Appuntamento con il cinema di Novembre

Pubblicato il 14 Novembre 2011 in , da redazione grey-panthers

Faust (Regia: Aleksandr Sokurov; Nazione: Russia; Anno: 2011; Genere: Drammatico; Durata: 134′; Vincitore del Leone d’oro a Venezia 2011). Non è un adattamento della tragedia di Goethe nel senso tradizionale, ma una lettura di ciò che rimane tra le righe. Chi è il dottor Faust? Un uomo integerrimo dedito alle ricerche scientifiche, che per dominare la materia cerca di capire come funzioni il corpo umano analizzando e sezionando cadaveri, ma non riesce a trovare ciò che in realtà sta cercando: la prova dell’esistenza dell’anima. Il “Faust” è l’ultima parte della tetralogia sulla natura del potere di Sokurov, iniziata nel 1999 con “Moloch” e proseguita poi con “Taurus” e “Il sole”. Ciò che contraddistingue il “Faust” è il basarsi su un personaggio letterario, mentre le altre parti della tetralogia hanno protagonisti realmente esistiti (Hitler, Lenin e Hirohito). Lo accomuna invece alle prime tre la centralità del potere della parola, che si ascolta e alla quale si crede, ma dalla quale si viene traditi. Parole frenetiche, che si sovrappongono e stordiscono lo spettatore e che rendono forse il film difficile da metabolizzare. Una pellicola senz’altro da vedere, che va oltre la bellissima fotografia e le inquadrature perfette. E’ una riflessione sul comune destino umano, incostante e indeterminabile perché dominato dai piaceri e dalle tentazioni. Ed è anche una considerazione sul libero arbitrio, o meglio sulla sua assenza: l’uomo non è padrone delle proprie scelte, perché egli stesso ha ceduto la possibilità di scelta, per debolezza o per poca moralità.

(Per chi non avesse visto i primi tre episodi della tetralogia, segnaliamo che a Milano saranno proposti da Spazio Oberdan dal 23 al 27 novembre. Per il programma delle proiezioni, clicca qui).

This must be the place (Regia: Paolo Sorrentino; Nazione: Italia; Anno: 2011; Genere: Drammatico; Durata: 118′; Cast: Sean Penn, Frances McDormand, Tom Archdeacon, Shea Whigham, Seth Adkins). Un film che racconta con equilibrio ed efficacia un personaggio a rischio come quello interpretato da un bravo Sean Penn: Cheyenne, ebreo, cinquantenne, ex rock star di musica goth, rossetto rosso e cerone bianco, tendente alla depressione. La morte del padre, con il quale aveva da tempo interrotto i rapporti, lo riporta a New York. Qui Cheyenne decide di proseguire le ricerche del padre: quelle di un novantenne nazista tedesco probabilmente morto di vecchiaia. Cheyenne è un essere  estraneo ed estraniato rispetto ad ogni contesto, metafora chiarissima della fragilità di certi sentimenti e certi modi di essere. Da New York al Michigan al New Mexico allo Utah, This Must Be the Place è un vero road movie: viaggio alla scoperta di se stessi e degli altri, seguendo una crescita anagrafica mai accettata, perché Cheyenne è un uomo rimasto bambino, che ancora attende risposte, ancora sa incantarsi e vive in un mondo suo, in cui spazio e tempo sono differenti. La figura della rockstar tratteggiata da Sorrentino riesce a essere credibile, a portare con sé fragilità, dolcezza, sensibilità esacerbata. Unica pecca: una certa disomogeneità nella narrazione, che procede a balzi, assommando situazioni al limite, personaggi incontrati e abbandonati troppo in fretta, in un sovraccarico di scene e situazioni che non riescono sempre a risolversi.

Jane Eyre (Regia: Cary Fukunaga; Nazione: U.S.A.; Anno: 2011; Genere: Drammatico; Durata: 120′; Cast: Mia Wasikowska, Jamie Bell, Su Elliot, Holliday Grainger, Tamzin Merchant, Amelia Clarkson, Craig Roberts, Sally Hawkins, Lizzie Hopley, Jayne Wisener, Emily Haigh). Un nuovo adattamento cinematografico, dopo quello che forse ricordiamo meglio firmato da Franco Zeffirelli,  dell’intramontabile classico di Charlotte Bronte, che riesce nell’impresa di ridurre senza snaturare il romanzo, di restare fedele allo scritto mettendo in risalto soprattutto gli aspetti cupi e gotici della vicenda, guardando al di là del romanzo di formazione e della tormentata storia d’amore fra la giovane istitutrice Jane ed il tenebroso padrone di casa, il signor Rochester. Jane è una donna fragile e forte allo stesso tempo, appassionata e oscura, nell’Inghilterra del XIX secolo. A differenza dei predecessori, il regista sceglie di raccontare la storia narrata dalla Bronte senza seguire l’esatta cronologia degli eventi. Il film si apre dunque con Jane Eyre che, sconvolta, lascia l’isolata e lugubre dimora di Mr. Rochester e fugge nella brughiera. Poi, attraverso una serie di flash-back, si scoprono il passato e la sfortunata infanzia della protagonista, il suo arrivo a Thornfield Hall, e lo sbocciare del sentimento che la lega indissolubilmente al misterioso padrone di casa. Una pellicola elegante, che si appropria del romanzo ottocentesco rileggendolo attraverso uno sguardo contemporaneo, senza però tradirne lo spirito originale.

A simple life (Regia: Ann Hui; Cast: Andy Lau, Anthony Wong, Chapman To, Paul Chun, Deanie Ip, Wang Fuli, Qin Hailu; Genere: Drammatico; Durata 117’). Sono passati ormai sessant’anni da quando Chung Chun-Tao, detta Ah Tao, è entrata al servizio della famiglia Leung come governante. Un giorno viene ritrovata da Roger svenuta per terra a causa di un ictus. Fuori pericolo Ah Tao, non volendo essere un peso per Roger e sentendosi debole e inutile, decide di andare in pensione e vivere in un ospizio, ma le sue condizioni lentamente si aggravano. Non è una storia basata sull’esasperazione del dramma e sull’angoscia. È una storia semplice fatta di dignità e bontà, di attesa e accettazione dell’inevitabile. E’ un gioco di sguardi, di silenzi e di parole che mostrano il profondo affetto che lega Roger ed Ah Tao, come se il loro fosse un rapporto fra madre e figlio. Una pellicola lineare, realistica e delicata, toccante.