Asta Bce, alle banche 489 miliardi

Pubblicato il 22 Dicembre 2011 in da redazione grey-panthers

Le aperture

“Stipendi, dieci anni in perdita” è il titolo del Corriere della Sera, che offre un “dossier sui salari”, nel quale si racconta la diminuzione del potere d’acquisto negli ultimi 10-15 anni. “Tasse e inflazione: così diminuisce il potere d’acquisto”. A centro pagina notizie dalla Siria (“La denuncia degli oppositori: in Siria 250 morti in tre giorni”). Accanto, l’esito dell’asta Bce: “La corsa delle banche ai prestiti di Francoforte. Per l’Italia 116 miliardi. La Bce ne ha assegnati quasi 500”.

Su questa notizia apre Il Sole 24 Ore: “Asta Bce, alle banche 489 miliardi. Dati Usa deludenti e timori di recessione frenano i listini: dopo una buona partenza, Milano chiude in rosso. Stabile Wall Street. Ai big italiani 116 miliardi. Vendite sui Bonos, realizzi sui Btp: spread a 491”. Di spalla la politica: “Monti vede i leader. Berlusconi: ci consulti o andiamo al voto. Oggi fiducia al Senato, poi la fase due”.

La Repubblica torna sulle polemiche sull’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori: “Fornero, dietrofront sull’articolo 18. L’Istat: Italia già in recessione. Berlusconi: basta tasse o si va a votare”. “Il ministro: non ho nulla in mente sui licenziamenti, sono stata ingenua. Monti vede il Cavaliere e Bersani. Bagarre della Lega al Senato, oggi la fiducia”.

La Stampa: “L’occupazione vera emergenza”. Lo ha detto il ministro Fornero, nella stessa frase in cui ha detto che l’articolo 18 è “l’ultimo problema”. “Bersani: toccarlo ora è una cosa da matti. L’Istat cofnerma: Italia verso la recensione. Corsa delle banche ai prestiti della Bce”.

Il Giornale: “Bersani minaccia Monti. ‘Guai a toccare l’articolo 18. Il peader Pd getta la maschera e sposa la Cgil. ‘Il governo non cambi nulla sul lavoro, altrimenti…’. L’ultima invenzione dei professori: pagheremo una tassa per farci controllare i conti correnti”.

Lavoro

L’ex ministro del lavoro del governo Prodi, ed ora senatore del Pd, Tiziano Treu, intervistato dal Corriere della Sera a proposito delle polemiche sull’articolo 18, dice: “Noi riformisti del Pd ci aspettiamo che il governo segua una certa sequenza nell’assumere provvedimenti, dopo che abbiamo ingoiato questa manovra necessaria”. Insiste insomma sulla “gradualità”, sottolinea che “il mercato del lavoro non è solo l’articolo 18, neanche l’Ocse ci chiede più di modificarlo, forse qualcuno ha voluto aizzare la discussione”. Che tipo di sequenza: “Ora servono i provvedimenti per la crescita. Si deve aprire un confronto con i sindacati e – nel frattempo – speriamo ci siano i segni di ripresa. Dobbiamo prima affrontare la mancanza di ammortizzatori sociali, per capire chi è malmesso: due milioni di persone, senza alcuna tutela, come ha detto Draghi”. Precisa che “devono essere ammortizzatori dinamici, non pura assistenza, e devono riguardare i più giovani e quelli con più di 55 anni, la cui pensione si è spostata in avanti”. Dove si prendono le risorse per gli ammortizzatori? “Nel 2007-2008 facemmo i conti: servivano cinque miliardi l’anno”; non sono pochi, ma “più o meno quanto costa la cassa in deroga che in realtà è una droga”, riduciamo queste casse e facciamo un patto generazionale: quello che si risparmia sulle pensioni va ai giovani”:
Sulla necessità di allineare i costi dei vari contratti, ricorda che quando, da ministro del lavoro, fece la legge sul lavoro interinale, fece in modo di farlo costare di più: “C’era il 4 per cento della formazione, c’era la percentuale dovuta alla agenzia interinale”. Alla fine oggi è interinale solo l’1 per cento dei contratti”. Treu ricorda anche che c’è anche una “proposta Boeri” di un contratto con i primi tre anni di prova. E che c’è quella di alcuni confindustriali, che chiedono certezza sui costi e i tempi del processo del lavoro, e poi c’è la proposta di Franco Marini sui licenziamenti, che Treu spiega così: punta a distinguere quelli discriminatori da quelli per motivi economici. Per questi ultimi si stabilisce una procedura con i sindacati al termine della quale, se c’è un accordo bene, altrimenti c’è un indennizzo”. Al governo e alla Fornero rimprovera di aver sbagliato nell’agitare “i drappi rossi”. E poi: “L’articolo 18 è una sofferenza. Non lo sbattiamo in prima pagina”.
Sullo stesso quotidiano il giuslavorista e senatore Pd Ichino ricorda che fin dall’inizio il governo Monti è stato chiarissimo: la riforma non deve toccare i rapporti di lavoro già costituiti, e quindi influirà soltanto sul flusso delle assunzioni, non certo in quello dei licenziamenti. Ichino risponde alle obiezioni fatte dall’ex ministro Damiano, ora deputato Pd: sostanzialmente si diceva che il modello danese non è esportabile in Italia per via delle piccole dimensioni di questo Paese scandinavo. Ichino sottolinea che la Svezia “ha la stessa popolazione, lo stesso identico reddito procapite della Lombardia; all’incirca lo stesso può dirsi della Danimarca, in riferimento a regioni come il Piemonte. Dal 2001, le nostre Regioni hanno piena competenza legislativa e amministrativa in materia di servizi al mercato del lavoro: “Certo, i nostri servizi pubblici in questo campo sono gravemente insufficienti”, ma in Italia “non manca il know how specifico, le nostre agenzie offrono servizi eccellenti di assistenza per la ricollocazione e la qualificazione professionale. Il problema è che sono agenzie private, che chiedono di essere pagate a prezzi di mercato”. Nulla impedisce però che “le regioni incomincino a spendere meglio i fiumi di denaro che oggi sperperano in questo campo, ivi compresi i cospicui contributi del Fondo sociale europeo, oggi poco e malissimo utilizzati”.
Quanto al sostegno del reddito, sarebbe necessario secondo Ichino “riconvertire una parte dell’enorme spesa oggi sostenuta dall’Inps per la cassa integrazione a zero ore attivata a fondo perduto per congelare le crisi occupazionali aziendali”, utilizzandola per estendere a tutti i settori la disoccupazione speciale oggi riservata ai soli lavoratori dell’industria.
Una analisi sul Sole 24 Ore propone un confronto internazionale sulle politiche attive per il lavoro: quanto ha investito l’Italia per garantire l’occupabilità della sua popolazione attiva e per sostenerne il reddito nel caso di perdita del posto? L’Italia è fanalino di coda, secondo i dati Eurostat relativi al 2009: quell’anno, la spesa complessiva per le politiche sul lavoro sul Pil in Italia si è attestata a quota 1,7 per cento. La media Ue è 1,9 per cento. Germania e Francia in quell’anno hanno investito in politiche del lavoro il 2,1 per cento del Pil.

Bce

“La Banca centrale europea ha fornito ieri a 523 banche europee liquidità a tre anni per un totale di 489 miliardi di euro. Sia l’importo, molto superiore alla media delle aspettative di mercvato, sia la durata dell’operazione, sono senza precedenti, nel tentativo di allentare le pressioni sul sistema finanziario e attenuare una stretta creditizia che potrebbe aggravare la recessione già in corso in Europa”. Lo scrive Il Sole 24 Ore, che spiega come il grosso dei finanziamenti dovrebbe essere andato a banche dei Paesi del sud Europa: quelle italiane avrebbero ottenuto 110 miliardi, quelle spagnole tra i 50 e i 100. Una parte sarebbe andata anche a banche che non ne avevano immediatamente bisogno, ma che sono state “discretamente sollecitate” dalla Bce a partecipare all’asta, per “evitare che “l’adesione portasse con sé un marchio negativo”. L’operazione, secondo gli analisiti, consente di pre-finanziare il debito delle banche in scadenza nel 2012 per due terzi, o forse più. La metà circa di questo debito scade nel primo quadrimestre del 2012.
Una analisi, sullo stesso quotidiano, si sofferma sul “dilemma delle banche”, sul come utilizzare questa liquidità. La Bce conta che vengano usati per finanziare l’economia reale, e lo ha spiegato il presidente Draghi quando ha detto che il canale bancario è “cruciale per la fornitura di credito alle piccole e medie imprese, e alle famiglie”. Alcuni osservatori ritengono che le banche possano usare la liquidità per comprare titoli di Stato dei Paesi dell’eurozona. Ma altri analisti ritengono che le banche non vogliano legarsi troppo ai debiti sovrani degli Stati.
La Stampa intervista Roberto Nicastro, di Unicredit, che spiega che “la cosa importante è ripristinare le condizioni di liquidità per il tessuto produttivo, dando supporto alle imprese e alle famiglie”.

Virus letale

Su diverse prime pagine si racconta il “caso” del “virus letale che terrorizza la Casa Bianca” (La Stampa). Si tratta di uno studio su un virus, ulteriore evoluzione dell’H5N1, messo a punto in un laboratorio olandese, e che gli Usa temono possa diventare un’arma in mano ai terroristi. “Gli Usa censurano il super virus”, scrive il Corriere della Sera, spiegando che le autorità americane hanno invitato le riviste Science e Nature a non pubblicare troppi dettagli sullo studio, per evitare il rischio che siano utili a chi vuole costruire armi batteriologiche. La Stampa intervista il giurista Alan Dershowitz, celebre avvocato e docente ad Harvard, che spiega che il governo Usa “non aveva alternative, ma si tratta di una soluzione di breve periodo, perché in qualche modo le informazioni sul virus arriveranno sui blog e diventeranno di dominio collettivo, possibile preda di gruppi terroristici”. “Gli scienziati devono poter fare liberamente il proprio lavoro. Altra cosa è la diffusione dei loro studi, che invece chiama in causa la responsabilità collettiva dei direttori delle riviste. In questo caso è stata lasciata loro l’ultima parola, e hanno fatto la cosa giusta accettando la richiesta del governo”.
L’International Herald Tribune definisce “self-censorship” la richiesta ai direttori di Science e Nature,  e nella edizione online del quotidiano si può leggere una intervista integrale con il ricercatore Ron A.M. Fouchier, ricercatore olandese capofila della ricerca, che è stata presentata in un convegno a Malta lo scorso settembre. Secondo Fouchier i rischi di “bioterrorismo” sono piuttosto bassi, essendo difficile produrre il virus senza apparecchiature sofisticate: “Non puoi farlo nel tuo garage”, dice. E spiega anche che alcuni aspetti della ricerca possono essere resi noti senza particolari dettagli, ma altri richiedono specificazioni maggiori, per poter essere condivisi con la comunità scientifica.

Internazionale

Le Monde ha un intero inserto dedicato all’Iraq, all’indomani dell’uscita dal Paese degli ultimi soldati Usa: “questa partenza senza gloria, dopo nove anni di presenza militare, segna il più grande fiasco internazionale degli Usa degli ultimi trent’anni”. Con reportages dal Kurdistan ed una intervista all’antropologo Hosham Dawood, che denuncia la rinascita del ‘confessionalismo’ e l’incapacità degli americani di favorire la nascita di una società civile. E poi, la guerra d’Iraq vista dagli Usa: il problema del difficile reinserimento dei militari che laggiù hanno combattuto e l’approccio di Obama sullo sfondo delle presidenziali. La maggioranza degli americani ritiene che il proprio Paese sia riuscito a raggiungere globalmente i propri obiettivi; e quasi la metà considera giusta decisione di entrare in guerra.
L’International Herald tribune continua ad occuparsi delle crescenti tensioni in Iraq, dove il ‘power sharing’ incoraggiato dagli Usa per la composizione del governo, presieduto dallo sciita Al Maliki, rischia di saltare, dopo il mandato d’arresto spiccato qualche giorno fa nei confronti del vicepresidente sunnita al-Hashemi. Il quale al momento si trova in Kurdistan e, quindi, i curdi del presidente Barzani si trovano in difficoltà, dopo che il primo ministro ha loro intimato la consegna dell’accusato.
Il Corriere della Sera chiede all’islamologo francese Gilles Kepel un commento sulla situazione in Siria (negli ultimi tre giorni 250 morti, vittime delle truppe di Assad) e sulle ripercussioni e gli sviluppi delle tante “primavere” nella regione. Sulla Siria: “la maggioranza sunnita è determinata a rovesciare Bashar Assad. Però restano larghe minoranze, specie gli sciiti alawiti, i cristiani e buona parte della borghesia sunnita di Damasco e Aleppo, che non si fanno convincere”, “la rivoluzione deve dare garanzie” perché la Siria è “un Paese estremamente frazionato, diviso tra etnie e religioni”. Kepel sottolinea anche che qui l’esercito è composto quasi esclusivamente di alaeiti, fedeli ad Assad: manca un “esercito nazionale” come in Egitto. Paragona la Siria ai Balcani: campo di battaglia della guerra “sciito-sunnita con il coinvoligimento diretto di Iran, Iraq, Turchia, Israele, Libano, Arabia Saudita, Qatar, Giordania”. Molto interessante anche la lettura che Kepel dà della situazione in Egitto, della vittoria dei Fratelli Musulmani, dell’affermazione dei salafiti e della parallela sconfitta dei laici. Fratelli musulmani e salafiti insieme sfiorano il 70 per cento, ma bisogna smettere di guardare ai Fratelli musulmani (40 per cento) con le lenti dell’11 settembre, ammonisce Kepel: sono, al loro interno, “divisi” e “confusi”, al loro interno “c’è una nuova classe di Fratelli musulmani moderati, pragmatici, consapevoli del baratro economico in cui sta precipitando l’Egitto”, “non sono interessati alla legge islamica, piuttosto guardano ai meccanismi della crisi internazionale”.
In prima pagina su Le Monde la notizia che oggi l’Assemblea nazionale francese esaminerà una proposta di legge con cui diventerà reato negare o minimizzare i genocidi: la questione investe direttamente i rapporti Francia-Turchia, poiché potrebbe coinvolgere il genocidio armeno del 1915. Polemico Le Monde, che lega la questione alle prossime presidenziali: in ballo ci sono quasi cinquecentomila voti di armeni in Francia. Il quotidiano intervista il ministro degli Esteri turco Davutoglu: “Questa legge è un attacco alla nostra dignità nazionale”. E poi: “sono davvero sorpreso di vedere che il Paese dei Lumi proibisce una discussione intellettuale o punisce le opinioni”, “quando è stato insultato il profeta Maometto, alcuni europei hanno detto che si trattava di libertà di pensiero”.
Vaclav Havel: a ricordarlo è oggi sull’International Herlad Tribune Jeri Laber, tra i fondatori di Human Right Watch, che lo incontrò nel 1989, allorché fu arrestato a Praga insieme a 15 dissidenti cecoslovacchi. Tra loro c’era Havel. Che diceva: “Abbiamo bisogno di personalità politiche vere, che abbiano carisma ed un programma”. Laber: “perché non lei?”. Havel: “Sono uno scrittore, non un politico. Vorrei essere un kingmaker e non un re”.
Le pagine R2 de La Repubblica sono dedicate all’Europa: “quella identità condivisa che manca all’Unione”. Dedicato anche alle conseguenze del ‘no’ britannico ai nuovi trattati (Lucio Caracciolo). Con una riflessione di John Lloyd che spiega “tutti i dubbi di noi inglesi”: ovvero perché Londra da sempre veda il continente con distacco. E un’analisi dello storico Jacques Le Goff sulle radici medievali del dialogo fra le culture. L’Europa come grande spazio dove le diversità si sono progressivamente attenuate: un lungo processo che ha subito una fortissima accelerazione nel Medio Evo, anche grazie all’unificazione religiosa prodotta dal cristianesimo: l’identità europea si è delineata “anche grazie all’unificazione di due vasti insiemi, quello mediterraneo greco-romano e quello nordico dei celti, dei germani e degli slavi, all’epoca chiamati barbari”.

DA RASSEGNA ITALIANA, di Ada Pagliarulo e Paolo Martini