Emilio Isgrò: “Il valore dei miei 83 anni e ciò che insegno ai giovani”

Pubblicato il 6 Novembre 2020 in , da redazione grey-panthers

Il problema dei vecchi (o degli anziani come si dice con più delicatezza) ormai se lo pongono molti in Europa, sia pure con angolazioni e valutazioni diverse. Tuttavia non so se dopo la scivolata del governatore Toti, il quale ha dichiarato che i vecchi non sono indispensabili per la crescita produttiva del Paese, non so, dicevo, se mi è consentito di scrivere questo intervento. Perché ho compiuto ottantatré anni in ottobre e forse non ne ho il diritto. Ma ci provo ugualmente, per dimostrare al governatore ligure che sono perfettamente capace di intendere e di volere e avevo molto apprezzato la sua apertura verso Renzo Piano (che ha la mia stessa età) quando si pose il problema di scegliere un architetto capace di ricostruire bene e in fretta il ponte Morandi crollato a Genova nel 2018. Perché, in nome di un «largo ai giovani» oggi di moda, non si è battuto affinché il progetto fosse affidato a uno studente ventenne della facoltà d’architettura della sua meravigliosa città? Perché, giustamente, non si fidava, così come io non mi fiderei di farmi operare di un foruncolo al dito da un neolaureato in medicina, per quanto si tratti di un impegno chirurgico non particolarmente gravoso. Il fatto è che io li conosco abbastanza i giovani, avendo insegnato per circa vent’anni alla Naba (della quale sono stato cofondatore con Guido Ballo) e successivamente per un altro decennio allo Iulm.

Un rapporto stretto e confidenziale con gli studenti

Ancora oggi i miei ex allievi, ormai donne e uomini adulti, quando mi incontrano per strada mi fanno festa come se ci fossimo appena lasciati. E nondimeno, pur avendo con i ragazzi un rapporto affettuoso, quasi paterno, io a quel tempo li tenevo in qualche modo a distanza, per fargli capire, com’era giusto, che studiare e imparare era soprattutto nel loro interesse. Non fingevo, in altri termini, di essere un loro coetaneo, ma esibivo come un vessillo la mia barba e i miei capelli bianchi. Eppure il rapporto con gli studenti diventava così stretto e confidenziale, in certi periodi dell’anno, che in pratica ero diventato il loro analista e confessore, tanto che spesso mi accompagnavano a casa per raccontarmi la loro pena di essere figli di genitori divorziati, oppure mi piangevano sulla spalla per i nonni ammalati, e persino per il gatto che non voleva più mangiare e dimagriva a vista d’occhio. Così che agli esami, in questo clima da famiglia allargata, non riuscivo a dargli meno di trenta e lode, a tutti indistintamente, anche ai più somari, il che mi alienava la simpatia degli altri colleghi più seri e severi che giustamente erano scandalizzati dalla mia generosità, poiché macchiavo la nobiltà del loro lavoro, minando con il mio comportamento un principio di autorevolezza, se non di autorità, che doveva valere per tutti. Nessuno osò dirmi mai niente, ma capii da solo che dovevo andarmene e mi dimisi.

Finito l’insegnamento istituzionale nelle università e nelle accademie, al quale avevo rinunciato principalmente per onestà, la mia vocazione pedagogica non è tuttavia finita, e ancora oggi continuo a insegnare ai giovani che vengono a trovarmi in studio o in archivio, provenienti da università straniere e italiane come la Bocconi o la Cattolica, per le loro tesi di laurea o semplicemente per qualche intervista da pubblicare nei loro giornali online. Però senza mai blandirli o lusingarli, perché il giovane capisce al volo la captatio benevolentiae del vecchio che gli sta davanti; e naturalmente ne diffida. Devo dire, inoltre, che ho aperto da qualche anno un felice rapporto con Museo City, ed è anche grazie a questa preziosa collaborazione che spesso mi viene chiesto da parte di gruppi e singoli appassionati d’arte di visitare il mio archivio con le opere appese al muro. Allora sono io stesso a spiegare il significato della mia ricerca a un pubblico indifferenziato (a volte arrivano anche i miei amici fruttivendoli del vicino mercato comunale) che vuol conoscere i segreti dell’arte e delle parole. Che faccio? Non li ricevo? Li mando via a calci nel sedere perché è stata decretata per me una sentenza di morte?

Una casa-museo per studiare i linguaggi umani

Ma c’è di più. Vivo in un quartiere, il quartiere di Nolo, in piena espansione civile e sociale dopo anni di degrado anche grazie ai tanti artisti e architetti, come Grazia Varisco o Sandro Martini miei coetanei, che qui hanno stabilito il loro laboratorio e la loro dimora. Il mio progetto, forse troppo impegnativo per le mie forze, è quello di trasformare lo studio con il relativo archivio in una casa-museo da donare come un centro di studi sui linguaggi umani (dunque non dedicato esclusivamente alla mia opera) alla città che mi aprì letteralmente le braccia quando vi arrivai da ragazzo. Che faccio? Mando all’aria il progetto perché sono vecchio? Oppure mi si vuole semplicemente privare di un gesto d’amore che soprattutto ai giovani può essere utile?

Educare alla libertà

È anche vero, d’altra parte, che educare i giovani alla libertà, e a quel minimo di equità che la libertà comporta, è il compito principale di chi fa il mio mestiere, giacché i brutti quadri e i pessimi libri uccidono alla distanza lo spirito abbassando le difese immunitarie contro il virus, e tutti i giorni ne abbiamo la prova; mentre, per non parlare soltanto d’arte, un intervento sbagliato alla prostata ti ammazza subito. Non è vero, insomma, che tutti possono essere artisti o avvocati o medici. E qui siamo già a quella linea di competenza che tutti invocano senza sapere che essa è figlia diretta dell’esperienza, cioè della vecchiaia tanto detestata dai giovanilisti di professione. C’è tanta ipocrisia quando si invoca la competenza pur sapendo benissimo che essa è almeno in parte una questione anagrafica, e dunque appartiene ai vecchi non meno che ai giovani, specialmente oggi che la vita si è di parecchio allungata. Mi dispiace ricordare queste cose a un uomo politico distante da me, ma del quale ho spesso apprezzato, pur non conoscendolo di persona, l’equilibrio e il senso della misura anche negli scontri politici più feroci, fino a scusarsi con franchezza della sua infelice battuta. Non sono un professionista dell’antipolitica, ma la politica non può parlare impunemente quanto superficialmente di tutto. Aprire spazi alla gioventù, il «divino tesor» cantato dal poeta nicaraguense Rubén Darío, è un dovere per chi crede nella spinta risolutiva delle nuove generazioni. Ma diventa un vizio pericoloso per le democrazie quando si traduce in sterile movimentismo, anzi in una interminabile movida aperta alla confusione e all’avventura.

Il ruolo dei vecchi

So che si prepara un vaccino contro il coronavirus e che i primi a riceverlo, almeno così si dice, dovrebbero essere proprio i cittadini più vulnerabili perché non più giovani. Per me non chiedo questo privilegio. Ne chiedo un altro più sostanziale: quello di poter insegnare ancora per molti anni. Giacché è soprattutto per questo che gli uomini invecchiano: per insegnare ai più giovani.

Fonte: Corriere della Sera, 4 novembre 2020