Storia del cinema /7: Federico Fellini, Il potere dell’immaginazione

Pubblicato il 1 Febbraio 2016 in

Sin dagli esordi, nell’ambito di un cinema vagamente neorealista (Luci del varietà, 1950; La strada, 1954; Il bidone, 1955; Le notti di Cabiria, 1957), Federico Fellini (1920-1993) elabora una propria poetica che rifugge la rappresentazione del reale a favore di una visione mnemonica e grottesca della vita (celebre il suo aforisma: «Nulla si sa, tutto si immagina») dove appunto l’iperbole, la metafora, la caricatura rappresentano il legame tra l’opera filmica e il contesto sociale e culturale in cui essa si rispecchia o che rappresenta. La StradaPer questo motivo il riferimento autobiografico finisce ben presto con il prendere il sopravvento su ogni altra forma di ispirazione proprio perché i “fantasmi” riminesi del regista, resi attraverso rappresentazioni spesso stralunate, colpiscono la fantasia dello spettatore per la loro esemplarità da commedia dell’arte: maschere stereotipate il cui Dna è impresso nel volto, senza bisogno di alcuno di scavo psicologico.

È la cifra comune che lega film solo all’apparenza diversissimi come Lo sceicco bianco (1952), I vitelloni (1953), La dolce vita (1960), Giulietta degli spiriti (1965) e Otto e Lo sceicco biancomezzo (1963), titolo, quest’ultimo, più emblematico della prima produzione felliniana. OttoemezzoUn film su un film che non viene portato a termine, il senso di inadeguatezza di un artista di fronte a ciò che vorrebbe rappresentare ma che diventa per lui irrapresentabile se non nella sua stessa negazione. Forma e stile anticipati peraltro da film più strutturati e densi di significato come L’anno scorso a Marienbad (1960), di Resnais e Robbe-Grillet, e Il disprezzo (1963) di Godard.

Per comprendere l’estetica felliniana è rilevante anche l’affermazione dello stesso regista a proposito di uno dei due soli film di ambientazione non contemporanea da lui girati: Fellini-Satyricon (1969): «Non mi propongo certo di ricostruire con devota fedeltà gli usi e i costumi dell’antica Roma. Quel che mi interessa è tentare di evocare medianicamente un mondo che non è più.
Tentare cioè di ricomporlo, mediante una struttura figurativa e narrativa di natura quasi archeologica, un po’ come fa appunto l’archeologo quando con certi cocci, o con certi ruderi, ricostruisce non già un’anfora o un tempio, ma qualcosa che allude a un’anfora, a un tempio: e questo qualcosa è più suggestivo della realtà originale, per quel tanto d’indefinito e d’irrisolto che ne accresce il fascino, postulando la collaborazione dello spettatore».

La filmografia successiva (anni ’70 e ’80) sembrerebbe interamente ricalcata su quella dichiarazione di principio: evocare medianicamente un mondo che non esiste, (ri)componendolo attraverso immagini di grande suggestione visiva puntando al maggior coinvolgimento possibile dello spettatore. È il caso di La città delle donne (1980), E la nave va (1983), Ginger e Fred (1985) e Intervista (1987) anche se il titolo più emblematico al riguardo è sicuramente Amarcord (1973), summa dell’universo felliniano in una Rimini totalmente ricostruita in studio che sta alla Rimini “vera” esattamente come l’allusione dell’anfora all’anfora. Il che non significa che la fervida fantasia del regista non raggiunga a volte vertici insuperati, come nel ritratto metafisico della Città Eterna sotto le mentite spoglie di un docu-fiction: Roma (1972).Amarcord

«Un grande spettacolo fantastico completamente libero da qualsiasi vincolo con realtà più o meno riscontrabili. Una favola barbarica, opulenta e atroce» aveva detto Fellini ancora a proposito del film tratto dal Romanzo Satirico di Petronio Arbitro, senza avvedersi di avere scritto in tal modo l’esergo della sua intera carriera artistica.

 

LINK

Luci della ribalta 

La dolce vita

 

Giulietta degli spiriti

 

Casanova

 

Amarcord

 

Intervista

 

E la nave va

 

Prova d’orchestra

 

 

 

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