Per i Talebani un passato di guerriglia e ora il passaggio dalle montagne al Ministero

Pubblicato il 25 Agosto 2021 in

Chi sono i talebani?

Originariamente radicato nelle aree rurali della provincia meridionale di Kandahar, il movimento talebano nasce in un Afghanistan sconvolto dai disordini seguiti al ritiro delle forze sovietiche, nel 1989. L’allora esercito sovietico era stato sconfitto da combattenti islamici noti come mujahiddin, sostenuti dal governo degli Stati Uniti contro Mosca. Dopo il ritiro sovietico, il Paese – fondato su un complesso mosaico etnico – cadde in mano ai signori della guerra e in un brutale conflitto civile. Nel 1996, i talebani dichiararono la nascita dell’Emirato islamico, imponendo la Sharia e una serie di punizioni corporali, tra cui fustigazioni, amputazioni ed esecuzioni di massa. Sotto la loro autorità il ruolo delle donne – costrette a indossare il burqa – fu drasticamente ridotto e gli fu proibito l’accesso all’istruzione. Nel 2001 i Talebani conquistarono gli onori della cronaca internazionale distruggendo due imponenti statue, i Grandi Buddha di Bamiyan, considerate ‘blasfeme’ in base a un’interpretazione radicale del Corano che vietava ogni altra forma di credo religioso. Dopo l’invasione Usa e la sconfitta dell’Emirato, in seguito agli attacchi dell’11 Settembre, i talebani si sono riorganizzati e con il sostegno di attori regionali primo fra tutti il Pakistan, hanno ripreso la strategia di guerriglia contro le istituzioni sostenute dalla coalizione internazionale. Sono seguiti 20 anni di guerra armata e di posizione. Per i talebani la scommessa era chiara: alla fine gli Stati Uniti se ne sarebbero andati. Avevano ragione. Più di 250mila morti, 2.400 vittime americane e 2mila miliardi di dollari dopo, gli Usa e la Nato hanno lasciato il paese in cambio di promesse e generiche garanzie contenute negli accordi di Doha del febbraio 2020.

 

 

Una minaccia che ritorna?

Quell’accordo, che già allora appariva vulnerabile, alla luce degli ultimi eventi sembra segnare l’inizio del tracollo. “Oggi i sostenitori di Al Qaeda stanno celebrando”, osserva Peter Newman, docente di studi sulla Sicurezza al King’s College. Sui social e nelle chat “si vede già il vento del successo soffiare tra le vele del movimento jihadista globale”. Quello che arriva dall’Afghanistan, spiega, è un messaggio chiaro: “è una vittoria sull’America. Combattenti che scendono dalle montagne per sconfiggere gli Stati Uniti. Molti gruppi si appoggeranno su questa narrazione per costruire la loro propaganda: se i talebani possono farlo, puoi farlo anche tu”. Ma se in molti – soprattutto a Washington – sono certi che i talebani riprenderanno il loro sostegno ai gruppi terroristici, altri non sono poi così sicuri: “Di certo avere un amico dei terroristi, come lo sono stati i talebani, al governo di un Paese non è una buona cosa – osserva John Sawers, ex capo dell’MI6 – Ma anche loro avranno imparato alcune lezioni negli ultimi 20 anni”. La domanda è sempre quanto controllo abbia la leadership negoziale a Doha sui combattenti, afferma, dal momento che tradizionalmente “nelle guerre civili, quelli sul campo di battaglia hanno più potere di quelli che siedono negli hotel a cinque stelle”.

Dalle montagne ai ministeri?

Le prime linee talebane, in effetti, ne hanno di successi da rivendicare: appena nove giorni dopo aver preso la prima capitale provinciale, sono entrati a Kabul e hanno ripreso il controllo dell’Afghanistan. Ma mentre il mondo – stupefatto dalla velocità con cui esercito e governo si sono dissolti – cerca di capire se l’Afghanistan tornerà a costituire una minacciaquello che più sembra stargli a cuore è allontanare da sé l’immagine di contadini rozzi, allevati nei campi profughi del vicino Pakistan, con una mano sulla spada e l’altra sul Corano. Parole, gesti e scelte dei vertici politici e addetti alla comunicazione del movimento trasudano pacatezza. Si sono ripresi il potere senza spargimenti di sangue e assicurano che per le strade del paese non si registrano più violenze: un’incredibile freccia all’arco della propaganda che, però, quando si vira al futuro e allo Stato di cui saranno leader diventa più vaga e confusa. Nei loro appelli si rivolgono al popolo afghano, ma è soprattutto alla comunità internazionale che parlano, mostrando la loro faccia più presentabile e assicurando che dal loro territorio non arriverà nessuna minaccia. Sanno che solo dall’esterno potrà arrivare quel riconoscimento a cui ambiscono. Il destino dell’Afghanistan è nelle loro mani: il leader supremo del movimento, Haibatullah Akhundzada, il suo leader politico, Abdul Ghani Baradar e molti altri comandanti che hanno condotto le operazioni sul campo. Se l’inserimento dei combattenti nelle forze armate non è più considerato troppo problematico dal momento che l’esercito afghano si è disintegrato, altri sono i nodi da affrontare. Con i beni del governo congelati, una valuta locale in caduta libera e il capo della banca centrale scomparso, è difficile immaginare di restare al potere se non potranno pagare gli stipendi. Ora si tratta di passare dalle montagne ai ministeri, occupando le sedi amministrative locali e nazionali, e di prendere in mano le redini di una nazione di 39 milioni di persone.

  Il commento di Giuliano Battiston, contributor ISPI e giornalista

“Nel corso di questi venti anni, dal rovesciamento del loro Emirato nel 2001, i Talebani oltre a combattere hanno imparato l’arte della diplomazia. Così, vincendo anche diverse resistenze interne al movimento, la leadership della Rabhari Shura è riuscita a consolidare rapporti diplomatici e finanziari con attori regionali come Mosca, Pechino, Teheran, oltre a quelli di vecchia data con Islamabad. Si tratta di rapporti particolarmente utili in questa fase: i Talebani sfrutteranno le divisioni all’interno della comunità internazionale, approfittando del pragmatismo degli attori regionali per i quali la vera preoccupazione non sono i diritti dei cittadini e delle cittadine afghane, ma la stabilità del Paese e i rischi potenziali per la propria sicurezza nazionale. Anche alle capitali regionali i Talebani dovranno però dimostrare di sapersi trasformare da forza armata di opposizione in partito politico governativo e istituzionale”.

 

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