Prima della ripartenza, finiamo la convalescenza

Pubblicato il 2 Luglio 2020 in , da Anna Da Re

La “ripartenza” è indubbiamente la parola più usata e abusata in questo momento. Non so voi, ma a me questa incitazione ripetuta come un martellamento disturba abbastanza. Io mi sento piuttosto, e non credo di essere la sola, di stare andando verso la fine della convalescenza. Parola poco usata, ormai, convalescenza.

Una volta si faceva la convalescenza anche dopo l’influenza. C’era sempre questa idea che la malattia fosse un’interruzione della vita normale, un tempo diverso, e che quindi richiedesse un altro tempo di passaggio, di transizione. Il ritorno alla quotidianità era graduale, incrementale. La convalescenza poteva durare un giorno o un mese, ma era chiaro per tutti che guarire era un processo e che andava completato prima di poter tornare a dedicarsi ai consueti impegni. Da ragazzi si scalpitava e si voleva accelerarla il più possibile, la convalescenza. Ma ci dicevano che avremmo avuto delle ricadute e delle recrudescenze, e spesso capitava proprio così.

Ora è successo che siamo stati chiusi in casa per più di due mesi, e anche se siamo stati bene è stato proprio come fare una lunga malattia. Ma la convalescenza non è contemplata, nel nostro mondo che si affanna a rincorrere il tutto e subito, il tempo reale (come se ne esistesse anche uno che reale non è), il sette giorni su sette ventiquattro ore su ventiquattro.

Vi dirò che la convalescenza era pure molto chic, e potrebbe esserlo ancora. Pensate ai grandi romanzi dell’Ottocento. Lì persino le malattie del cuore, gli abbandoni, le pene amorose, prendevano l’aspetto della malattia. Per un grande dolore ci si metteva a letto, si faceva vita ritirata, niente rapporti sociali o svaghi o divertimenti. E aveva un gran senso, secondo me. Quando si sta male si ha bisogno di raccogliersi in se stessi, di ritrovare le forze e il coraggio dentro di sé e non cercarlo a casaccio, fuori da noi. Nei grandi romanzi dell’Ottocento si facevano lunghe convalescenze, con un ritorno graduale al mondo, che fossero i balli sfarzosi o le incombenze della quotidianità. Se uno aveva il privilegio di essere benestante, la convalescenza si faceva spesso nei luoghi di villeggiatura, dove il riposo, la lentezza e la calma erano più facili e piacevoli.

Ecco, secondo me abbiamo tutti bisogno di un lungo periodo di convalescenza. Un periodo in cui gradualmente reimpariamo a stare con gli altri, a gestire la pressione del lavoro, a stare tutto il giorno in ufficio o in negozio o in laboratorio se lavoriamo. Un periodo in cui magari andiamo nelle nostre case al mare o in montagna, o ne affittiamo una, per fare una vacanza di quelle di una volta, che erano soprattutto riposo e che giustificavano il termine “vacanza”, ovvero vuoto. Un periodo in cui succede poco intorno a noi, per fare sì che magari succeda qualcosa dentro di noi. Che si può svolgere anche nelle nostre case abituali, di città o di paese.

La convalescenza ci permetterebbe di conservare quel rapporto stretto e intimo con noi stessi che il lockdown aveva reso più facile e consueto, e di trovare un modo per mantenerlo nonostante la socialità e il daffare delle nostre giornate. Da convalescenti non pretenderemmo, da noi stessi in primis ma poi anche dagli altri, performance eccellenti e risultati immediati, ma saremmo consapevoli che l’efficienza non è un dato di fatto assodato oggi e per sempre, ma piuttosto un punto di arrivo che può capitare di non riuscire a raggiungere. Da convalescenti perdoneremmo di più e con maggiore generosità gli errori e le sviste che la disabitudine a fare certe cose provoca in modo naturale. Insomma da convalescenti ci sentiremmo e saremmo un po’ più umani.

E non è che non ci sarebbe la tanto agognata ripartenza. Ma vi ricordate, voi signore e signori after fifty, le macchine di una volta? Se stavano ferme per un po’ poi mica ripartivano al primo colpo. Ci voleva un po’. Si girava la chiave dell’accensione e non succedeva niente. Allora si girava di nuovo. Si dava un po’ di accelerazione, ma non troppa, che se no il motore si ingolfava. Insomma era una piccola, frequente lezione di pazienza. Di cui secondo me abbiamo ancora molto bisogno.

E buon riavvio a tutti!