La questione afghana e l’importanza degli altri attori: Cina, Russia, Pakistan e Iran

Pubblicato il 25 Agosto 2021 in Letture Ideas

Mentre le truppe statunitensi e della Coalizione internazionale (Isaf) continuano l’evacuazione a ritmi serrati dall’Afghanistan, non tutti i Paesi stranieri presenti nel nuovo Emirato islamico si accalcano verso l’uscita. Dopo aver accolto con stupore – in alcuni casi malcelata soddisfazione in chiave anti-Usa – la repentina vittoria dei miliziani islamisti, le potenze regionali valutano, ciascuna secondo i propri interessi, le strategie da adottare mentre il Paese passa sotto il controllo di un nuovo regime. Così, dopo Cina, Russia e Turchia, anche l’Iran ha annunciato l’intenzione di mantenere aperta la propria ambasciata a Kabul e si propone come interlocutore delle prossime istituzioni, non appena ce ne saranno.

Certo l’Afghanistan ha una posizione strategica in Asia Centrale e il suo sottosuolo custodisce giacimenti minerari per un valore stimato che supera i mille miliardi di dollari, ma rimane uno dei Paesi più poveri al mondo, con un’economia che dipende per l’80% dagli aiuti internazionali. Inoltre, sotto il controllo dei talebani, il rischio che Kabul torni a essere epicentro di instabilità regionale e globale, alimentando il terrorismo e galvanizzando l’insorgenza jihadista è tutt’altro che remoto. Vicini di casa e attori regionali stanno alla finestra: tutto o quasi, nei futuri rapporti con l’Afghanistan dei Talebani – appetiti commerciali, sfruttamento delle risorse minerarie e dei giacimenti di terre rare, relazioni strategiche e possibili alleanze politiche – dipenderanno in larga misura dalla stabilizzazione di un paese devasto da 40 anni di guerra.

La Cina “si aspetta un trasferimento regolare del potere”

La Cina rispetta il diritto del popolo afghano di determinare in modo indipendente il proprio destino e futuro, ed è disposta a continuare a sviluppare relazioni amichevoli e di cooperazione”le prime parole di Pechino sul cambio di regime in Afghanistan sono affidate alla portavoce del ministero degli Esteri Hua Chunying. In conferenza stampa Chunying ha affermato che Pechino si aspetta un trasferimento regolare del potere e ha chiesto ai talebani – con cui il ministro degli Esteri Wang Yi si è incontrato appena un mese fa – di contenere la criminalità e il terrorismo. Nella caduta di Kabul la Cina coglie delle opportunità, certo, ma vede anche possibili problemi all’orizzonte: la disfatta americana rappresenta un vantaggio, soprattutto in termini di retorica e propaganda. I media di Stato cinesi in questi giorni hanno criticato con enfasi il fallimento del progetto di esportazione della democrazia made in Usa e accusato Washington “di saper solo distruggere e non costruire”. Il Global Times, organo di propaganda del partito popolare cinese si è spinto oltre, con un articolo dal titolo significativo: “L’abbandono afghano degli Usa, una lezione per Taiwan”. Ma le preoccupazioni cinesi riguardo l’Afghanistan sono soprattutto di sicurezza: Pechino condivide un confine di 76 chilometri con l’Afghanistan (il corridoio del Wakhan) e farà di tutto per evitare che diventi un sostegno per i separatisti uiguri di minoranza islamica nella delicata regione di frontiera dello Xinjiang. In cambio, è pronta a offrire ai talebani il riconoscimento internazionale cui ambiscono e a sostenere la ricostruzione e lo sviluppo dell’Afghanistan coinvolgendo il Paese nella Belt and Road Initiative, con investimenti e progetti.

 

 

Russia: un approccio pragmatico

“Vi garantisco che i talebani prenderanno il potere a Kabul entro settembre” sosteneva una fonte diplomatica anonima russa al Financial Times, lo scorso 22 luglio. “Ma non hanno idea di come governare: sono fermi al 13° secolo, sarà un disastro”. Se a Mosca i campanelli d’allarme sulla situazione afghana erano suonati prima che a Washington, anche la Russia, come la Cina, propenderà per un approccio “pragmatico” in chiave anti-terrorismo, con il nuovo esecutivo di Kabul. Con l’Afghanistan Mosca non condivide frontiere, ma è la continuità territoriale del nuovo Emirato islamico con Tajikistan, Uzbekistan e Turkmenistan a preoccupare. Per questo, alla luce del disimpegno americano, i funzionari russi hanno adottato un duplice approccio: aprire al dialogo con i futuri leader del Paese, moltiplicando al contempo le esercitazioni militari con le ex repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale, a maggioranza musulmana, lungo il confine afghano. Il ministero degli Esteri Sergei Lavrov ha detto che la Russia non si affretterà a riconoscere un governo talebano, e ha chiesto un dialogo nazionale inclusivo che includa tutte le forze politiche per stabilire un governo di transizione. “Se la Russia è preoccupata? Sì, naturalmente – osserva Fyodor Lukyanov, presidente del Consiglio russo per la politica estera e di difesa – negli anni ’90 quando i talebani hanno preso il controllo di Kabul, hanno determinato una serie di effetti a cascata distruttivi sui paesi vicini”. Il timore è che capiti di nuovo e, peggio, che l’ideologia estremista salita al potere con i talebani possa fuoriuscire dall’Afghanistan e contagiare paesi partner e governi ‘amici’.

Pakistan e India: vincitori e vinti?

Dopo aver smentito per anni qualsiasi forma di supporto ai talebani, il governo del Pakistan ha accolto con esultanza la notizia della loro entrata a Kabul. Poche ore dopo il premier Imran Khan ha twittato: “il popolo afghano ha finalmente rotto le catene della schiavitù”. Il Pakistan è generalmente considerato il vincitore della partita afghana. Difficilmente senza il sostegno  dell’establishment militare e dell’intelligence pakistana, i talebani sarebbero riusciti a resistere a 20 anni di occupazione americana e a marciare trionfalmente per le strade di Kabul. Resta da vedere quanto questi ultimi gli mostreranno riconoscenza, ma di certo il governo di Islamabad non lo stava facendo per loro. La strategia pakistana di sostegno ai talebani risponde a due obiettivi: allontana il pericolo di un’alleanza tra l’Afghanistan e l’India, nemica dei talebani in seguito al loro sostegno nella rivolta islamista del Kashmir. E assicura a Islamabad che i talebani non appoggino la ribellione islamista pashtun all’interno del Pakistan. Oggi, il progetto pakistano spiegato sulle colonne del Time prevede che in cambio della loro rinuncia a sostenere il terrorismo, una coalizione internazionale sostenga i talebani consentendogli, con investimenti e riconoscimento, di restare alla guida del Paese. Della coalizione, oltre a Russia e Cina, con cui Islamabad ha stretto solidi rapporti, dovrebbe far parte anche l’Iran, a cui i talebani avrebbero promesso di rispettare i diritti dei fedeli sciiti in Afghanistan.

Per anni gli Stati Uniti si sono opposti contro l’unica cosa che avrebbe, forse, cambiato le sorti del conflitto, afghano: sanzionare coloro che nel deep state pakistano sponsorizzano i militanti islamisti. “Gli Stati Uniti sono rimasti convinti che il Pakistan fosse troppo pericoloso da sanzionare, troppo pericoloso da punire, troppo pericoloso da ritenere responsabile” osserva C. Christine Fair sulle colonne di Foreign Policy. Gli esperti statunitensi hanno temuto che il Pakistan potesse implodere, fornendo armi nucleari ai terroristi o provocare un’escalation e forse una guerra nucleare con l’India. Che però oggi, al pari dell’Europa, si trova a dover fronteggiare un nuovo nemico. Lo ha detto senza mezzi termini il portavoce dei talebani Suhail Shaheen a luglio: “Abbiamo relazioni politiche con Russia, Iran e Cina non da uno o due, ma da molti anni. L’India si è schierata con un governo insediato dagli stranieri. Loro non sono con noi”.

Il commento di Alessia Amighini, ISPI Co-Head Asia Centre

“La Cina sta seguendo un approccio estremamente pragmatico rispetto ai recenti fatti in Afghanistan.  Pechino teme sempre qualunque instabilità nei Paesi limitrofi, e in questo caso teme che i Talebani possano portare un rafforzamento delle minoranze musulmane degli Uiguri. La sicurezza prevale sugli aspetti economici (ancora sono troppo incerti i benefici economici della Cina nel Paese) e geopolitici (per ora la retorica cinese del disengagement statunitense in Asia non regge, soprattutto con riferimento a Taiwan)”.

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