uccisa e tutta la Comunità sarebbe stata messa a soqquadro finendo sotto la lente di ingrandimento dei fascisti. Stella si chiese per quanto tempo ancora dovesse rimanere ad aspettare: nessuno le aveva detto se poteva tornare a casa. Non vedeva l’ora di raccontare a suo padre quello che era accaduto, lui era sempre così saggio ed equilibrato, e certamente le avrebbe dato qual- che spiegazione o qualche consiglio.

Il racconto continua….


IL SESTO COMANDAMENTO

  • Pagine: 288 pp
  • Prezzo: 16 euro

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Venezia, 1940. L’Italia è entrata in guerra da quattro mesi, troppo pochi perché si sentano i morsi della fame, troppi per chi aveva creduto che sarebbe durata qualche settimana. Ma ciò che brucia alla Comunità ebraica della città sono le leggi razziali che hanno sconvolto l’esistenza di tutti i suoi membri. È per questo che hanno acquistato un edificio che possa ospitare alunni e professori a cui il regime impedisce di frequentare le scuole pubbliche. Ma proprio lì, nella biblioteca, un pomeriggio, il segretario scopre il cadavere di Ida Forti, professoressa di lettere antiche, uccisa da un colpo in testa inferto con una statuetta del Duce.
È l’inizio di un’indagine che viene affidata al vicequestore Gigli, il quale ha una gran fretta di concluderla, tanto che in tempi brevissimi annuncia il nome dell’assassino. Ma la soluzione del caso non convince il suo sottoposto, il maresciallo Russo. Sarà lui a condurre un’inchiesta parallela che porterà alla luce segreti e misteri, fino al sorprendente finale. Sullo sfondo di una città magica, un giallo avvincente e appassionante che scava, con grande garbo, nei meandri più oscuri dell’animo umano.

Anna Vera Sullam è nata e vive a Venezia. Laureata in Lettere, è stata a lungo ricercatrice presso l’università Ca’ Foscari, dove ha insegnato Lingua e Storia della lingua italiana. Tra le sue pubblicazioni: I nomi dello sterminio (Einaudi 2001) e Undici stelle risplendenti (Mondadori 2012).

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