“Franca- Un’incompresa di successo”, di Patrizia Zappa Mulas

Pubblicato il 15 Luglio 2017 in , da redazione grey-panthers

Alla ricerca di un nome

È un pomeriggio di ottobre del 1947.

A Milano.

C’è una ragazza sul marciapiede di largo Cairoli davanti al Teatro Olimpia. Ha una giacchetta elegante e occhi scurissimi che esplorano la piazza in cerca di qualcosa. Si chiama Franca Norsa e ha un problema da risolvere. Sta per debuttare in una piccola parte nella commedia di Alfredo Testoni Il successo e l’amministratore di compagnia le ha dato una scadenza. Deve decidere entro un’ora quale nome far mettere sul manifesto dello spettacolo che sta per andare in tipografia. Non può usare quello di famiglia, suo padre è stato perentorio.

«Non sarà mai scritto il nome Norsa sul cartellone di un teatro.»

Luigi Norsa è preoccupato per la figlia e sta cercando di convincerla a non intraprendere la carriera dell’attrice. Ma Franca non ha dubbi su quello che vuole fare. Deve trovare un altro nome. Guarda il monumento equestre al centro della piazza, è l’eroe dei due mondi. Da lì può vedere solo la sua schiena e le chiappe del cavallo.

«Franca Garibaldi?» scandisce il nome calcando sulle erre con una voce squillante per sentire come suona. Scuote la testa: «Fa troppo Risorgimento». Alla sua destra il Castello Sforzesco è un solido gigante piantato nel terreno.

«Franca Sforza?» Ci pensa su e scuote ancora la testa. «Troppo Medioevo prebellico tipo alabarde… e poi, stellin, si sforza solo chi è decerebrato.»

È il suo gioco preferito fare quella voce. Far ridere gli amici, la sera. Che ormai glielo chiedono, si aspettano quel numero da lei. La signorina che straparla di stili storici nell’arredamento di casa. Franca ha una voce potente, intonatissima, e una pronuncia francese perfetta che scivola come un tappeto di biglie sulle erre di quella signorina molto snob. Le sue battute sono lampi di frivolezza dopo anni di fame, di freddo e di paura. Spirito critico in azione, vitalità che può finalmente liberarsi. Scintille di energia scaturite dalla fine della guerra. Già, anche la signorina snob avrebbe bisogno di un nome, pensa Franca. Chissà se ce l’avrà mai? Comunque deve trovarne uno subito. Per se stessa.

In quel momento Silvana Mauri svolta l’angolo di Foro Bonaparte. Le ragazze si abbracciano sotto quel cielo ancora tiepido. Silvana ha un libro in tasca, è una raccolta di poesie. «Che cosa leggi?» le domanda. «Paul Valéry.» Quello sì che è un bel nome. Forse perché si chiama Franca, o per il fascino che esercita

Parigi sul suo slancio di ragazza ebrea appena liberata dal fascismo, ma adora il suono della lingua francese. L’ha imparata da bambina dalle sorelle Alice e Berte Schmoll, che erano cugine di Dreyfus – quello del terribile caso – e venivano a casa per dare lezioni private ai piccoli Norsa. Da allora legge in francese tutto quello che può, e lo parla come una seconda lingua madre. In fondo anche la sua svampita di spirito è una milanese che occhieggia Parigi. È un prototipo. Non ha bisogno di un nome, basta quel titolo.

Signorina Snob. «A proposito di nomi,» dice Silvana «sapevi che Valéry era di origine italiana? Si chiamava Valeri.» Valeri? Che nome musicale. Con quel suono liquido, quell’accento equilibrato. È abbastanza comune da risultare sobrio. È stato usato da un poeta. Può portare fortuna. Perché no?

Mi chiamerò Franca Valeri.

Strani amori

Che cos’è uno sketch? La parola ci è talmente entrata nelle orecchie che la diamo per scontata. Nasce come “schizzo” in italiano, diventa schets in olandese e prende la sua forma attuale in inglese per indicare un numero di varietà o di spettacolo leggero. È così che siamo abituati a pensarlo, uno schizzo comico, una satira di costume, ma Franca ne fa un uso talmente personale che sarebbe un peccato ignorarlo. Anche il suo sketch è una scenetta comica, un pezzo breve che si chiude con una battuta d’effetto. Ma non è una barzelletta, non ci sono personaggi che si scambiano battute e un narratore che li racconta. Il barzellettista è come un burattinaio che muove i suoi pupazzi sulla scena restandone fuori. Franca in scena ci entra. Non è una voce che racconta una storiella ma un personaggio in azione. Franca usa lo sketch per dare voce a un personaggio. Anche in questo pezzo, che dirada ogni dubbio sulle ragioni della sua fortuna nella comunità omosessuale.

Poverino mio figlio, è un ragazzo d’oro. Lui la sua mamma e basta… Io glielo dico sempre, ma Ninni, sposati… Se non vuoi andar via di casa pazienza, ti do la mia stanza, ti metti lì con la tua sposina, e io mi sistemo in stanza da pranzo, sulle scale, dove capita… E lui, la mia mamma, la mia mamma. Una volta ha detto persino: Mamma! Sarai l’unica donna della mia vita… Povera stella quando penso a tutte quelle disgraziate in croce con quei figli che vanno sempre a donne, e anche delle poco di buono che poi magari gli tocca di sposarle, e allora addio mamma, chi ci pensa più. Il mio invece no, finché dura naturalmente, perché ha solo trentasette anni, ma per adesso donne niente… Amici sì, tanti e tutti ragazzi come si deve, mica robetta, artisti, militari, abitiamo vicino a una caserma, giovani e anche più vecchi, anche gli anziani gli vogliono bene, perché è un ragazzo serio. Stanno di là, chiacchierano, fanno magari un lavorino a maglia, sa com’è una persona anziana… hanno il loro hobby. E quando esce viene sempre a salutarmi. Mamma, hai bisogno di niente? Posso andare? Una sera ho sentito un suo amico che gli diceva: Come sei pallido… L’ho sentito perché ero nella stanza vicino, e allora quando è uscito, che è venuto a salutarmi, ho visto che si è messo un velo di rosa sulle guance, così non mi accorgevo che era pallido e non stavo in pensiero… E me lo invidiano questo ragazzo, se sapesse. Faccio un esempio, la mia portiera che è come un’amica, è lì da tanti anni, prima mandava sempre su suo figlio con la posta… un bel ragazzino… correva su per le scale… adesso che è cresciuto… un bel ragazzo… be’, non me lo manda più. Poveretta ha paura che si veda che suo figlio è meno bello del mio… L’orgoglio delle mamme! Se non fosse per mia figlia che quella lì tutti la vogliono e nessuno se la piglia… sarei proprio una mamma fortunata. Quello delle madri possessive è un filone importante della miniera da cui Franca estrae il suo teatro. In questo diamante di pregio dà voce a una genitrice piccolo-borghese per puntare la luce della sua torcia comica sulla relazione intensa che lega le madri ai figli omosessuali. E ai vantaggi per una madre di averne uno. Sono così evidenti che la sua cecità ci fa ridere, e nello stesso tempo illumina qualcosa che è sempre rimasto nell’ombra. Ma è proprio cecità? O è invece una forma calcarea di pudore? Franca non risponde, lascia aperta la questione. È quello che deve fare chi scrive buone commedie. Ed è quello che fa da sempre.

Franca è una pioniera del graffio umoristico e anticonvenzionale che caratterizza la cultura gay, non solo nazionale. Ed è un’osservatrice instancabile di tutte le debolezze e le abiezioni umane, che esamina nelle loro sfaccettature, ne coglie il lato ridicolo e lo smaschera mettendolo in maschera. Ci vuole una buona dose d’ironia per riuscirci, e uno sguardo completamente libero da pregiudizi. E chi meglio di lei sa raccontare con leggerezza e disinvoltura le forme più strane dell’amore? Quei legami che debordano dal vaso morale della famiglia media etero con prole, e si stringono in modo potente e misterioso nel fondo più profondo della psiche.

In un’Italia mammona e conformista Franca affronta con sfacciata delicatezza i risvolti inconfessati di quegli strani amori che hanno bisogno di nascondersi dietro la corazza protettiva del buon senso.

Entra in scena la Signorina Snob

Due anni dopo aver trovato il suo nome in largo Cairoli, Franca trova anche la sua strada. È l’autunno del 1949 e sta progettando uno spettacolo con Vittorio Caprioli, Luciano Salce e Alberto Bonucci. Si è già formato il quartetto che diventerà il Teatro dei Gobbi. Anche quello tra Franca e Vittorio è uno strano amore, un sodalizio artistico e un’intesa tra fuoriclasse che mescola l’affetto alla complicità. Il loro è un amore intriso di amicizia, un legame che si alimenta di teatro e non esclude gli amici. I compagni di scena che diventano una famiglia.

Nell’autunno di quell’anno Vittorio decide di tentare la fortuna a Parigi solo con Alberto e Luciano, senza tirarsi dietro Franca. Tre maschi hanno più possibilità di trovare occasioni, se sono soli. Vittorio vuole avere mano libera nella capitale francese, forse anche divertirsi. E per farsi perdonare da Franca la defezione le cerca un lavoro. Conosce un funzionario Rai che cura la programmazione della radio nella sede di Milano e gliela presenta. Nell’ufficio dove sono ricevuti Vittorio non risparmia le lodi al talento della fidanzata. Franca non dice una parola, il funzionario la osserva e alla fine le fa firmare un contratto. Registrerà pezzi d’intrattenimento per il programma settimanale Zig-Zag.

Alberto, Luciano e Vittorio montano su un treno per Parigi e Franca comincia a registrare gli sketch della Signorina Snob con quel tono squillante e la erre moscia. Sono pezzi molto diversi dalla tradizione delle scenette comiche italiane. Franca non ha una spalla che le dà la battuta e che le serve a scaricare la sua. Nei suoi sketch è sempre sola e parla con qualcuno che non sentiamo ma che prende corpo attraverso le risposte che Franca gli dà. È quasi sempre all’altro capo di una linea telefonica e ci pare di ascoltare cosa le dice tra una pausa e l’altra del suo assolo. Franca la sua spalla ce l’ha in testa, se la crea da sé. Alla fine del 1949 esordisce alla radio nazionale. E nel giro di due settimane arriva la celebrità.

Pronto… ciao stellin, come va? …no, non posso, colaziono con mio fratello… ma gioia lo vedo già così poco che lo considero quasi un cugino… a proposito di parentele vuoi ridere… ieri sera vien su il Pierone, che sai ormai abita sotto di noi, e si parlava di una cosa e dell’altra tipo molto confidential, lui era molto giù e mi racconta tra le altre cose che ha il terrore dell’acqua, ti dico terrorizzato solo a parlarne. Ora tu lo conosci, è sempre talmente bello, roseo, lindo pulitino a posto, che lavarsi si lava… bene ho scoperto, si lava a secco… ti giuro se ci stai attenta sotto il profumo si sente la trielina… stasera no stellin, ho la Scala e neanche alle cinque perché ho il cocktail… ma come non sai, è tornato il Ciprianino dal Brasile! Cos’è quel ragazzo d’inverecondo, ha lasciato giù la genitrice madre, ha portato un serpente, no non scherzo, il serpentone Anselmo. È un cobra, di mezza età, devo dire una bestia divina, intelligente… guarda la televisione, vede e come. Non sente per sua fortuna… Domani mattina? Domani mattina no, ho il funerale del Marchesone… è andato, sì, sciao pazienza… ma vieni anche tu, gli fai piacere… noi ci mettiamo molto casual per non affliggerlo troppo, trovo più simpatico… senti ti prego finiscila… ti giuro che devo andare… ho il cane sotto la lampada al quarzo!La chiave del successo della Signorina Snob è l’alternanza rapidissima di osservazioni acute e demenza riccona, di esprit e ottusità, di escursioni internazionali e provincialismo. Sono passaggi da montagne russe da un lampo d’intelligenza a un abisso d’idiozia. È l’acume di quella Signorina a sedurci, è la sua stolidità mondana a scatenare la risata.

Franca sceglie il nom de plume Valeri come omaggio personale a un poeta francese ma si esprime in quella lingua anche la buona società milanese dove cresce e concepisce quella Signorina, che ne è un campione deforme. E anche se la Signorina Snob infarcisce di parole americane la sua spregiudicatezza, potrebbe essere benissimo una discendente degradata delle grandi dame che hanno fatto scintillare la Francia nel Settecento. Quando gli sketch della Signorina Snob diventano i suoi diari e sono pubblicati l’anno dopo in un libro, prende luce la fonte da cui Franca li attinge. Sono le correspondances di quelle signore geniali che hanno descritto nelle loro lettere la Parigi della corte monarchica nei suoi dettagli più delicati. Franca s’innamora di quegli epistolari e ne ricava la Signorina Snob, che rispetto alle sue antenate di lusso non ha perso nessun privilegio ma ha perso tutto il resto, una vera nobiltà e un vero buon gusto, per ritrovarsi inutilmente brillante in un’Italia provinciale tra scadenti comparse d’alta classe.

La Signorina Snob nasce come uno schizzo satirico di Franca e diventa il suo primo ritratto pubblico. In quegli sketch sono già evidenti le caratteristiche del suo stile futuro, quella presa di distanza da qualcosa che conosce dall’interno e che la irrita, insieme a una vigilanza implacabile contro ciò che c’è di caduco nella comicità: i suoi personaggi non sono mai un’imitazione o una parodia ma sempre un’invenzione. Nell’inverno tra il 1949 e il 1950 da quel microfono Franca si schiera di slancio contro ogni retorica, perfino quella della morte. E trastullandosi con i vezzi della mondanità infila dritta il dito in una piaghetta italiana, l’idiozia della sua high class squillante e ’gnuranta. Sta sparando a zero contro qualcosa che conosce bene, la propria classe sociale, gergo e deformazioni mentali compresi. Questa ragazza colta della borghesia milanese sembra sapere meglio di una figlia d’arte che si possono dire le cose più tremende solo a condizione di dirle bene, col ritmo e il tono giusto. Le registrazioni che i ripetitori della radio diffondono nell’etere in quei mesi e raggiungono le cucine e i salotti degli italiani sono microcommedie radiofoniche. Ma hanno un tono molto diverso dalle altre commedie, un tono nuovo e squillante. Sono pezzi suonati con le parole.

Ogni volta che leggo uno sketch di Franca mi colpiscono due cose: la prima è che non c’è neanche un a capo, la seconda sono tutti quei puntini di sospensione. La tecnica di una scrittura disegna l’intenzione di un pensiero, in questo caso di un ritmo. Uno sketch di Franca non è pensato per essere letto ma eseguito e ascoltato, come uno spartito musicale. È anche un microconcerto.

Per voce sola.

Un palco della Scala

Molto prima di chiamarsi Franca Valeri, Franca è stata una bambina appassionata di opere liriche. Appassionata nel senso ambiguo della parola “passione”, un’attrazione irresistibile ma anche una sofferenza. «Il melodramma è l’unica cosa al mondo che mi fa piangere sempre» dice Franca. Solo Verdi, Rossini, Bellini e Donizetti riescono a farle versare molte lacrime.

Tutto comincia nel 1926, quando Franca ha sei anni e un amico della famiglia Norsa la conduce per la prima volta alla Scala. È Paolo Buzzi, un poeta futurista che è un funzionario della Provincia e per questo ha sempre a sua disposizione il palco in prima fila del grande teatro milanese. Quello che sta sospeso sopra la buca dell’orchestra come un terrazzino da cui si può ammirare la platea illuminata dalle signore eleganti prima che cominci lo spettacolo. Ma soprattutto quel luogo straordinario dove si vedono da vicino gli orchestrali che accordano gli strumenti e, quando si spegne il gigantesco lampadario della platea, la porticina che si apre e il direttore d’orchestra che sbuca fuori per raggiungere il podio e cominciare l’ouverture. Da quel palco si coglie dall’alto, come dalla finestra su una corte, il momento di silenzio teso in cui i musicisti appoggiano gli oboi e i flauti alle labbra, i violini e le viole alla spalla e gli archetti si sollevano per scattare tutti insieme sul primo accordo. E quella sera nella penombra della mezza sala Franca è inondata da un effluvio di suoni su cui le sembra quasi di galleggiare.

Quando finisce l’introduzione musicale, si spengono le applique a candela di tutti gli ordini dei palchi, il teatro sprofonda nel buio di un sogno e Franca sente sulla faccia il vento dell’immenso sipario che si spalanca. Dall’oscurità affiora una visione, la scenografia del primo atto con il primo piazzato di luci. Franca vede i cantanti entrare dalle quinte che da quel palco sono quasi a vista e fermarsi lì, così vicino a lei, con le facce truccate, le parrucche e tutti i dettagli dei costumi in evidenza. Quello è il luogo più prossimo alla scena che sia concesso a uno spettatore, un osservatorio privilegiato dove la musica arriva corposa, vibrante di legni, di ottoni e metalli percossi. Dove si può vedere tutto, compreso il colore dei tacchi delle scarpe del coro. Dove ci si sente proiettati in palcoscenico e sembra di stare accanto al soprano, davanti al baritono e al tenore.

Quella sera alla Scala si dà Il trovatore e cantano Bianca Scacciati e Francesco Merli. Franca non conosce la trama di quell’opera, che è la più complicata dei capolavori di Verdi. E non sa seguirla sul libretto che le ha dato Paolo Buzzi quando sono entrati nel foyer. Ma vede dipanarsi scena dopo scena il miracolo di un’illusione concreta. E, sotto di lei, le lucette accese sugli spartiti e gli orchestrali che sfogliano le pagine, i gesti misteriosi del direttore che dà gli attacchi e governa i suoni. Da quel palco sta penetrando il segreto di una cerimonia incantevole.

Franca non capisce una parola del Trovatore eppure ne riceve un’impressione enorme. Ha scoperto che esiste un luogo reale dove la musica, le luci e i costumi possono creare un miracolo per i sensi che supera tutto quello che ha conosciuto finora. E quando torna a casa si mette subito a disegnare le scene dello spettacolo.

Franca continua a frequentare quel palco della Scala insieme al suo amico adulto. E Paolo Buzzi continua a farle da guida in quelli che saranno i suoi interessi fatali. Esegue al pianoforte per lei le arie delle grandi opere, le racconta la trama di ogni melodramma. E ogni volta che tornano in quel palco, le insegna come riconoscere sul libretto le parole pronunciate negli acuti potenti dei cantanti. La inizia alla conoscenza del teatro e non solo di quello musicale. È lui a portarla a vedere uno spettacolo di Ettore Petrolini, che Franca bambina ricorda come un signore straordinariamente elegante. Ma è suo padre Luigi Norsa a regalarle i dischi di quel fuoriclasse della comicità surreale, oltre alle registrazioni della Quinta e della Settima sinfonia di Beethoven dirette da Arturo Toscanini. Sono dischi che la bambina ascolta e riascolta infinite volte, senza annoiarsi mai.

Franca ha un fratello maggiore che si chiama Giulio e una madre che si chiama Cecilia ed è molto attenta all’educazione dei figli. Quando è annunciata nel 1929 l’ultima rappresentazione alla Scala di Toscanini che sta per trasferirsi negli Stati Uniti, la signora Cecilia sa che non avranno più occasione di vederlo dirigere e decide di non farli mancare a quello spettacolo. Franca è al settimo cielo, indossa il magnifico vestito col fiocco che suo padre le ha portato da Parigi e assiste piena di tremore all’esecuzione dell’Aida. In quel momento la sua piccola storia di bambina s’intreccia per la prima volta a quella grande del suo paese. Il maestro Toscanini se ne va da un’Italia fascista che è diventata invivibile per lui e nella quale lei, figlia di un ingegnere ebreo, si prepara a crescere.

Sono passati molti anni da quel giorno, una guerra mondiale, un dopoguerra euforico e una lunga ricostruzione. Franca è diventata Franca Valeri alla radio, in teatro, sugli schermi del cinema e della televisione. Ma continua ad ascoltare Verdi e non dimentica la sua prima passione.

Si dice che il talento sia la capacità di fare cose difficili come se fossero facili. E forse si potrebbe aggiungere che è la facoltà di intuire le regole di un’arte senza averle studiate, come se si sapessero già. Franca ha passato tante ore felici in quel palco della Scala ad assorbire il teatro, a divertirsi, a metabolizzarlo. E forse anche per questo è stata fin dal suo esordio un’innovatrice dalle basi solidissime.

Se Franca ha ricevuto da Petrolini la prima indicazione di che cosa sia la satira colta e un modo di recitare esilarante e insieme critico, è stato il melodramma italiano a esercitare il suo orecchio al ritmo, alla sintesi, all’azione vocale. A creare il suo canto in prosa, le arie dei suoi personaggi, i recitativi in levare, i controtempi delle sue battute a sorpresa.

Un giorno siamo in tournée a Brescia e arriva nei camerini una parente di Benedetti Michelangeli. Non conosce Franca di persona e si presenta con una certa timidezza, ma la abbraccia come un’amica di famiglia e le riferisce una frase del grande maestro come un regalo che le deve, un messaggio che le porta dall’aldilà dei musicisti indimenticabili. Arturo Benedetti Michelangeli stava insegnando ai suoi allievi l’importanza delle pause nell’esecuzione al pianoforte, quando uno di loro gli domanda dove potrebbe studiarle. Senza pensarci su il maestro gli risponde di ascoltare con la massima attenzione gli sketch di Franca Valeri.

Il racconto continua…

Franca- Un’incompresa di successo

di Patrizia Zappa Mulas

Franca Valeri la conoscono tutti, è stata la più longeva, brillante e amata attrice nazionale. Ma chi sia davvero Franca non lo sa quasi nessuno. La Franca – con l’articolo, alla milanese – la conosce un po’ solo chi ha fatto parte in qualche modo della sua vita.
Patrizia Zappa Mulas, attrice e amica di Franca Valeri, disegna un arco completo dell’avventura di un’artista e di una donna, sul palco e dietro le quinte. Uno sguardo acuto e partecipe su una donna dai molti talenti, figura indimenticabile del panorama culturale. Un’icona popolare amata e intramontabile, che figura a buon diritto tra i grandi della comicità internazionale. Sullo sfondo, l’Italia che è cresciuta, invecchiata e rinata guardando i suoi film.
Un libro scritto con la complicità della protagonista, che emerge da queste pagine in tutto il suo fascino e la straordinaria capacità di interpretare la vita alla luce di un’ironia a volte lieve, altre decisamente sarcastica. Non una biografia, ma un suo appassionato ritratto, arricchito da un racconto inedito di Franca Valeri, l’ultimo che ha scritto.

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