I magnifici sette: Ingmar Bergman, il paradigma della modernità nel crepuscolo del “secolo breve”

Pubblicato il 9 Gennaio 2018 in Humaniter Cinema
Ingmar Bergman

Regista cinematografico e teatrale, Ingmar Bergman è tra le maggiori personalità della cultura europea del ‘900. Attraverso la messa in scena delle dinamiche di coppia o del contesto familiare, analizzati psicologicamente, ha portato alla luce i malesseri e le tensioni di una società in crisi. Crisi di valori e di ideologie che evidenziano il drammatico senso della fine di un’epoca. Bergman nasce nella città universitaria di Uppsala (60 km da Stoccolma) nel 1918, figlio di un pastore luterano. L’infanzia è segnata dagli spostamenti della famiglia al seguito del padre e della sua carriera ecclesiastica. Il genitore, severo e umorale, impone ai tre figli una rigida educazione basata sulla dottrina cristiana mentre la madre, presa dai problemi domestici e succube al marito, è una figura fragile e sfuggente. Con il padre, Ingmar avrà sempre un rapporto difficile e conflittuale. La precarietà dei rapporti personali è a sua volta una costante nella vita privata del regista, sposato cinque volte, spesso con relazioni extraconiugali e con nove figli avuti dalle diverse mogli.

Donne in attesa
Donne in attesa

L’estetica del conflitto

La passione per il cinema è precoce, accanto a quella per il teatro che segna l’inizio della sua carriera al Royal Dramatic Theater di Stoccolma, dove si era trasferito giovanissimo per evadere dall’opprimente clima familiare. Nel 1945 esordisce con il film Crisi, seguito, tra gli altri, da Piove sul nostro amore (1946), La terra del desiderio (1947), Musica nel buio (1948) e La prigione (1949). La cornice di queste opere è melodrammatica, tipica dei film di genere, ma in tutti l’autore si focalizza già sui conflitti generazionali e familiari. Nel primo, il confronto-scontro è tra la madre naturale e la madre adottiva di una giovane e sul contrasto città-provincia che corrisponde alle due diverse realtà di vita delle donne. Esemplare, anche ai fini degli sviluppi successivi della poetica bergmaniana, il conflitto padre-figlio che è al centro di La terra del desiderio. Con il decennio successivo arrivano i primi successi, anche internazionali, che valgono al regista un posto di rilievo nel cinema europeo: Un’estate d’amore (1950), Donne in attesa (1952) Monica e il desiderio (1952), Una vampata d’amore (1953), Una lezione d’amore (1953) e Sorrisi di una notte d’estate (1955), premiato a Cannes, sono i più rilevanti. Monica e il desiderio, i cui contenuti preludono al disagio giovanile che esploderà nel decennio seguente, è quello che ha avuto maggiori ripercussioni. Qui Bergman mette in scena temi come l’ansia di libertà, la rottura dei legami (familiari, domestici, affettivi…), la ribellione alle regole sociali e l’utopia irrealizzabile di un mondo migliore, che saranno fatti propri da molta cinematografia, anche commerciale, negli anni successivi. Il film viene apprezzato senza riserve dalla rivista “Cahiers du cinéma” (e, in particolare, da Jean-Luc Godard) e diventa un punto di riferimento, anche estetico, per la Nouvelle Vague.

Monica e il desiderio
Monica e il desiderio

Il “Silenzio di Dio” (e della Chiesa)

La seconda metà dei ’50 e il decennio successivo comprendono i capolavori più noti e riconosciuti, film che hanno lasciato il segno nella storia del cinema e in generazioni di cineasti. Peter Greenaway, per esempio, ha affermato di aver subito un influsso indelebile dalla visione, nel 1956, del Settimo sigillo. Oltre a questo, stiamo parlando di: Il posto delle fragole (1957), Il volto (1958), L’occhio del diavolo (1960), toni da commedia, ma pessimismo radicale, e dalla successiva “Trilogia del silenzio di Dio”. Sotto questa denominazione critica si è soliti comprendere tre film di argomento e ambiente molto diverso, ma accomunati da un medesimo filo conduttore: l’interrogativo sul trascendente. Questione peraltro già posta in molti altri film precedenti, sia pure in maniera meno esplicita. La trilogia comprende Come in uno specchio (1960), Luci d’inverno (1962) e Il silenzio (1963). Contrariamente a quanto sostenuto da una parte della critica, di matrice confessionale, la risposta del regista all’interrogativo resta totalmente negativa. Prova indiretta è la rappresentazione che Bergman dà sullo schermo dei ministri della religione: i pastori. In questi personaggi, ricalcati sulla figura paterna, va letto ovviamente il rimando al Supremo Pastore, a Dio. Ebbene in tutti i casi in cui compare un ministro del culto, costui si configura o come un freddo burocrate della fede, formale e poco commiserevole, oppure come un visionario disincarnato dalla realtà (L’occhio del diavolo) o, ancora, come un uomo disilluso, privo proprio di quella fede che dovrebbe alimentare il suo ministero (Luci d’inverno). Insomma, nel migliore dei casi, un “ateo praticante”. Il decennio culmina, nel 1966, con il complesso e problematico Persona che compendia tutta una serie di ricerche sull’immagine e sul suo significato che hanno caratterizzato le avanguardie cinematografiche. I temi ricorrenti dell’incomunicabilità, il senso del dolore, lo scopo della vita si uniscono qui a uno sperimentalismo linguistico molto accentuato che fanno di questo film quasi un manifesto del cinema antinaturalistico.

Il settimo sigillo
Il settimo sigillo

Analisi e psicanalisi

Dopo “Persona” e il successivo, ancor più intellettuale L’ora del lupo (1967), Bergman colloca le sue storie di coppia in contesti legati al clima di tensione internazionale della fine dei ’60 (La vergogna e Il rito, 1968) per tornare però ben presto a temi e personaggi che trovano nel contesto familiare la loro ragion d’essere e l’espressione del proprio disagio o della propria infelicità (L’adultera, 1970). In opere come Sussurri e grida (1973), Scene da un matrimonio (1973), girato come serie televisiva poi adattato al grande schermo, e Sinfonia d’autunno (1978) si coglie invece un più accentuato interesse del regista per la psicanalisi. Tutto questo senza mai abbandonare le scene teatrali con memorabili allestimenti dei classici, da Shakespeare a Ibsen e Strindberg, e occupandosi anche dei nuovi linguaggi televisivi e digitali. Come nel caso di quello che è considerato il compendio artistico e biografico del regista: Fanny e Alexander (1982), girato per la Tv e passato poi anche al cinema. In questo lavoro confluiscono molti temi disseminati nel corso delle opere precedenti, ma, allo stesso tempo, i vecchi nodi sembrano qui sciogliersi in una sorta di amara nostalgia dell’infanzia (e dell’innocenza) perduta. Ritiratosi in vecchiaia sull’isola baltica di Fårö, che era stata set di alcuni suoi film, Bergman continua a lavorare fino agli ultimi anni girando nel 2003 Saraband, storia dell’incontro di due anziani ex coniugi che si trovano a fare i conti con un bilancio fallimentare della vita. Per il maestro svedese, dunque, la coppia è sempre il luogo privilegiato per analizzare e raccontare le pulsioni e i desideri, le parole e i silenzi, la complessità e, perché no, il mistero dell’esistenza umana. Ingmar Bergman muore a Fårö nel 2007.

“Film come sogno, film come musica. Nessun’altra arte come il cinema va direttamente ai nostri sentimenti, allo spazio crepuscolare nel profondo della nostra anima”. Ingmar Bergman.

 Il posto delle fragole
Il posto delle fragole

 


“Persona”, il corpo e l’anima

di Guido Aristarco

Si può essere se stessi e un’altra persona allo stesso tempo? Cioè, puoi essere due persone? Questa la domanda che l’infermiera, Alma, rivolge ad Elisabeth Vogler, la malata da lei assistita. E Alma subito aggiunge: “Vorrei essere come te. Sai cosa ho pensato quella sera dopo aver visto il tuo film?  Le somiglio, io. Tu sei molto più bella, ma ci somigliamo. Voglio dire, interiormente. Se facessi uno sforzo, saresti capace anche tu di trasformarti in me, vero?”. E ad Alma par di sentire, sussurrata, la voce di Elisabeth: “È meglio che vai a letto, se no ti addormenti sul tavolo”. Per la prima volta, nel silenzio interrotto da sirene di navi, in una luce rarefatta e sfumata, i corpi delle due donne, quasi statue, diventano parte l’una dell’altra: i volti si avvicinano, si incrociano, come due fiori su un unico stelo. Un primo piano interiorizza le fisionomie, e la somiglianza dei visi è accresciuta dal gesto lento di Elisabeth che, accarezzando i capelli di Alma, glieli alza sulla fronte, portandoli alla stessa posizione dei propri. Elisabeth ha davvero parlato ad

Il volto
Il volto

Alma? È entrata nella camera da letto di lei? Il mattino dopo, muta ed enigmatica come sempre, Elisabeth nega con un cenno del capo. Si può essere se stessi e un’altra persona nello stesso momento, puoi essere due persone? La domanda è posta, attraverso Alma, da Bergman; il quale tiene a precisare che i “ruoli” delle due attrici sono della medesima lunghezza, che molte cose si fondano sulla somiglianza, peraltro difficile da definire, di Alma ed Elisabeth: occorre infatti fare attenzione all’avverbio dalla prima sottolineato: “interiormente”. La risposta coinvolge altri interrogativi. Perché Elisabeth si è chiusa in un volontario mutismo, cui si contrappone la voce continua, incessante di Alma? E perché la vicenda si svolge come se assistessimo a una proiezione nella proiezione, e la pellicola si spezza all’inizio, verso la metà e alla fine? Qual è il significato delle immagini-lampo che appaiono sullo schermo durante queste interruzioni – la mano trafitta dal chiodo, il ragno, le viscere, l’inferriata, il muro scrostato – e cosa significano i reportage televisivi dal Vietnam, il radiodramma che Elisabeth interrompe e la fotografia del bambino ebreo con le mani alzate dinanzi ai mitra nazisti? E ancora: chi è Elisabeth e chi Alma? Di quale natura è il loro “donde” e il loro “dove”? Perché abbiamo pochissimi personaggi e la storia si svolge quasi tutta su un’isola semideserta?

[…]

Per leggere questo film occorre rifarsi al duplice significato del titolo, alla parole “persona” che Bergman usa prendendola dal latino. In questa lingua “persona” indica la maschera dell’attore che gli copriva tutto il volto e variava secondo i caratteri da rappresentare. Da qui, spiega il dizionario, derivano i significati traslati della parola: carattere, parte, individuo umano, uomo o donna. “Maschera” dunque, ma anche “individuo”. A noi sembra che il film rimandi alla sovrapposizione di questi due significati e, al tempo stesso, a Jung. Nell’assumere la psicoanalisi tra i suoi strumenti d’indagine, la critica letteraria ha sottolineato come, parlando dell’infelicità e della nevrosi dell’uomo d’oggi, disadattato e inadattabile al “mestiere di vivere”, Jung opponesse precisamente la Persona all’Io profondo e oscuro – all’inconscio, all’Altro, all’Oltre: al “di là di noi stessi” che esiste in ogni uomo – dichiarando di voler assumere la parola Persona proprio nel suo significato latino di maschera. Tale opposizione troviamo appunto nel film di Bergman. Le metafore, osserva Giacomo Debenedetti, non nascono distrattamente, soprattutto non si lasciano adoperare impunemente: sta di fatto, aggiunge, che la metafora più propizia ed efficace è parsa a Jung quella della maschera, che è poi una faccia, nient’altro che la faccia incollata sulle nostre carte d’identità. «È la persona a patire dei disturbi inflitti dall’Io. È la maschera a patire dei disturbi inflitti dall’Altro» (Debenedetti). “Persona”, nel suo significato latino e al tempo stesso nel senso derivato, unico ente umano, sono Elisabeth Vogler e Alma. Questa, l’infermiera, è l’oltre, la proiezione soggettiva di quella, la malata. L’una – Elisabeth – maschera, faccia, niente altro che una faccia incollata sui suoi documenti di identità: fa l’attrice, ha un cognome. L’altra – Alma – è l’anima (dal latino “alma”), priva di documenti (non ha cognome) è l’Io profondo e oscuro, il “di là da se stessa” di Elisabeth.

[…]

In preda a una profonda crisi esistenziale, Elisabeth si sente vittima di una coazione a vivere nel modo in cui è vissuta, e aspira oscuramente a identificarsi con quella forza maligna e imprecisabile, per poterla punire, punendo se stessa con un autolesionismo: deliberatamente diventa muta, si toglie l’uso della parola.

Guido Aristarco, “I sussurri e le grida”, Sellerio, 1988

L'occhio del diavolo
L’occhio del diavolo

Vite allo specchio: Bergman e i suoi attori

di Pierfranco Bianchetti

 

Gunnar Björnstrand, l’alter ego

Nato a Stoccolma il 13 novembre 1909, figlio di un attore, dopo una lunga gavetta sul palcoscenico conosce Ingmar Bergman di cui diviene amico e interprete più amato per trent’anni. Un sodalizio terminato solo dalla sua scomparsa avvenuta il 26 maggio 1986. Nel 1955 i due artisti sul set di Sorrisi di una notte d’estate consolidano la loro affinità già emersa nei precedenti Donne in attesa, Una vampata d’amore e Una lezione d’amore. In Sorrisi…, una commedia malinconica, Björnstrand è strepitoso nei panni di un avvocato anziano che ha sposato una donna troppo giovane. In questo film, e in molti dei precedenti, fa coppia con Eva Dahlbeck, una delle attrici più rappresentative della lunga galleria di itratti al femminile bergmaniani. Con Bergman gira ancora Sogni di donna e Il settimo sigillo, dove interpreta lo scudiero ateo del cavaliere crociato interpretato da Max Von Sydow. L’attore sarà anche l’unica, fugace presenza maschile sul set di Persona e girerà anche La vergogna, Il rito, Sinfonia d’autunno. Negli anni Sessanta, forse per sottrarsi all’egemonia del suo maestro, accetta di recitare in film diretti da altri registi: Gli amorosi di Maj Zetterling, Il letto della sorella di Victor Sjöman. Nel 1982 torna sotto la direzione bergmaniana in Fanny e Alexander.

Come in uno specchio
Come in uno specchio

Max Von Sydow, la star

Nato il 10 aprile 1929 a Lund, una cittadina di provincia, Carl Adorf Sydow (poi Max Von, per vezzo artistico) a diciannove anni parte per Stoccolma deciso a intraprendere il mestiere di attore dopo aver partecipato ad alcune recite teatrali al liceo. Ha saputo che Ingmar Bergman, regista di teatro e di cinema già affermato, sta per girare il film Prigione, ma non viene accettato nemmeno come comparsa. Non si dà per vinto e l’anno successivo entra nel cast di una produzione diretta da Sjöberg. Solo sei anni più tardi recitando in teatro inizia la lunga collaborazione con Bergman. Nel ’57 gli viene affidato il personaggio del cavaliere che al ritorno dalle crociate ingaggia una partita a scacchi con la Morte: è Il settimo sigillo, film con il quale la sua maschera diventa l’emblema forse più tipico del cinema bergmaniano. Seguono poi numerosissimi titoli, tra cui Il volto, La fontana della vergine, Il posto delle fragole, Alle soglie della vita, Luci d’inverno, L’ora del lupo, La vergogna, Passione, L’adultera. Von Sydow avrà anche un lunga carriera nel cinema commerciale e una parentesi hollywoodiana (La più grande storia mai raccontata, 1965, dove impersona Gesù), ma certamente la storia del cinema lo ricorderà per sempre come l’ascetico cavaliere del Settimo sigillo. Naturalizzato francese per matrimonio, vive a Parigi.

Erland Josephson, il simbolo

Nato a Stoccolma il 15 giugno 1923, scopre la passione per il teatro all’università e recita per diversi anni nel Teatro Municipale diretto da Bergman. Con lui debutta al cinema in Piove sul nostro amore, secondo lungometraggio del maestro. Poi è sempre presente in ruoli minori in diversi film tra cui Il volto, L’ora del lupo e Sussurri e grida. Nel ’73, grazie allo sceneggiato televisivo Scene da un

Luci d'inverno
Luci d’inverno

matrimonio, diventa una star internazionale, ricercato da molti registi stranieri. «Prima non avevo avuto il permesso di Ingmar» dirà scherzando. La Cavani lo sceglie per Al di là del bene e del male del ’77; Franco Brusati per Dimenticare Venezia (1979) e Carlo Lizzani per La casa dal tappeto giallo (1983). Recita anche in due film di Tarkovskj, Nostalghia, (1983) e Il sacrificio (1986). Torna sotto la direzione di Bergman in Fanny e Alexander e Dopo la prova. Il legame che unisce l’attore e il regista è stato sempre solidissimo «Non spiegava mai granché – ha raccontato in un’intervista – eppure era chiarissimo. Si discuteva prima delle riprese, ma quando si girava tutto scorreva quasi senza parole». Grazie alla sua maschera austera ha interpretato prevalentemente personaggi introversi e tormentati. Muore a Stoccolma il 25 febbraio 2012.

Le muse/1: Harriet Andersson

Di famiglia umile, nata a Stoccolma il 14 febbraio 1932, conosce Ingmar Bergman mentre lavora come addetta all’ascensore. È lui che la convince a recitare. Dopo i primi passi nella rivista e una dura formazione all’Accademia d’Arte Drammatica di Stoccolma, Harriet è scelta dal regista come protagonista di Monica e il desiderio, nel ruolo di una ragazza che in una sola estate vive in pieno la sua vita. Per lei Bergman saprà disegnare una galleria di personaggi femminili straordinari: l’infelice Anna di Una vampata d’amore, la schizofrenica Karin di Come in uno specchio, Marta, la servetta compiacente di Sorrisi di una notte d’estate e, ancora, Agnese, la sorella ormai prossima alla fine di Sussurri e grida. Dopo la partecipazione ad altre produzioni internazionali ritorna con Bergman per Fanny e Alexander.

Persona
Persona

Le muse/2: Bibi Andersson

Nata a Stoccolma l’11 novembre 1935, bella e affascinante, a sedici anni è una studentessa delle scuole superiori che sogna di fare l’attrice. Grazie allo spot pubblicitario di un sapone, nel ’51 incontra Bergman che la introduce nell’ambiente del cinema. Nel ’56 è la dolce moglie dell’attore girovago Jof nel Settimo sigillo e l’anno dopo è la bionda che fa l’autostop nel Posto delle fragole. Nel ’58 si distingue nei panni di una ragazza madre in Alle soglie della vita, un ruolo che le fa guadagnare la Palma d’Oro come migliore interprete femminile al Festival di Cannes. Nel ’66 è l’infermiera incaricata di assistere l’attrice in preda a una crisi depressiva, interpretata da Liv Ullmann, in Persona. Bibi fa ormai parte della “factory” bergmaniana che quasi sempre è ospitata sull’isola di Fårö, rifugio artistico ed esistenziale del maestro e location privilegiata dei suoi film. «Fårö era davvero un luogo molto bello – racconta – non c’era nessuno svago né mondanità, ma era comunque un bel modo di lavorare». La Andersson saprà però recitare con successo anche al servizio di altri registi quali Mai Zetterling, Sjöman e Sjöberg. Recita anche in un piccolo ruolo nel Pranzo di Babette, di Gabriel Axel accanto a Jarl Kulle (1927-97), altro attore che ha avuto una lunga consuetudine artistica con Ingmar Bergman.

Sussurri e grida
Sussurri e grida

Le muse/3: Ingrid Thulin

Il 27 gennaio 1926 nasce a Sollefteä e, dopo aver studiato teatro a Stoccolma, è diretta da Bergman che la impone al pubblico e alla critica nel ’57 nel ruolo della giovane Marianne in Il posto delle fragole. Bella, elegante, affascinante, l’attrice, che molti hanno accostato a Greta Garbo e Ingrid Bergman, l’anno successivo si aggiudica al festival di Cannes la Palma d’Oro quale migliore interprete per Alle soglie della vita. La sua carriera prosegue a gonfie vele. Il volto, Luci d’inverno, Il rito confermano il suo talento, esaltato nel ruolo di una donna sofferente in Il silenzio. Nove anni più tardi è al fianco di Liv Ullmann e di Harriett Andersson nei panni della fredda e arida Karin in Sussurri e grida. Tanti sono stati i registi che l’hanno voluta davanti alla loro macchina da presa: Visconti, Bolognini, Resnais, Montaldo, Minnelli… Tra le sue interpretazioni più prestigiose ricordiamo I quattro cavalieri dell’apocalisse con Glenn Ford, La guerra è finita con Yves Montand, La caduta degli dei e, ancora, Cassandra Crossing, L’Agnese va a morire. Anche Tinto Brass non se la fa sfuggire per Salon Kitty e Marco Ferreri la dirige, ormai anziana, in un ruolo autoironico in La casa del sorriso. Nel 1981 lei stessa decide di firmare la regia di un suo film autobiografico, Cielo spezzato. Muore a Stoccolma il 7 gennaio 2004.

La Prigione
La Prigione

Le muse/4: Liv Ullmann

Norvegese di nazionalità, nasce a Tokyo il 10 dicembre 1938 poiché suo padre è un ingegnere  aeronautico. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale la sua famiglia emigra prima in Canada e poi negli Stati Uniti. Solo nel 1946 Liv ritorna in patria, dove studia recitazione a Oslo e partecipa a film modesti finché, per caso, viene presentata a Bergman da Bibi Andersson. Il regista le affida nel ‘66 il ruolo di Elisabeth Vogler in Persona, l’attrice ricoverata in una clinica dopo un blocco nervoso sorto durante una recita in teatro. Da quel momento il maestro ne fa la sua musa sostituendola alle sue abituali interpreti. Tra i due nasce anche un legame sentimentale durato cinque anni e rallegrato dalla nascita della figlia Linn, ma destinato a finire amaramente con una semplice lettera di ringraziamento del regista. Il loro sodalizio artistico produrrà i film L’ora del lupo, La vergogna, Passione, Scene da un matrimonio, L’immagine allo specchio, L’uovo del serpente, Sinfonia d’autunno, Sarabanda. Su sceneggiatura di Bergman, nel 2000 Liv gira come regista il film L’infedele.

Fanny e Alexander
Fanny e Alexander

 

Crisi (1945, v.o. sott.)

 

Musica nel buio (1948, v.o. sott.)

 

Come in uno specchio (1960, doppiato)

 

L’ora del lupo (1967, doppiato)

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