Maggio a Trecastagni – Catania -, per la festa di S. Alfio

Pubblicato il 17 Aprile 2009 in , da Vitalba Paesano

Migliaia di pellegrini, come ogni anno, rendono omaggio al santo protettore della cittadina etnea. Una settimana di fede e mito, tra devozione e spettacolo

Al cospetto dei Santi la gente di Sicilia rivela tutto il suo carattere, intriso di fede e drammaticità. Non fa eccezione la notte tra il 9 e il 10 maggio, quando alle falde dell’Etna i pellegrini rendono omaggio a Sant’Alfio e ai suoi fratelli Filadelfio e Cirino, protettori di Trecastagni.

 

I “tres casti agni”, tre casti agnelli, tre giusti e puri di cuore nati in Puglia nel III secolo dopo Cristo, educati secondo i precetti del Cristianesimo e, in tempo di persecuzioni, arrestati e mandati a Roma per essere giudicati. Martirizzati e processati a Lentini, furono uccisi dai Romani per non aver voluto rinnegare la loro religione.

Per onorarli, con rito solenne, i fedeli arrivano a piccoli gruppi, quasi alla spicciolata, dalla chiesa madre dei paesi sparsi alle pendici del vulcano: Catania, Giarre, Bronte, Maletto, Randazzo, Sant’Agata li Battiati, Gravina, San Giovanni la Punta, Linguaglossa, Sant’Alfio.

A quasi seicento metri d’altitudine ogni anno si celebra l’evento che esprime un misto di anelito religioso e rispetto della tradizione. Qui, come a Militello nel Catanese e a Lentini nel Siracusano, il palcoscenico è la strada. Un dedalo di strade che i “nuri”, a gruppi di decine, percorrono correndo al grido “Viva li matrhi santi!” (viva i santi martiri) seguito dalla risposta corale “Santi Matrhi!” (santi martiri) “E gghiamamulu, ca na rispunni!” “Chi semu tutti mutiì?” (chiamamolo che ci risponde, siamo tutti zitti?) in una gara di acclamazioni che esprimono lo scioglimento di un voto fatto ai tre fratelli.

Nuri, uomini nudi in segno di penitenza: così si presentavano in passato, nudi, a imitazione del Santo venerato, fino a quando i parroci locali hanno deciso di coprirli con mutandoni e camicie bianche.

Con una fascia rossa che attraversa il petto, gli uomini, e a volte anche le donne, portano sulle spalle ceri gialli ornati di un nastro rosso, piccoli o giganti, che arrivano a pesare sessanta, ottanta chili, a seconda della promessa fatta. Persone che hanno deciso di sciogliere un voto per una grazia ricevuta e manifestano in questo modo la loro gratitudine al Santo dal passato costellato di miracoli. Dove oggi sorge il paese di Sant’Alfio è avvenuto il primo prodigio dei tre santi fratelli, che un turbine improvviso liberò dal pericolo di un’enorme trave.

E di fronte a secoli di miracoli i fedeli sono pronti a portare quel pesante fardello fino al santuario, percorrendo decine di chilometri. La grande fatica segna i volti sorretti dallo slancio della fede.

Giungono nel cuore della notte e si fermano alle porte di Trecastagni: accendono il cero, lo ricaricano sulle spalle e avanzano. Di tanto in tanto, esausti per la fatica, si concedono una sosta per riprendere fiato, rinfrancati da un sorso di vino.

Giunti di corsa alla meta, all’ingresso della Chiesa, con la voce squarciata dalla commozione, gridano “Cà sugnu Sant’Affiu! (sono qui Sant’Alfio!) Grazii Sant’Affiu! (Grazie Sant’Alfio!). Si rivolgono a lui, che è considerato dalla tradizione popolare il più potente dei tre fratelli. Sudati e stanchi, con i piedi sanguinanti per le piaghe, si dirigono verso l’altare e, nel silenzioso rispetto dei presenti, si raccolgono in preghiera. Le donne, con i capelli sciolti in segno di penitenza, gridano il nome del Santo protettore che raramente si nega: “Faccitimilla sta razia, Sant’Affiu! (fatemi questa grazia, Sant’Alfio!).

Dai volti traspare speranza, sorpresa, sofferenza, fiducia. L’attenzione è distratta dai suoni e dalle grida, mentre in una calca frenetica i fedeli esprimono la loro riconoscenza: bisbigli di ringraziamento si alzano tra lamenti sommessi e invocazioni festose.

Superata la notte, la folla di devoti si prepara alla celebrazione della prima Messa. Genitori in paziente attesa lasciano che i fanciulli vengano benedetti al cospetto delle statue dei santi. È l’inizio della festa che colora le vie e le piazze della cittadina etnea. Una lunga processione sulle note di tamburelli, flauti e scacciapensieri accompagna la parata di carretti trainati da cavalli coi pennacchi. Bande e orchestrine suonano musica tradizionale sfilando tra variopinte bancarelle. Odori e sapori si mischiano nell’aria, intrisa di profumate trecce d’aglio, tradizionale rimedio contro malattie e malocchio. Chi riesce a ritagliarsi uno spazio tra i banchi dei venditori scopre falci, cappelli di paglia e quantità di merce dai colori che rimandano all’estate. E come in ogni festa che si rispetti, si incontrano personaggi curiosi che vendono dolci richiami della terra come ceci tostati, torroni, zucchero filato.

Si avvicina la notte e con il buio le strade, strette e tortuose, si accendono di luci colorate; gli acquisti lasciano il posto ai palchi per la musica e a giochi pirotecnici.

Sono immagini che si ripetono da quattro secoli in una settimana di rituali e attirano ogni anno quasi 250mila visitatori. La festa si chiude tra i canti sostenuti dal buon vino dell’Etna: è la calata di mbriachi verso Catania.

In un crogiolo di fede e di mito, si intrecciano devozione e spettacolo. Luoghi immersi in un ovattato silenzio per il resto dell’anno, improvvisamente si trasformano riempiendosi di folla vociante. In un angolo di Sicilia dove il paesaggio cambia completamente al passaggio di un tornante, la festa si ripete puntualmente allo stesso giorno, alla stessa ora.

“…in questa scenografia onirica o surreale, in questo ‘gran teatro del mundo’, ecco che esplode il più necessario, il più vero, il più elementare e il più barocco degli spettacoli: la festa religiosa”. Parole di Vincenzo Consolo, lo scrittore di Sant’Agata di Militello che ha dedicato una vita alla storia di Sicilia.