The Big Easy: mangiare a New Orleans e vagabondare nel Bayou

Pubblicato il 8 Aprile 2019 in , , da stefia

New Orleans, o come la chiamano gli Americani: The Big Easy. Perchè “easy”, facile? Non si sa.  Forse perchè qui i prezzi sono inferiori al resto dell’America, e dunque è più semplice vivere, forse perchè  qui è più facile che  altrove comprare alcolici.  Forse perchè qui la vita è più allegra.  Sta di fatto che New Orleans è una delle città che più amo.  Non dimenticherò mai la prima volta che ci sono andata.  Correva l’anno 1994, vivevo a Los Angeles  e fui mandata per un mese in giro per l’America alla ricerca di materiali per un Cd-rom sulla storia dell’emigrazione italiana in America, anzi nel mondo.  Arrivai a New Orleans alla fine di luglio.  Ora questo non è esattamente il momento migliore per visitare la città.  C’erano 40 gradi all’ombra e il 95% di umidità.  L’aria era bagnata, sembrava che piovesse, bastavano pochi secondi in strada per ritrovarsi zuppa come un pulcino, quasi non riuscivo a respirare e quando entravo nei ristoranti, in albergo, in qualsivoglia locale, l’aria condizionata, come sempre accade in America, mi ghiacciava le vene.  Un miracolo che non mi sia presa un malanno.

D’altro canto i prezzi, essendo quella considerata bassissima stagione, erano ridicoli e soprattutto la città non era invasa, come accade nel resto dell’anno, da turisti americani ubriachi, più che altro donne, che arrivate lì bevono come spugne e poi si aggirano per le strade del Vieux Carrè (il Quartiere Francese) strillando e mostrando agli inorriditi passanti tette bianchicce e ipertrofiche.

Io quella città l’ho amata subito, nonostante l’afa.  Ho amato la musica che usciva da ogni dove, le sue vecchie ville coloniali, i suoi giardini, le strade del French Quarter con i suoi balconi di ferro battuto che tanto mi ricordavano i paesi siciliani ( e infatti ho poi scoperto che a costruire il vecchio quartiere furono proprio gli Italiani, in massima parte siciliani, lì giunti nella seconda metà dell”800 e che originariamente lo avevano chiamato Little Palermo).

Ho amato il suo fiume, Old Man River, il Mississipi, che scivola lento e ampio, quasi un mare, accanto alla città.  Ho amato la sua atmosfera magica e inquietante, i cimiteri dove ogni tomba mostra segni recenti di riti voodoo.  Perchè New Orleans ha anche risvolti inquietanti e misteriosi, crocevia di diverse culture, la creola, la francese, la cajun, la spagnola.

Ma soprattutto ho amato il suo cibo.  Vibrante, sensuale, colorato, piccante e profumato, il meglio che l’America possa offrire.  Nei giorni lì trascorsi non ho fatto altro che mangiare, non riuscivo proprio a smettere e ho scoperto piatti esotici che mi hanno conquistata per sempre: jambalaya, una specie di speziata paella, i gamberi, le saporitissime ostriche, il gumbo, una zuppa ricchissima di carne, riso, verdure, il cat fish, il pesce gatto, fritto e insaporito con una salsa al limone, i bignè ricoperti di zucchero finissimo.  Una gioia per gli occhi, per il palato, per l’anima.  A New Orleans dopo quella prima volta sono tornata ancora.  Due anni fa ci ho portato mio marito che non la conosceva, ansiosa di fargli amare la città del mio stesso assoluto amore, di fargli assaggiare quel cibo che mi aveva rapita.

Poi abbiamo affittato una macchina e siamo andati in giro per la Louisiana, uno stato affascinante e pieno di contraddizioni, uno dei più poveri d’America.  Una terra di baracche di legno sperse nel “bayou”, la terra di acque e canali formati dall’immenso delta del Mississipi, la regione dove vivono i cajun, un popolo di origine francese che ancora parla una sorta di antico dialetto francofono, che ha suoi riti, abitudini, musica, cibo.  Abbiamo navigato i bayou e visto aironi, coccodrilli, tartarughe, avvoltoi, giardini ricchi di fiori e piante esotiche, siamo stati a Avery Island, un posto che ho sempre desiderato visitare, l’isola dove si fa il tabasco, scoprendo che ciò che arriva da noi è solo una versione edulcorata rispetto a quello piccantissimo che si acquista lì e di cui ho fatto incetta.

E abbiamo  visitato le incredibili piantagioni che costeggiano l’arginedel fiume, vere e proprie regge doveti aspetti che da ogni stanza spunti Rossella O’ Hara e dove ancora risuonano le grida e le sofferenze degli schiavi neri.  La Louisiana è una terra di fantasmi, ce ne sono ovunque, ogni piantagione ha il suo, anche questo fa parte del suo misterioso fascino.  Ma soprattutto abbiamo mangiato, mangiato, mangiato, senza mai smettere.  Siamo tornati in Italia molto più grassi, ma felici  e quando mi prende la nostalgia mi chiudo in cucina e preparo jambalaya, gumbo, maque choux e gamberi piccantissimi.

La mia preferita è la jambalaya, si dice che  la parola  jambalaya venga  dal francese  jambon o dallo spagnolo  jamon, prosciutto, che  in effetti e’ uno  degli ingredienti  principe  di questo piatto, insieme  a quella che gli abitanti  della Louisiana  chiamano la  “Santa Trinita’”, cipolle, peperoni e sedano.  E comunque  la jambalaya assomiglia  molto alla  paella  spagnola. In una grande  padella  di ghisa faccio soffriggere  nell’olio per  circa 10 minuti,  la cipolla, il sedano, l’aglio, il peperone a listarelle  e il timo.  Poi aggiungo qualche salsiccia e prosciutto crudo tagliato a pezzi un po’ grossi. Adesso, sempre mescolando, verso sempre il tabasco,  il peperoncino, l’alloro, il prezzemolo, i  chiodi  di garofano e il riso.  Salo,  aggiungo il pepe  e faccio cuocere  per circa 5  minuti.  Ora incorporo il brodo, mescolo, copro  e abbasso la fiamma.  Faccio cuocere  a fuoco bassissimo per una trentina  di minuti finche’ il riso sara’ cotto.  A questo punto  aggiungo una manciata  i gamberi e faccio cuocere  per altri 5, 6 minuti.  Spengo, faccio riposare  qualche istante  e servo ben  caldo. Per gentilezza avverto i miei ospiti di fare attenzione, il piatto infatti è piccantissimo, se volete non mettete il tabasco ma non sapete cosa perdete!