Esplosione in via Gracchiolina

Pubblicato il 10 Marzo 2016 in

Un racconto di: Anna Catacchio – Micaela Cavalli – Luca Gallina – Sergio Mattana

Di fatti come questo nella nostra città, per fortuna, non ne capitano molto spesso. Ma quando succedono, il capo redattore della cronaca locale, puntualmente, mi chiama e mi chiede di occuparmene per tirarne fuori una notizia. Anche quella volta mi sono recato sul posto per rendermi conto di persona di quello che era successo. Ho fatto qualche foto e ho cominciato a raccogliere qualche intervista. Per fortuna non c’erano state vittime. Comunque, la dinamica dell’incidente non era del tutto chiara. Così, dopo aver buttato giù in fretta le cinquanta righe richieste dalla redazione per il pezzo da far uscire sul giornale del giorno dopo, ho cominciato a cercare le persone che abitavano nel palazzo per raccogliere altre informazioni. Le mie intenzioni, all’inizio, erano di chiudere tutto il lavoro nel giro di poche ore. Ho finito invece per rimanerne coinvolto per quasi un mese. Dietro quel fatto, esisteva una storia, anzi tante storie con diverse persone a cui da quel momento mi sono affezionato e che difficilmente potrò dimenticare. Tutto era cominciato il giorno prima quando Francesco e Corinna si erano dati il fatidico appuntamento.

– Pronto, Corinna? Ciao.

– Ciao Francesco! Allora?

– Puoi parlare?

– Sì, sono in bicicletta. Tutto bene.

– Ascolta, per domani?

– Tutto ok. Quest’anno non ho ancora utilizzato nessuna delle tre giustificazioni prefirmate. Pensa, siamo ad aprile e le ho ancora tutte. E tu?

– Se salto una mattina di lezione, non è grave. Ho già dato tre esami al primo semestre. Sai che a me piace la chimica!

– Forse è per questo che ti piaccio anch’io?

– Tu non sei ancora una chimica diplomata! Ma mi piaci lo stesso. Tornando a domani?

– Domani…sì, va bene. I miei escono prima, così non devo neanche far finta di aver dimenticato qualcosa per tornare indietro. Però non devo farmi vedere dalla portinaia. E tu… hai preso…?

– Tranquilla! I miei genitori sono andati alla fiera dei fuochi artificiali con mio zio. Torneranno domani sera. Siamo soli, finalmente. Per quello che non osi dire, invece, sono già passato al supermercato. Le cassiere non mi hanno neppure guardato in faccia e del resto non hanno tempo di fare commenti. Piuttosto, ci vediamo in casa tua o nel seminterrato?

– Nel seminterrato. Forse lì mi sento più a mio agio…

– Ti aspetterò, domani mattina. Mi raccomando, non fare tardi. Ciao, Corinna.

Francesco sorrideva soddisfatto. Tutto stava andando come previsto. Nel seminterrato, l’ufficio della ditta di fuochi artificiali della sua famiglia si prestava perfettamente alle sue esigenze. Suo zio, ancora scapolo,

qualche volta lo utilizzava come pied à terre per i suoi incontri galanti. E adesso era tutto per lui. Forse lo zio aveva subodorato qualcosa, perché, salutandolo, gli aveva strizzato un occhio in segno d’intesa. Lui sapeva della storia traFrancesco e Corinna, due bravi ragazzi, studiosi e sportivi, che si erano conosciuti l’anno precedente ai campionati studenteschi di atletica, scoprendo di frequentare lei la quarta, lui la quinta della stessa scuola, l’Istituto Tecnico per la Chimica “Avogadro”.

Il pomeriggio Francesco lo aveva trascorso pulendo l’ufficio in ogni angolo. Aveva rifornito il frigo di frutta e di cioccolatini, quelli preferiti da Corinna, e dentro di sé andava ripetendo:

«E da bere? Vino o spumante? Ma no. Non esageriamo! Meglio essere naturali e trovarci a nostro agio. Ho voglia di gridarlo, domani Corinna ed io, la prima volta! Spero che vada tutto bene. Se ne raccontano così tante di cose andate storte la prima volta! Sensi di colpa? Già l’idea di aprire davanti a lei la scatola dei preservativi… Ma dai! Siamo entrambi maggiorenni e responsabili, faremo sesso sicuro. Pensiamo ad altro, altrimenti finisce che domani farò davvero cilecca, anche se le voglio un bene dell’anima e la sogno di notte».

Per distrarsi e vincere l’emozione dell’attesa Francesco cercò di spostare il suo pensiero su qualcosa d’altro.

«Quando tornerà mio padre gli chiederò perché non usa mai quel bellissimo colore dorato di cui ho trovato la ricetta nel nostro libro di testo. L’ho sperimentato la settimana scorsa in laboratorio in quantità minima ed è davvero bello. Chissà che effetto farebbe sulla fontana dei fuochi per Sant’Ambrogio? Voglio proprio farlo vedere domani a Corinna».

Nel frattempo anche Corinna era assalita da mille dubbi:

«Non devo farmi vedere dalla portinaia! Non devo usare l’ascensore! Lo sentirebbe. Curiosa com’è, verrebbe subitoa vedere chi lo usa di prima mattina. Che scusa posso trovare per andare nei box? La bicicletta è sempre in cortile, sembrerebbe strano metterla nel seminterrato proprio domani. Lei prende servizio alle otto. E se scendessi prima? Sì, ma se poi incontrassi qualche altro inquilino? Per esempio i signori Villanti che escono presto per andare al lavoro o… che so? quelli dell’agenzia di viaggi. Ma poi, se succede? Chi se ne frega! Non l’ho mica scritto in faccia che vado a… Dopo, forse… I romanzi dicono che si acquista un’espressione particolare. Ho trovato! Devo ritirare in ufficio una seconda borsa di atletica da prestare a una compagna di scuola.E se qualcosa va storto? I libri di sessuologia dicono che la prima volta l’ansia e l’emozione alle volte fanno brutti scherzi. Non importa. Non ci devo pensare. Sono innamorata di lui. Lo vogliamo fare e non possiamo più aspettare. Siamo maggiorenni. E se succede qualcosa di storto? Di nuovo con questo pensiero! Che cosa potrebbe succedere?»

Quella mattinata è diventata davvero memorabile non solo per Francesco e Corinna, ma anche per tante altre persone. Di certo, però, per un motivo del tutto diverso da quello che avevano immaginato i giovani innamorati.

Francesco e Corinna erano ancora abbracciati sul divanetto quando furono disturbati dal trambusto che arrivava dalle scale, dalle urla della portiera e da un acre odore che si stava diffondendo in tutta la stanza.

– Che cosa succede?

– È la portiera che strilla – rispose Francesco con apprensione – Qui sta succedendo qualcosa.

– Lo senti anche tu questo cattivo odore?

– Mi sembra odore di gas. Dai, Corinna. Dobbiamo andare via prima che succeda qualcosa.

In pochi istanti Francesco e Corinna si precipitarono fuori dal seminterrato. Lei salì in casa, per prendere lo zainetto e poi andare a scuola. Lui, uscito nel cortile, di corsa cercò di allontanarsi il più possibile dallo stabile di via Gracchiolina 32. Arrivato all’incrocio con via Dei Porporati, sentì una forte esplosione.

 

Poco prima, al secondo piano, la signora Cesira, insegnante di lettere in pensione, nel suo appartamento girava in vestaglia strascicando le sue ciabatte.

«Oh Signur, Signur... Quanti dolori anche oggi. Quando mi alzo al mattino, non riesco neanche a stare diritta. Proprio come la Teresa che poverina aveva una gobba grande come una valigia e camminava tutta storta che sembrava ubriaca. Beh, adesso mi faccio il mio bel caffelatte, poi ci penso alla giornata che incomincia. Ecco, ho acceso il gas. Intanto che il caffè viene su, tiro su le tapparelle – se ci riesco – e disfo il letto. Ma varda ti quel balòss del Francesco. Sempre di corsa. Chissà quale altro guaio va a combinare. Sti fioei. Che buon odore che fa il caffè quando sale nella caffettiera. Adesso va meglio. Devo fare il bucato… o l’ho già fatto ieri? No, non mi pare. Aspetta che vado a vedere. No, non ci sono panni stesi, quindi lo devo fare oggi. Ce l’ho il detersivo? Era finito. Non mi ricordo se l’ho detto a Ernestina di comprarlo. A sì, eccolo. Bene! Che programma devo mettere? Aspetta, l’Ernestina me l’ha scritto su quel foglio. È una brava figliola, anche se un po’ nervosetta. Mi scrive tutto quello che devo fare perché dice che io mi dimentico tutto… E poi passa a trovarmi almeno una volta tutti i giorni perché dice che di me non si fida più, che sto diventando sorda… Beh, almeno la vedo e sono contenta. Però, che odur… Tony… Tony… micio… ven chi micio. Ma che hai fatto? Disgrazià d’un gat. Se ti prendo…Oh Signur, ma cosa succede adesso? Qualcuno bussa forte alla porta. E sì che sono sorda, ma sento un gran rumore. Arrivo, Arrivo. Oh Signur, è l’Ernestina, la portiera. È tutta agitata. Continua a parlare ma non capisco niente. Oh mamma mia! Mi sta urlando nelle orecchie con aria cattiva. Mi spinge. Mi trascina per un braccio. Che cosa ho fatto? Non ho spento il gas? Eh già, il caffè, il latte… Eh già, non me ne sono accorta. Cos’è quel bagliore! Che luce accecante! Oh Dio che paura! Chi fa i fuochi d’artificio a quest’ora?L’Ernestina mi spinge fuori di casa, non ce la faccio a correre giù per la scala… Ancora un po’ mi rompo un piede. Che cosa succede? Esplode un pezzo di casa! Guarda lì, cade tutto un piano, il balcone del signor Rossini, che impressione! Santo cielo, è caduto un bel pezzo della facciata, si vede la camera da letto della signora Villanti come se ci si fosse dentro. Peccato, era così bella. Mi è sempre piaciuta quella camera.È colpa mia?! Che cosa dice l’Ernestina? È tutta colpa mia! Oh Signore che vergogna! E adesso chi glielo dice ai vicini?»

Francesco ebbe l’impressione che il rumore dell’esplosione venisse proprio da lì. Si sentì di colpo tutto freddo, con brividi che partivano dalla nuca e accelerò la corsa sino ad arrivare al parco, nelle vicinanze del centro sportivo dove andava ad allenarsi. Corse ancora per un bel po’. Ci volle del tempo prima che si fermasse, vinto dai crampi e da una nausea feroce. Ansante sedette su una panchina, più per riflesso condizionato che per ragionamento. Dopo un attimo si rialzò in piedi e si mise a fare esercizi respiratori. Intanto il suo cervello lavorava, facendogli rivedere quello che aveva già fatto in quella mattina. Nel seminterrato aveva accolto Corinna con il solito affetto. Per allentare la tensione di quell’incontro, aveva pensato di mostrarle il meraviglioso colore dorato che aveva ottenuto con quelle polveri piriche, ma poi il desiderio aveva vinto ogni remora e divagazione. Poi non si ricordava bene: avevano sentito un gran trambusto, una terribile puzza e infine…l’esplosione, o erano scappati prima?

Ora che ci ripensava, il bellissimo colore l’aveva ottenuto sì in laboratorio, ma con la cappa aspirante in funzione. Cominciò a tremare, gli erano ritornati i brividi freddi, si mise a singhiozzare, disperato. Voleva farsi bello con Corinna e invece…, invece aveva demolito la casa. Dove aveva sbagliato? Che cosa era andato storto? Comunque, quell’odore che aveva sentito non gli pareva tanto giusto! I fuochi artificiali lasciano odore di zolfo dopo che sono esplosi! O no? E Corinna? Si era salvata? Forse non doveva insistere per organizzare quella mattinata.

 L’architetto Alberto Ottogalli, sdraiato sul letto, le mani dietro la nuca, guardava il soffitto.

«Non ci posso credere! Ho fatto tanto per evitare lo sfratto esecutivo da un appartamento a equo canone dal 1972, ottantacinque metri quadrati quasi in centro, subentrando alla morte dei miei genitori. Purtroppo la Fondazione Auxilium mi ha comunicato da due mesi la decisione di mettere in vendita tutta la palazzina di fine ‘800 con l’approvazione della conservatoria delle Belle Arti. Inoltre mi ha motivato la rescissione del contratto d’affitto con il pretesto del “non avente diritto” perché non residente a Milano. Il mio avvocato ha appena ottenuto dal Giudice di Pace la proroga dello sfratto con procedura d’urgenza. Mai avrei potuto immaginare, rientrando da un breve soggiorno all’estero, di trovare la casa crollata. Abitavo al quarto piano. Comunque adesso non è rimasto in piedi quasi nulla. Anche la scala è crollata e il vano ascensore è un unico cratere. Che cosa è successo? È scoppiata la tubatura del gas del condominio, mi sono sentito dire. Ho fatto appena in tempo a sedermi sul marciapiede e sono svenuto. Quando mi sono svegliato, eccomi qui,al pronto soccorso del Policlinico e il medico di turno mi ha consigliato di ricoverarmi in cardiologia per sospetto infarto miocardico. Il mio calvario non è finito».

Laura Castaldi, ex moglie dell’architetto Ottogalli, era in camera da letto con gli scuri delle finestre abbassati. Era sola in casa. Pensava alla fine del suo matrimonio e ai progetti della sua nuova vita. Provava una strana sensazione a trovarsi ancora in casa del suo ex marito. Se l’era detto e ridetto, la storia con Alberto non avrebbe funzionato. Ma in quel periodo doveva conseguire il master in giornalismo all’Università Cattolica e l’ospitalità dell’ex-marito poteva giovarle. Finito l’amore, rimaneva soltanto la stima e l’affetto. Lui intanto in quella casa non c’era mai. Preferiva vivere a Firenze nella bella dimora all’ombra della cupola del Brunelleschi. Lasciandole le chiavi di casa, le aveva soltanto detto di non farsi vedere dagli inquilini perché l’appartamento preso in affitto dai genitori, oramai defunti, era sotto sfratto.

Il boato l’ha colta di soprassalto.

– Chissà cosa sarà stato? Il terremoto, forse? – si è detta.

Subito in piedi, avvolta nella sua vestaglia di seta amaranto, si è trovata completamente al buio accerchiata dalle suppellettili sparse per tutta la stanza. Niente luce. Solo un barlume di luce filtrava dalla finestra della camera. Carponi ha raggiunto la finestra. Non riusciva ad alzare la tapparella, sembrava bloccata. Si è messa in punta di piedi e ha guardato attraverso lo spiraglio di luce giù nel cortile interno dello stabile. Non c’era nessuno.

– Ma cosa è successo? – si ripeteva – E adesso che faccio? Devo chiamare Alberto. Dov’ è finito il cellulare?

Il cellulare era finito in un angolo sotto il letto. Ha provato a chiamare Alberto, ma non c’era campo.

– Merda! Devo uscire di qui. Subito. A ogni costo.

In ginocchio ha cercato di spostarsi nell’appartamento, ha strisciato lungo il pavimento di tutto il corridoio, appoggiandosi sui gomiti, senza entrare nelle altre camere contigue. Dritta alla porta d’ingresso.

– La chiave, dov’è la chiave! – si è messa a urlare a squarciagola.

Come una furia si è diretta verso il comò dell’ingresso e ha trovato la chiave della porta appoggiata sul ripiano. Ha dovuto girare più di una mandata per aprire e poi lo sgomento: appena dopo la soglia esterna un baratro profondo quattro piani. Ha richiuso subito la porta e si è messa a piangere a dirotto lasciandosi cadere sul pavimento mantenendo le spalle al muro. Adesso non può telefonare, non può chiamare nessuno. E non sa far altro che gridare:

– Aiuto! Aiutatemi per favore!

Nella testa di Francesco si accavallavano i ricordi, quelli della mattinata e quelli del pomeriggio precedente. Si trovava seduto su una panchina del Parco ma non gli sembrava di dover essere lì, forse doveva essere da un’altra parte, o no?

«Perché, perché? E adesso? Che cosa faccio? Cosa racconto ai miei? E pensare che mio padre e mio zio sono fanatici sulle norme di sicurezza! Proprio una bella giornata! Ho distrutto in una sola mossa l’attività dei miei e la casa di Corinna! Chi ha il coraggio di ricomparire?… Il viadotto della tangenziale è qui sopra…Buttarmi giù, mi schianto al suolo e poi…il nulla. E se sopravvivo per qualche minuto? E se in quei minuti riesco a pensare? La ferrovia e la metropolitana non sono lontane. Buttarmi sotto… Buttarmi nel fiume dal ponte, così sbatto la testa? Ma poi, in questo fiume! Che schifo! Rischio il tifo, il colera più un mucchio imprecisato di altre malattie, tutte con un unico risultato: giorni di atroci dolori viscerali, passati in bagno. Vedo i titoli dei giornali: “Cade nel fiume, sopravvive, ma muore per una grave infezione intestinale”. Nella merda ci sono comunque. Cosa dice il mio allenatore? “Un ragazzo diventa uomo non quando si fa una ragazza, ma quando è in grado di assumersi tutte le responsabilità”. Sì, però… a pensarci bene, i coloranti dei fuochi artificiali non puzzano prima di essere accesi… e mi ricordo di non aver acceso niente. Ricordo solo una grande puzza! Ma Corinna? Perché non risponde Corinna? Rispondi! Oh maledizione, perché mi dà il messaggio di chiamata non riuscita? E se si è ferita? E se è… NOOOH, non voglio pensarci! Deve essere sopravvissuta! Che cosa dice il mio allenatore? “Un ragazzo, ecc, ecc,”. Ecco, fermo restando che sono un grandissimo idiota, devo tornare sul cosiddetto luogo del delitto, voglio sapere come sta Corinna, sapere cosa è successo, e poi… sarà quel che sarà».

Così, annichilito dai dubbi e dai rimorsi, Francesco, ha fatto ritorno verso il luogo dell’esplosione. Giunto all’incrocio della via Gracchiolina, ha visto un via vai di ambulanze, Vigili del Fuoco, Polizia municipale, Polizia di Stato, perfino i Carabinieri. La via era transennata.

 Mentre Alberto Ottogalli era in ospedale, Laura Castoldi non era riuscita ad avvertirlo di essere stata vittima del disastro in casa sua. Ma era salva per fortuna. Non era la sola superstite rimasta intrappolata nel condominio: c’era anche Corinna al terzo piano a ovest della portineria. Quando finalmente Laura si è decisa a chiedere aiuto uscendo sul pianerottolo del suo appartamento, a precipizio diretto sulla voragine profonda quattro piani, ha sentito il grido disperato di Corinna, anche lei distesa a terra con la testa in giù sul baratro. Alle loro urla nessuno rispondeva, ma in compenso le due donne hanno cercato di confortarsi.

– Mi chiamo Corinna sono in casa da sola!

– Anch’io! Sono Laura, la moglie dell’architetto. Mi trovo in casa del mio ex-marito. Ti ricordi di me? Sei ferita? Riesci a muoverti?

– No. Non credo. Ma ho preso una brutta botta cadendo a terra.Scusami, non riesco a vederti, può stenderti anche tu in terra?

– Certo, devo stare attenta. Qui è crollato tutto. Vedi qualcuno sotto?

– No. Ci sono solo fumo e polvere. Io stavo andando a scuola. Aspetta. Mi sembra di vedere qui sotto la signora Cesira e la portiera sotto le macerie. Devono essere morte.

– Hai il telefonino con te?

– Sì.

– Riesci a telefonare a qualcuno?

– Il telefonino non prende!

– È vero! Manca la luce, è un vero disastro!

– Io stavo andando a scuola.

– Sta calma. Gridiamo insieme forse qualcuno verrà a salvarci.

Quando tutto sembrava perduto, le due donne hanno visto entrare correndo un gatto scodinzolante fra le macerie dell’ex-portineria. Subito dopo i fasci di luce delle lampade dei vigili del fuoco hanno cominciato a ondeggiare nel vuoto delle macerie. I soccorritori hanno raccolto le due donne al secondo piano. Non erano morte. Erano soltanto svenute e leggermente ferite. I primi soccorsi sono stati allestiti nel cortile dello stabile. Le ambulanze sono arrivate subito dopo. Tutt’intorno al palazzo si è creato un gran circo, con i mezzi dei pompieri, ambulanze, auto e camionette della polizia e dei carabinieri e tanti, tanti curiosi a guardare.

Per Corinna e Laura superstiti sono stati momenti di vera gloria, immortalate dal TG3 Regione e intervistate sulla carta stampata. Niente vittime, né feriti gravi, solo tanto spavento e l’evacuazione di tutte le famiglie in alloggi predisposti dal Comune di Milano.

Per colpa di chi e a causa di che cosa è successo tutto quel disastro? Certamente qualcuno doveva spiegarlo e molto bene!

Erano trascorsi appena alcuni giorni quando la signora Ernestina Beretta, la portiera-custode del palazzo, e la signora Cesira Mascherpa, inquilina del secondo piano, dopo insistenti richieste, riuscirono a ottenere l’autorizzazione per ritornare nei loro appartamenti a ritirare alcuni effetti personali. Per l’occasione vennero accompagnate da una giovane vigile del fuoco.

– Lasci che l’aiuti.

La ragazza in divisa cercava di sorreggere la vecchia signora mentre insieme lentamente procedevano sulla passerella sospesa sulle macerie.

– Ce la faccio anche da sola.

La custode si liberò dall’abbraccio della giovane. Dopo qualche passo si ritrovarono in quella che doveva essere stata una camera da letto.

– Signora Ernestina, mi raccomando. Non possiamo trattenerci troppo a lungo. I vigili devono finire di rimuovere le macerie.

Ernestina fece di sì con la testa e dopo un attimo di esitazione si diresse verso il comò. Sul marmo ormai sbiadito c’era capovolta una cornice portafoto. La vecchia signora la raccolse, si fermò a guardarla e poi se la portò al petto.

– Era il mio povero marito.

– Dia a me, la mettiamo nella busta.

Ernestina le porse la foto che subito sparì dentro una sacca di plastica scura. Poi la sua attenzione si concentrò sul cassetto più in alto. Lei sapeva cosa cercare. Quasi tremando tirò fuori una scatola di latta che una volta aveva contenuto biscotti.

– Qui ci sono i documenti.

Nel secondo cassetto ci affondò la mano e frugò tra i pochi indumenti intimi finché trovò la scatola di legno. Quasi meccanicamente ne aprì il coperchio. E subito si mise in moto la musica di un carillon. Appena uno sguardo dentro. Richiuso il coperchio, la musica cessò.

– Questi erano i miei ori – e rivolgendosi alla ragazza – Prenda, metta via.

La porta dell’armadio era semi aperta. Ernestina non seppe trattenersi e la spalancò per controllare ancora una volta il suo guardaroba.

– Signora Ernestina, lasci stare. I vestiti e le altre cose saranno presi dai miei colleghi e le saranno consegnati quanto prima. Ora non abbiamo molto tempo a disposizione e dobbiamo prendere soltanto lo stretto indispensabile.

– Sì, sì, va bene. Soltanto un minuto. Devo prendere una cosa in cucina.

– Stia attenta però. Qui è ancora bagnato e si può scivolare.

Misurando i suoi passi in cerca del giusto equilibrio, tra i rottami d’infissi e calcinacci bruciati, impregnati di acqua e di schiuma, Ernestina si avventurò nel breve corridoio che portava alla cucina. Nella credenza, tra le tazzine per il caffè e i bicchieri di cristallo quasi tutti distrutti e alcuni libri di ricette, c’era un vecchio volume rilegato in pelle.

– È la Bibbia della mia famiglia.

La signora Cesira era rimasta a sedere sulla panchina nel cortile e da lì seguiva con lo sguardo l’Ernestina e la ragazza in divisa che si muovevano tra le macerie del palazzo quasi sospese nel vuoto. A un certo punto si mise a gridare:

– Ernestina, Ernestina, il mio Tony, dov’è il mio Tony? Aiuto, aiuto, non sarà esploso anche lui?

Ernestina guardò in basso verso la sua vicina che cominciava già a piagnucolare e non seppe trattenersi.

– Ci mancava anche il gatto. Con tutto questo trambusto!

– Chi è Tony? – chiese la ragazza.

– Èil gatto della signora Cesira. Anzi, a dire il vero, lo consideriamo il gatto di tutto il condominio. Un soriano enorme, con il pelo marrone scuro e due occhi verdi che ti guardano incantati. Non se ne sta mai a casa sua quello lì, gira per i pianerottoli, su e giù per le scale, se ne va in cantina e spesso me lo trovo addormentato sullo zerbino davanti alla portineria. Così sono costretta a prenderlo in braccio, pesante com’è, per riportarlo alla signora Cesira che lo adora. Ormai, da molti anni, da quando il signor Alfio, suo marito, l’ha lasciata in quel brutto modo, Tony è l’unico grande amore della sua vita.

– Tony. Che strano nome per un gatto.

– Tony. Sì, Tony,proprio come quell’attore americano che le piaceva così tanto quando era giovane, quello magro magro, alto, tutto dinoccolato, con la faccia da bravo ragazzo, che recitava in quei film da spavento, quel… Forse lei era segretamente innamorata di quel Tony Perkins. E per questo ha chiamato Tony anche il suo gatto. E adesso chissà dove è andato a finire?

– Andiamo a sentire se ha bisogno di qualcosa. Qui ormai abbiamo finito.

Lentamente le due donne ripresero la strada del ritorno lungo la passerella e dopo qualche minuto sedettero accanto alla signora Cesira. La ragazza in divisa le chiese con dolcezza:

– Signora, quando l’ha visto per l’ultima volta il suo gatto?

– La mattina dell’incidente, mentre mi preparavo la colazione, gli ho aperto la scatoletta. Sa, quando ha fame, mi mordicchia le gambe, ma leggermente, giusto per farmelo capire. Poi, ecco, mi ricordo, quando sono tornata in cucina per togliere il latte dal gas lui, pensi un po’, era lì che camminava sui fornelli. Lo fa sempre e a volte si brucia anche il pelo della coda, poverino. Io glielo dico sempre di non farlo, ma lui, cosa vuole, capisce solo quando gli fa comodo! Poi, quando ho rimesso il pentolino sul ripiano del lavandino, l’ha fatto cadere e io ho urlato tanto che è scappato via di corsa… Signur, è colpa mia anche questo, povero il mio Tony, cosa gli sarà successo…

– Non si preoccupi. Vedrà che lo troviamo il suo Tony. Anzi, mi è venuta un’idea. Aspetti qui.

La ragazza si avviò su per le scale estensibili dei pompieri. Entrò nell’appartamento della signora Cesira e, trovata una scatola di croccantini per gatti, si mise a scuoterla con forza.

– Tony, Tony, dove sei?

Dopo un poco due occhioni verdi spaventatissimi sbucarono da sotto una poltrona, seguiti da una grossa massa di pelo tremante. La ragazza lo prese con sé e lo portò tra le braccia della signora Cesira che piangeva come una bambina.

Nel saloncino del residence dove il Comune aveva trovato ospitalità per loro, le due anziane signore giocavano a carte. In silenzio. Tutto era fermo nella stanza. Solo le mani si muovevano per prendere e scartare le carte da gioco. Le signore sembravano totalmente concentrate sulle carte che avevano in mano e su quelle scoperte sul tavolo. Ogni tanto si guardavano come a studiare le espressioni che potevano tradire le intenzioni dell’avversario.

Ernestina e Cesira si conoscevano ormai da oltre trent’anni. Erano entrambe vedove, non avevano figli e vivevano da sole. Una buona parte della loro vita l’avevano vissuta nello stesso palazzo, come vicine di casa. Col tempo erano diventate quasi amiche. In realtà si trattava di un’amicizia un po’ particolare, sviluppata più dal bisogno di spezzare la solitudine che dalla reciproca simpatia. Negli ultimi anni la frequentazione era diventata abituale. E pur avendo le due donne due caratteri profondamente diversi, avevano trovato del tutto naturale farsi compagnia a vicenda. Qualche volta uscivano insieme per fare la spesa o per andare in chiesa. Qualche volta Ernestina saliva al secondo piano per vedere se a Cesira, che a causa dell’artrosi si muoveva a fatica, serviva qualcosa. Qualche volta era Cesira che, preso l’ascensore, scendeva al pianterreno e andava a fare visita a Ernestina nella sua guardiola, giusto per fare quattro chiacchiere e raccogliere gli ultimi pettegolezzi sui vicini.

Spesso la signora Cesira e l’Ernestina si lasciavano andare ai ricordi, ai tempi in cui il Beretta, Beretta Gino, il marito dell’Ernestina era ancora vivo e Alfio viveva ancora con Cesira. I due uomini erano stati i primi a fare amicizia. Si trovarono subito simpatici e con gusti molto simili. Alfio Mascherpa era un bell’uomo, alto, asciutto, moro, con uno sguardo vivace e acuto. Faceva lo speleologo e insegnava al Politecnico. Il Gino, invece, era piccolo, con una bella pancetta prominente e quasi calvo, ma con due occhietti vispi pieni di curiosità. Allora era lui il portiere, l‘Ernestina faceva le pulizie nell’androne e nelle parti comuni. Spesso, la domenica, Alfio se lo portava dentro le grotte più strane e Gino si appassionava, anche se non sempre capiva quello che Alfio gli spiegava.

– Ma signora Cesira, se lo ricorda, quando quei due sparivano la sera fino a tardi, o il sabato pomeriggio, ma se lo ricorda dove andavano?

– Eh già, in cantina, a giocare con il trenino elettrico come due bambini di otto anni… Ed io che credevo che mi tradisse! Ma poi, mi ha tradito davvero. Proprio di una studentessa poi si doveva innamorare, lui che aveva già la sua bella età. Piuttosto dai, non ci rattristiamo, non pensiamoci più, ormai è acqua passata. Adesso entrambi ci guardano da lassù. A proposito, a che punto eravamo con le carte?

Ernestina abbassò le carte, con fare dimesso, e guardando negli occhi l’amica le chiese:

– Ma lei non ci pensa a quello che è successo?

– Certo che ci penso. Ma adesso giochiamo. Fammi vedere la carta che butti giù.

– Io non ci dormo la notte. Rivedo lo scoppio, la luce abbagliante, le cose volare. Mi sento mancare. Ho ancora nel naso l’odore del fumo e del gas, in bocca il sapore della polvere e della paura. Ho vissuto l’Apocalisse.

– Ho capito. Hai perduto la partita e io ho vinto.

– Che cosa vuole che m’importi della partita? Non pensa a quello che ci aspetta?

– Abbiamo forse un appuntamento?

– Signora Cesira, abbiamo perduto tutte le nostre cose e sembriamo dei profughi. Siamo ridotti a stare in questa specie di albergo. Chissà ancora per quanto?

– Perché, ti trovi male in questo residence? Io, per conto mio, mi trovo bene: servita, riverita… E poi siamo anche vicino alla chiesa. Così dobbiamo fare meno strada per andare a messa.

– Qui potremo stare ancora soltanto per qualche tempo, ma poi dovremo trovare un’altra soluzione oppure finiremo in un ospizio per vecchi.

– Tu pensi sempre alle cose più brutte. Pensa, invece, se fossi rimasta dentro la tua guardiola, ora staresti a fare compagnia all’angelo dell’Apocalisse. E io sarei costretta a venirti a trovare al cimitero.

– Insomma, allora non si rende minimamente conto di quello che ha fatto? Non prova neanche un briciolo di rimorso…

– Ma cosa dici? Di cosa dovrei sentirmi in colpa?

– Ma santiddio… Chi è che ha lasciato aperto il gas che ha saturato tutto il palazzo? Sono stata forse io? Con la sua testa matta, che si dimentica di tutte le cose, non è stata lei a lasciare sul fuoco il latte a bollire? Il latte fuoriuscito dal pentolino ha spento la fiamma mentre il gas continuava a uscire. Non si ricorda quando sono venuta a chiamarla? Ho bussato alla porta perché avevo sentito l’odore del gas che usciva da casa sua. Abbiamo fatto appena in tempo a uscire quando c’è stata l’esplosione.

– Ernestina, il gas non veniva dalla mia cucina. Veniva dalla cantina. Ed è lì che c’è stata l’esplosione, anzi le esplosioni, perché sono state più d’una. La colpa non è mia. Io so di chi è la colpa. Qualcuno giocava con le caldaie.

– Ah, sì? E chi sarebbe stato?

– Forse ho visto chi è stato. Prima dell’esplosione, o delle esplosioni, e prima che tu bussassi alla mia porta, ero alla finestra e ho visto una persona scappare nel cortile. Lo vuoi sapere chi era?

– Chi era, un fantasma?

– Era l’amichetto di Corinna che se la dava a gambe. Secondo me, Corinna e il suo ragazzo volevano fare uno scherzo a qualcuno. Hanno armeggiato con le valvole della caldaia ed hanno provocato le esplosioni.

– Ma i vigili hanno detto…

– I vigili stanno facendo ancora tutti i rilievi e vedrai che presto chiariranno tutti i fatti. Ti va di giocare un’altra partita? Ti concedo la rivincita.

Ernestina prese in mano il mazzo di carte e ricominciò a mischiarle. In silenzio.

Dopo un paio di settimane tutti gli inquilini dello stabile di via Gracchiolina 32 furono convocati presso il Comando dei Vigili del Fuoco per raccogliere ulteriori informazioni sulle dinamiche dell’incidente. Queste sono le impressioni raccolte tra i presenti subito dopo la conclusione dell’incontro.

Nella saletta riunioni tutti i convenuti hanno trovato posto intorno al tavolo rettangolare. C’era l’architetto Alberto Ottogalli, appena dimesso dall’ospedale. Accanto gli sedeva la ex moglie. C’erano, poi, i due gestori dell’Alphatour, l’agenzia di viaggio che occupava due appartamenti al primo e secondo piano, che tuttavia al momento dello scoppio erano ancora deserti. Dall’altra parte del tavolo sedevano gli inquilini del terzo piano, i signori Villanti e i signori Rossini, che al momento dello scoppio erano già usciti da casa per andare a lavorare. Anche Corinna, figlia dei Rossini, era presente alla riunione perché in casa al momento dell’incidente. C’era anche il signor Cantoni, il padre di Francesco, proprietario dell’azienda per la vendita di fuochi artificiali, situata nel seminterrato, con a fianco il fratello cointestatario della stessa azienda. Poi, naturalmente, c’erano sedute una vicina all’altra la signora Cesira e la Ernestina.

Sembrava quasi una riunione di condominio. Se non fosse stato per quella persona seduta a capotavola che con aria severa continuava a guardare i fogli contenuti in un fascicolo dal colore giallino. Era Barzizza, l’ingegnere dei vigili del fuoco incaricato dell’inchiesta tecnica che, dopo le presentazioni, chiese ai presenti se qualcuno fosse a conoscenza di qualche particolare in grado di ricostruire l’accaduto o se avesse delle richieste da avanzare.

Tutti gli occhi dei presenti si rivolsero verso Ernestina, pronti ad ascoltare per l’ennesima volta la sua versione. E lei, rendendosi conto di essere chiamata a prendere la parola per prima, anche se con riluttanza, iniziò a raccontare:

– Ho sentito un forte odore di gas che arrivava dalle scale. Sono subito uscita e sono salita sino al secondo piano, dove abitava la signora Cesira. Era lì che c’era questo strano odore, molto più forte del normale. Sapendo che la signora era in casa, ho bussato con forza alla sua porta per avvertirla del pericolo. Poi mi sono messa a gridare per avvertire anche gli altri inquilini, che potevano essere ancora in casa. Immaginavo che i signori Villanti e i signori Rossini fossero andati già al lavoro. Escono sempre presto la mattina. Non sapevo, invece, se Corinna era già uscita per andare a scuola, se negli uffici dell’Alphatour fosse arrivato già qualcuno, né sapevo che nell’appartamento del quarto piano stava dormendo la signora… Per questo mi sono preoccupata soprattutto della signora Cesira, che da persona anziana ha bisogno… come dire?… di essere aiutata.

L’ingegnere comprese l’imbarazzo con cui Ernestina stava cercando di spiegare l’accaduto. Evidentemente non voleva addossare la colpa su nessuno, né tanto meno accusare quella vecchietta che continuava a sorridere a tutti, quasi contenta di trovarsi tra tanta gente cordiale e simpatica. A questo punto il vigile del fuoco non poté fare a meno di rivolgerle la domanda diretta:

– Era dall’appartamento della signora Cesira che proveniva il gas? È lì che ha trovato il rubinetto del gas aperto e la fiamma spenta?

– Veramente io non sono entrata in casa della signora Cesira. – ha risposto la portiera – Quando ho bussato lei mi ha aperto la porta, era ancora in vestaglia. E un attimo dopo c’è stata l’esplosione e ci siamo trovate buttate a terra coperte di calcinacci. E per fortuna vive. È stato un vero miracolo.

A quel punto la signora Cesira è subito intervenuta dicendo:

– È proprio vero. È stato Padre Pio, che ci ha fatto la grazia. Sa, ogni mattina mi preparo la colazione da sola. Mi scaldo il latte e ci inzuppo i miei biscotti. Buoni, sa. Se mi viene a trovare glieli faccio assaggiare. Però, quel giorno c’è stato lo scoppio…

L’ingegnere forse sapeva già come si erano svolte le cose; tuttavia c’era ancora qualcosa che doveva essere chiarito.

– Mi sapreste dire se in casa vostra o in casa di qualche altro inquilino si conservava un contenitore di acetilene o di carburo di calcio?

– Carburo di calcio? Acetilene? – si è chiesta Ernestina come se la domanda cadesse da una nuvola.

 Carburo di calcio? Acetilene? La domanda si ripeteva anche nella mente dell’architetto Alberto Ottogalli. Era come se una porta della sua memoria si aprisse lentamente facendo intravedere un lungo corridoio dove si muovevano delle ombre indefinite. Gli sembrava di sentire anche degli odori. Un odore acre, persistente, che percepiva ancora. Era l’odore che aveva sentito quando era arrivato davanti alle macerie del palazzo poco dopo l’esplosione. Ed era lo stesso odore che sentiva da ragazzino quando giocava con i barattoli di carburo.

Era il gioco proibito di quando era ragazzo, subito dopo la guerra, la prova di coraggio che consentiva di entrare dentro la banda dei “Guerrieri Perfetti”. Solo la banda dei “Guerrieri Perfetti” poteva giocare nel canneto a ridosso della roggia che sfociava qualche chilometro più in là nel fiume. Lì Alberto, insieme al fratello gemello Luca detto “il Biondo”, a Bruno detto “il Cagone”, per le sue mutande sempre gialle davanti e marroni di dietro, e a Mario detto “il Moccolo”, per il suo costante rivolo di moccio che gli scendeva dal naso, aveva costruito una capanna che era diventata il loro castello. Lo avrebbero difeso dall’attacco degli altri ragazzi anche a costo della loro stessa vita. Dentro “il castello” custodivano i loro oggetti più preziosi: un elmetto tedesco e una giberna militare che avevano trovato sotto a un cespuglio, una lente con cui riuscivano ad accendere il fuoco, dei vecchi album di «Capitan Blake» e di «Mandrake» e alcune copie de «Il Vittorioso». Vicino al “castello” i componenti della banda facevano delle lunghe partite a carte, giocavano con le biglie di vetro oppure con le fionde andavano a caccia di lucertole e di uccelletti che finivano bruciati su una graticola tutta arrugginita. Tuttavia il gioco più emozionante era sempre quello del missile a carburo. Solo i membri della banda erano capaci di sottoporsi a questa prova. Una volta Lorenzo “lo Zoppo”, così chiamato perché claudicante per una leggera poliomielite contratta quand’era bambino, chiese di entrare nella banda. Ma quando fu sottoposto alla prova del missile a carburo per poco non se la fece addosso. Questo gioco Alberto e compagni lo avevano imparato da Chicco “lo Spocchione”, che era di qualche anno più grande e sicuramente sapeva più cose di loro, ma le faceva cadere sempre dall’alto come se volesse comandare su ogni cosa. Dopo qualche tempo non venne più a scuola perché era stato bocciato troppe volte e andò a imparare il mestiere presso l’officina di un meccanico.

Il missile a carburo altro non era che un barattolo di latta. Quello dei pomodori andava benissimo. Per prima cosa, con un grosso chiodo si faceva un buco sul fondo del barattolo, poi si riempiva a metà con granelli di carburo, quindi si tappava con cura con uno straccio o un pezzo di iuta, quello dei sacchi di farina o delle patate andava benissimo. Il barattolo era messo capovolto, con il buco per aria, dentro della terra bagnata o in una bacinella riempita con un poco di acqua, facendo attenzione che solo la parte in basso del barattolo rimanesse a contatto dell’acqua. Dopo qualche minuto di attesa il “guerriero perfetto” avvicinava al foro sul barattolo una torcia fatta in genere con un foglio di giornale arrotolato. Il gas di acetilene, sprigionato all’interno del barattolo per il contatto del carburo con l’acqua, faceva schizzare il barattolo in alto come un missile. Tra di loro si faceva a gara a chi mandava il barattolo più in alto. Il vincitore era “il guerriero superperfetto”.

Alberto e suo fratello Luca riuscivano a recuperare il carburo rubandolo al signor Mascherpa e al portiere, il signor Beretta, che lo custodivano sin dai tempi dell’ultima guerra quando in cantina c’era il rifugio antiaereo e si usavano le lampade a carburo per illuminare gli ambienti sotterranei. Dopo la guerra, il carburo era stato utilizzato dal signor Mascherpa che faceva lo speleologo e aveva un caschetto con la lampada a carburo come i minatori.

Tanti anni ormai erano trascorsi. Alberto, nonostante gli sforzi, aveva quasi dimenticato dove era nascosto il carburo, ma l’odore era quello. Non poteva sbagliarsi.

 

Da qualche giorno Alberto Ottogalli faceva fatica a prendere sonno. In piena notte cominciava a camminare ricordando l’infanzia trascorsa in quella casa ormai distrutta con il fratello gemello e i suoi genitori. Furono proprio quei ricordi a fargli venire in mente che il babbo un giorno lo aveva portato con il fratello Luca nel rifugio antiaereo ricavato nelle cantine della casa, raccontandogli l’esperienza vissuta assieme ai condomini durante i bombardamenti del ‘44 e del ’45. Più tardi, proprio in quelle cantine i piccoli Alberto e Luca avevano scoperto quella pietra magica cristallina, incolore, che sprigionava energia “scoppiettante” a contatto con l’acqua, quel minerale che tutti chiamavano carburo. Loro lo andavano “a sgraffignare” per i loro giochi pirotecnici nello spazio riservato dei signori Mascherpa, che rimaneva sempre aperto. Ma quando il signor Mascherpa si accorse che le pietre scomparivano velocemente pensò bene di portare nel suo appartamento l’intero barattolo arrugginito con quelle poche rimaste.

– Architetto, ha qualcosa da dire? – disse l’ingegnere rivolgendosi ad Alberto che sembrava un po’ estraniato ma aveva alzato il dito.

– Scusate, ma con la vostra domanda mi avete portato indietro, lontano nel tempo. Se mi chiede se ho sentito odore di acetilene, le dico di sì!

– Mi scusi, architetto, ma come ha fatto a sentire l’odore d’acetilene? Lei non era in casa, o sbaglio? Io desidero sapere soltanto se qualcuno conservava in casa del carburo.

– Che cosa vuole che le dica? Io non l’avevo in casa, come può testimoniare la mia ex-moglie. Però, verosimilmente, potevano detenerlo o la signora Cesira o Ernestina, considerato l’uso che ne facevano i rispettivi mariti.

– Quale uso scusi?

– Sia cortese, lo chieda direttamente alle signore interessate!

– Cos’è che dice l’architetto del barattolo del carburo? Non ho capito bene – chiese la signora Cesira all’Ernestina che le sedeva accanto.

L’ingegnere, infastidito per il chiacchiericcio dei suoi interlocutori, intervenne in modo deciso:

– Stia buona, signora, e per favore risponda alla domanda: aveva in casa del carburo o dell’acetilene?

– E perché mai? – è stata la risposta della signora Mascherpa.

Ormai anche l’Ernestina, che stava cominciando a capire tutta la storia, si stava spazientendo. Questa Cesira era proprio diventata vecchia! Oh madre santa, cosa aveva raccontato quando cercavano il suo gatto? Che era salito sul lavandino, che aveva rovesciato il latte e poi era fuggito via sopra le mensole. Ed Ernestina sottovoce si è lasciata sfuggire la domanda:

– Ma perché, potrebbe essere stata la causa dello scoppio, se ci fosse caduto dentro un liquido?

– Come, cosa dici? Non puoi parlare un po’ più forte? Lo sai che da quest’orecchio non ci sento bene.

La professoressa Cesira Mascherpa aveva talmente alzato la voce che tutti la sentirono. L’Ernestina si era coperta la bocca con una mano, tutta rossa in volto.

– Potreste rendere partecipi anche noi della vostra conversazione? – chiese stizzito l’ingegner Barzizza.

Cesira si guardava intorno smarrita. L’Ernestina fu costretta a rivelare che il famoso barattolo si trovava ormai da anni in casa della signora Cesira, precisamente sotto la mensola a fianco del lavandino, dove erano allineati i santini, e che il gatto…

– Il mio Tony? – ha gridato la signora Mascherpa che stava cominciando a capire – No… No, non farebbe mai una cosa simile! Figuriamoci se voleva provocare tutto questo disastro!

L’Ernestina scuoteva la testa sconsolata, mentre l’ingegnere guardava la signora Cesira come a volerla fulminare e tutti gli altri tacevano imbarazzati.

Il primo a rompere il silenzio fu l’architetto Ottogalli.

– Comunque, egregio ingegnere, è ridicolo che si cerchi il responsabile tra di noi che abbiamo perso tutto. Provi a immaginare la vita che stiamo facendo, da veri disastrati, tutti noi!

I rappresentanti dell’Alphatour, ritenendo che quello fosse il momento opportuno, chiesero la parola:

– La nostra azienda, con l’esplosione nel palazzo, ha subito un notevole danno. Chi ci dovrà risarcire? Lei deve darci una risposta.

Subito si accodarono i signori Cantoni:

– Anche noi abbiamo avuto danni incalcolabili e abbiamo perduto tutto il nostro archivio clienti.

– Calma, calma. Stiamo calmi. – cercò di smorzare i toni l’ingegnere – Capisco bene che voi tutti abbiate le vostre buone ragioni per protestare. I miei collaboratori hanno fatto tutti i rilievi del caso e sono giunti a una conclusione.

Quindi tirò fuori dalla sua cartelletta alcuni fogli contenenti la perizia tecnica effettuata dai Vigili del fuoco e cominciò a leggere ad alta voce:

– L’impianto della caldaia centralizzata, vecchia di oltre trent’anni, evidenziava ripetuti segni di logoramento e le condutture del gas, risalenti agli anni Cinquanta, non erano da tempo sottoposte alle dovute manutenzioni. Considerata l’implosione avvenuta con crollo all’interno del vano ascensore e della tromba delle scale, si è accertato che a provocare l’esplosione di gas fuoriuscito dalla cantina e poi dal sottoscala sia stato verosimilmente il richiamo elettrico dell’ascensore o altra causa fortuita che non è possibile al momento accertare.

Poi, dopo una breve pausa, continuò:

– Penso che quanto prima provvederemo a inviare una dettagliata relazione tecnica alla Procura della Repubblica con relativa denuncia contro ignoti.

 Gli inquilini dello stabile di via Gracchiolina si ritrovarono fuori dagli uffici dei Vigili del Fuoco a commentare tra loro l’esito della riunione appena conclusa.

In realtà era proprio la signora Ernestina che, dopo aver sentito le dichiarazioni dei presenti, aveva capito la vera dinamica dell’incidente. Che la causa di tutto fosse stata la fuga di gas, non c’era dubbio alcuno. Che a causare questa fuga di gas fosse stata la distrazione della signora Cesira, tutti ne erano convinti. Evidentemente, il latte che aveva lasciato bollire sul fornello era uscito dal pentolino e aveva spento la fiamma. E il gas che continuava a uscire aveva completamente saturato l’ambiente. Allora lo scoppio da che cosa era stato causato? Ernestina aveva un forte sospetto. Qualche giorno prima aveva visto la signora Cesira armeggiare con un vecchio barattolo, mezzo arrugginito, che aveva tirato fuori, non si sa da dove. Aveva detto che lo doveva buttare perché neanche lei sapeva cosa conteneva. Momentaneamente lo aveva sistemato in cucina sotto una mensola, dove aveva in bella mostra un ritratto di Padre Pio e un piccolo lumino a pile. Su quella mensola molto spesso passeggiava il gatto Tony, forse attirato dalla lucetta rossa del lumino. Qualche volta il lumino cadeva a terra perché spostato dalle zampette del gatto Tony. E se il lumino fosse caduto su quel barattolo che molto probabilmente conteneva i resti del carburo usato da Gino e dal signor Alfio per le loro passeggiate sotterranee? Ernestina sapeva che il carburo, in certe condizioni, poteva diventare esplosivo. Di sicuro poteva essere un ottimo innesco per un ambiente saturo di gas. L’impianto del gas con tutte le sue tubature era ormai vecchio e da tempo doveva essere modificato. Lo aveva fatto presente più volte all’amministratore. Tuttavia, per ragioni che a lei non era dato sapere, questi lavori erano stati più volte rimandati.

I suoi ragionamenti, alla fine della riunione, furono interrotti da un’esortazione della signora Cesira:

– Hai capito Ernestina? Noi tutti siamo stati proprio miracolati! E lo sai da chi? Io lo so: da padre Pio. Dobbiamo andare in chiesa per ringraziarlo.

– Ha ragione la professoressa Mascherpa – ripeterono quasi in coro i signori Rossini e Villanti.

– È proprio vero – aggiunse l’architetto Ottogalli, mentre i responsabili dell’Alphatour annuivano in silenzio.

Si formò così, subito dopo l’uscita dalla caserma dei Vigili del fuoco, un piccolo corteo verso la chiesa più vicina. Tutti gli inquilini dello stabile di via Gracchiolina 32 andarono a ringraziare Padre Pio per lo scampato pericolo e per la grazia ricevuta. In chiesa si riunirono tutti davanti a un altare laterale, dove c’era una statua del santo di Pietrelcine.

Anch’io mi ritrovai in quella chiesa. Sedetti su una panca dietro una colonna e mi fermai a guardare quel gruppo di fedeli. Qualcuno cominciò a recitare una preghiera sottovoce. Altri pregavano in silenzio: «Grazie Padre Pio per aver risparmiato la nostra famiglia». «Grazie Padre Pio per aver salvato Francesco». «Grazie Padre Pio per i soldi del risarcimento danni che per qualche tempo consentiranno alla nostra azienda di superare questo momento di crisi». «Grazie Padre Pio che ci hai dato la possibilità di rincontrarci». Per ultimo, con il suo passo lento e felpato, entrò in chiesa il gatto Tony che si unì al gruppo e fece: “Miiaooo”.

 

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