Sciopero dei poligrafici: gran parte dei quotidiani solo in edizione online

Pubblicato il 13 Dicembre 2011 in da redazione grey-panthers

Oggi sono in sciopero i poligrafici, e gran parte dei quotidiani esce solo nelle edizioni online. Vi proponiamo quindi un rassegna italiana integrata con la stampa internazionale.

Il Manifesto esce in edicola, e dedica il titolo di apertura al giovane operaio morto ieri sotto un palco che stava allestendo per un concerto: “Fine spettacolo. Un operaio ventenne, studente e lavoratore, muore schiacciato sotto la struttura che avrebbe dovuto ospitare il concerto di Jovanotti a Trieste. Sette i feriti. Il cantante sotto choc: ‘tragedia che toglie il fiato’. Serata annullata e tour sospeso”. Valentino Parlato, sulla prima pagina (“Costretti a non scioperare”) spiega perché oggi il quotidiano comunista è in edicola. Costretti perché la situazione economica del quotidiano non è allegra, e i tagli all’editoria preannunciati nella manovra rendono difficile la sopravvivenza di molte testate come Il Manifesto.

Il sito de La Stampa “apre” con le novità annunciate sulle pensioni e sulle liberalizzazioni. Le modifiche riguardano la perequazione all’inflazione, che salterebbe solo oltre 2 volte il minimo, e anche la tassa sulla casa, una Imu “ammorbidita” in relazione a redditi e carichi familiari, le Province e forse i tagli ai parlamentari. La manovra inizierà il suo percorso domani in Aula alla Camera, mentre oggi pomeriggio alle 15 30 il Presidente del Consiglio Monti sarà ascoltato dalle Commissioni Bilancio e Finanze. Il quotidiano riferisce anche della “battuta d’arresto per le liberalizzazioni”, perché le restrizioni alla concorrenza verranno abrogate solo dal 31 dicembre 2012. Un anno di respiro per taxisti.

Il Giornale, che è in edicola, apre con il titolo “L’elemosina di Monti”, e spiega: “Ritoccata la riforma delle pensioni, un contentino per i sindacati”.
Europa, oggi in edicola, titola: “Cambiata la manovra, il Pd passa su casa e pensioni. Lo sciopero prova di unità dei sindacati. Oggi alla camera il giorno delle modifiche. Camusso, dura critica a Monti. Bersani: ‘Ma non è un governo di destra’”.
Su Libero, oggi in edicola, si preannuncia una “stangata bis” per i prossimi mesi: “L’Istat non diffonde i dati preliminari sul Pil per ‘carità di patria’. Pare che i dati siano in caduta verticale: se è vero, ci aspetta un altro salasso da almeno 20 miliardi in primavera”.

Il Quotidiano Nazionale, che è in edicola, offre oggi una intervista a Giorgio Cremaschi, della Fiom Cgil. La concertazione ”e’ ormai un’illusione e infatti Monti ha preso a schiaffoni i segretari di Cgil, Cisl e Uil. Schiaffoni ‘sobri’,  ma sempre schiaffoni. Ora bisogna fare sul serio”, cioe’ ”fare come in Grecia”. La manovra per Cremaschi “‘va fermata”.
E’ in edicola anche Il Manifesto, ed offre oggi una intervista a Stefano Fassina, responsabile economia del Pd. ”Questa manovra non ha ragioni economiche ma squisitamente politiche” e serve a Monti per ”recuperare un qualche potere di riorientare la linea economica definita dalla Germania per l’area euro.

Il Corriere della Sera dà invece spazio alle parole di Umberto Bossi, che ieri, a margine di un convegno a Milano, si è espresso in termini fortemente critici nei confronti di Berlusconi. “Adesso l’asse con Berlusconi non c’e, ognuno a casa sua. Berlusconi sta con i comunisti in questo governo, questi non sono tempi di alleanze”. E ha poi aggiunto che il suo incontro con il Cavaliere, annunciato dall’ex premier e poi sfumato, “è stato sospeso, perchè non sono i tempi per farlo, sono tempi per aspettare”.
Bossi ha anche profetizzato che il governo “lo ha messo in piedi il Presidente della Repubblica che dovrà prendersi la responsabilità di aver sciolto un governo legittimamente eletto. Questo commissario di origine europea e bancaria ha fatto un governo dei banchieri”. Bossi ha anche preannunciato che se crollerà l’Euro  non tornerà la lira, e che “la Padania si farà la sua moneta, mica può continuare a mantenere tutti questi farabutti”.
Su Il Giornale si legge che “Bossi corteggia Tremonti”, e che sul “tavolo di Berlusconi” c’è “il rebus della Lega”.

Gran Bretagna 

Financial Times: “Cameron veto opens rift in Uk coalition”, ovvero: il veto di Cameron apre una spaccatura nella coalizione del Regno Unito. La spaccatura è con i LibDem, alleati di governo dei Conservatori e non contenti dell’atteggiamento del premier al vertice europeo. Cameron ha difeso ieri il veto opposto da Londra, e lo ha fatto davanti ai Comuni, spiegando – come ricorda il Ft – di aver difeso in questo modo l’interesse nazionale.
Sullo stesso quotidiano un commento di Dominque Moisi, secondo cui con il suo no David Cameron rafforza l’alleanza tra Parigi e Berlino, ma soprattutto “condanna una concezione dell’Europa ampiamente condivisa dai britannici ad essere guidata da una coppia tra non pari, ovvero Francia e Germania, nella quale c’è chiaramente meno Francia e più Germania”, ma è la Gran Bretagna ad aver bisogno dell’Europa, per pesare in Europa. L’assenza della City di Londra dalla nuova costruzione europea indebolisce la posizione europea molto più di quanto la sua presenza l’avrebbe danneggiata. Secondo Moisi è uno strano caso di “united we stand, divided we fall”.

In prima pagina sull’International Herald Tribune, i resoconti della seduta alla House of Commons, nel corso della quale Cameron ha illustrato la sua decisione. Membri dell’opposizione laburista gridavano insistentemente: Where is Clegg?”, riferendosi all’assenza del viceprimoministro, il LiberalDemocratico partner dei Tories, che ha duramente criticato il veto britannico sulle nuove regole dell’Europa. Cameron si è difeso: “La Gran Bretagna rimane un membro a pieno titolo della Unione Europea e gli eventi dell’ultima settimana non cambiano le cose”, “la nostra membership nella Ue è vitale per il nostro interesse nazionale”. “Siamo una nazione commerciale, e abbiamo bisogno del mercato unico per il commercio, gli investimenti e il lavoro”.

In una analisi della situazione britannica su Europa, si spiega che per quanto le parole di Clegg siano state pesantissime (il veto trasforma la Gran Bretegna in un “pigmeo”), nella coalizione l’idea di far cadere il governo su un tema come l’Europa non piace proprio a nessuno. Se si andasse al voto i LibDem faticherebbero addirittura a tornare in Parlamento, e per i conservatori riconquistare la maggioranza sarebbe una lotteria.

Il quotidiano dà poi conto del Question Time, nel corso del quale il capo dell’opposizione laburista Miliband è tornato ad incalzare Cameron sul veto all’accordo europeo, rifiutando ogni compromesso – ha detto – la Gran Bretagna ha perso l’opportunità di incidere sui negoziati, rinunciando ad esempio ad insistere per una Bce che agisca come prestatore di ultima istanza oppure su una riforma complessiva dei regolamenti del settore finanziario.

Iraq, Medio Oriente, primavera araba. 

Il Presidente Obama ha ieri incontrato, in Virginia, il Primo Ministro iracheno Nouri Al Maliki ed ha salutato l’emergenza dell’Iraq come una nazione “sovrana” “indipendente e democratica”, riconoscendo l’altissimo costo in termini di vite umane e di risorse tanto per gli iracheni che per gli americani e i loro alleati. “Dopo quasi nove anni, la nostra guerra in Iraq finisce questo mese”, ha detto Obama. L’International Herald Tribune sottolinea che, pur essendosi opposto a questa guerra ed avendo insistito per una piattaforma di ritiro, Obama ha sposato una tesi che coloro che erano favorevoli alla stessa guerra, avevano sostenuto: ovvero, che avrebbe creato un modello di democrazia in una Regione dove è raro che la democrazia si sviluppi. Obama ha detto: l’Iraq “può essere un modello per altri Paesi che aspirano a costruire la democrazia”. E’ stata anche una occasione, per Obama, di parlare della situazione in Siria, della violenta repressione in corso da parte del regime di Assad: il Presidente Assad ha perso una opportunità per riformare il suo governo, scegliendo la repressione, ha detto Obama. Per parte sua, il premier iracheno Maliki, pur sottolineando che l’Iraq sostiene “le aspirazioni del popolo siriano”, ha ribadito di non avere il diritto “di chiedere ad un Presidente di abdicare”. E non ha sostenuto l’ipotesi di sanzioni.
Su Le Monde le cifre sulle vittime della repressione in Siria, rese pubbliche dall’Alto commissario ai diritti dell’Uomo dell’Onu Navy Pillay: probabilmente più di 5000 persone sono state uccise. La Pillay ha presentato questo bilancio al Consiglio di Sicurezza Onu. Più di 14 mila persone sarebbero state arrestate, 12.400 sarebbero fuggite dal Paese, e citando fonti “degne di fede” la Pillay ha affermato anche che più di 300 minorenni sono stati uccisi dalle Forze siriane. Fra questi, 56 soltanto nel mese di novembre. Le scuole sono state utilizzate come centri di detenzione. Ciò nonostante nel Consiglio di sicurezza restano le divisioni su un eventuale capitolo sanzioni, malgrado l’insistenza di Francia, Gran Bretagna e Germania.
In Tunisia, racconta Le Monde, è stato eletto presidente della Repubblica Moncef Marzouki, oppositore storico del regime di Ben Ali. Lo ha eletto la nuova assemblea costituente. A 66 anni, il leader del Congresso per la Repubblica (CPR, sinistra nazionalista) è stato eletto con 153 voti a favore, 3 contrari e 44 schede bianche, su un totale di 202 votanti (su 217 membri della Costituente). Il quotidiano francese lo ricorda come un fervente difensore dei diritti dell’uomo, noto per la sua intransigenza e per la sua eloquenza, ma sottolinea anche che è stato criticato per la sua alleanza con gli islamisti. Si è infatti riavvicinato al movimento islamista Ennahda sulla questione della identità arabo-musulmana, che ha più volte richiamato durante la campagna elettorale. Qualche mese prima dello scrutinio, fustigava “la vecchia sinistra laicista e francofona, totalmente sconnessa dai veri problemi della società tunisina”. A chi lo accusava di esser venuto a patti con il diavolo, per ottenere la poltrona presidenziale, ha risposto: “Non bisogna prendere Ennahda per i talebani della Tunisia, si tratta comunque di una frazione moderata dell’islamismo”. Ed ha aggiunto che vi sono delle “linee rosse” sulle quali non era disponibile a transigere: “le libertà pubbliche, i diritti dell’uomo, i diritti della donna e del bambino”. Un altro articolo di Le Monde sottolinea come ora in Tunisia al potere vi sia un trio, composto da oppositori ostinati: è la loro rivincita, poiché si tratta di “un esiliato di sinistra”, come Marzouki, diventato presidente della Repubblica; di un islamista condannato a morte, e imprigionato per più di 16 anni, Hamadi Jebali, diventato capo del governo; e di un oppositore interno, socialdemocratico, che ha vissuto privato del passaporto, Mustapha Ben Jafar, presidente dell’Assemblea Costituente.

E poi

Sull’International Herald Tribune, Mark Kramer, direttore del programma di Studi sulla Guerra Fredda ad Harvard, ricorda che esattamente 30 anni fa la resistenza polacca del movimento Solidarnosc fu schiacciata con l’introduzione della legge marziale. All’incirca 10 milioni di persone, quasi la metà della popolazione adulta polacca, si unirono a Solidarnosc. Il partito comunista polacco tentò, senza successo, di impedire la formazione di Solidarnosc, che aveva le sue radici nelle rivolte dei lavoratori del dicembre 1970, ma che emerse nell’estate degli anni 80. Ma Kramer sottolinea che Solidarnosc fu comunque incapace di rovesciare il comunismo, e che questo è stato possibile solo a causa di mutamenti fondamentali nella politica estera dell’Urss, verificatisi solo con Gorbaciov.
Sul Wall Street Journal si racconta invece di come la Polonia abbia deciso di venire in aiuto ai nuovi protagonisti della primavera araba, condividendo, attraverso la Scuola nazionale della Pubblica Amministrazione, le “istruzioni” per la transizione alla democrazia apprese negli anni dell’uscita dal comunismo. “Riteniamo di essere un buon esempio”, ha detto il ministro polacco degli affari esteri, Sikorky. E Nadra Drije, ambasciatrice tunisina a Varsavia, ha affermato che “l’esperienza della trasformazione democratica polacca del 1989 è molto utile per la Tunisia”. In maggio, Sikorsky è stato il più importante leader occidentale a visitare la base dei ribelli antiGheddafi a Bengasi. Il Wall Street Journal sottolinea che finora la maggior parte degli sforzi per la promozione della democrazia si erano diretti verso gli Stati dell’epoca post-sovietica, come la Bielorussia, guidata dall’autorità del presidente Lukashenko, diventando un rifugio per dissidenti di Minsk e per le loro radio e tv.
Sulla stessa pagina degli editoriali, una analisi del professor Charles Gati si occupa della Ungheria del primo ministro Orban: il suo partito cristiano di destra e nazionalista ne ha fatto un Paese che si è allontanato dalla democrazia occidentale. Con la nuova Costituzione ha ridotto i poteri della Corte Costituzionale, è possibile ormai rovesciare le decisioni del Parlamento nel caso in cui il governo perda la sua maggioranza. La nuova legge sui media non è soltanto restrittiva, ma riaccende l’istinto all’autocensura dei giornalisti. Priva di un sistema di checks and balances, la nuova legge costituzionale fa sì che l’Ungheria non sia più una western-style democracy. E’ una democrazia illiberale o governata, nel senso che tutte le decisioni importanti sono prese da Orban. Tuttavia, se i negoziati con l’FMI e l’Ue non vanno a buon fine, l’Ungheria non sarà capace di pagare i propri debiti nella prossima primavera. Ed e’ quindi probabile che vi sia un ammorbidimento delle posizioni del primo ministro Orban.
Sulla prima pagina del Financial Times e dell’International Herald Tribune, le foto del miliardario russo Prokhorov, che ha deciso di candidarsi alle prossime presidenziali, previste per il marzo del 2012. Dal Moscow Times, le parole del futuro candidato: “probabilmente ho preso la più seria decisione della mia vita”. E si ricorda che Prokhorov si era messo alla guida del partito Russia Giusta, da cui era stato fatto fuori con una manovra che lui stesso ha attribuito al Cremlino. Il Financial Times guarda con sospetto alla decisione del miliardario, considerandola una possibile risposta del Cremlino stesso al dissenso che oggi agita le strade russe: un modo per dare una idea finta di pluralismo. Delle manifestazioni in corso in Russia, all’indomani della denuncia dei brogli per le elezioni alla Duma, si occupa ampiamente Il Foglio. L’ideologo di Putin, per definire quei manifestanti, li ha indicati come “i ceti urbani insoddisfatti”. Intellighencjia moscovita, che non ha un partito, che in gran parte non è andata a votare.
Su Europa, l’analisi della situazione in Russia è affidata al professor Vittorio Strada, secondo cui “Putin è pronto a rilanciare”, e si tratta di manifestazioni di una minoranza.

DA RASSEGNA ITALIANA, di Ada Pagliarulo e Paolo Martini