Spazio ai Talenti

Pubblicato il 29 Dicembre 2012 in , da redazione grey-panthers

Servono competenze nuove, altrimenti si accentuerà la fuga dei giovani all’estero.
Voi cosa ne pensate?

Noto che il numero delle visite ai nostri articoli è molto interessante, ma lo è decisamente meno il livello di partecipazione ad un dibattito, che permetterebbe di approfondire certe tematiche che vi riguardano da vicino.

Monti: “Perché i giovani manager fuggono”

PARLA L’AMMINISTRATORE DELEGATO DEL BOSTON CONSULTING GROUP ITALIA: “IL MOTIVO È LA GOVERNANCE DELL’IMPRESA, DOVE C’È UN ANZIANO, MAGARI LO STESSO CHE HA FONDATO L’AZIENDA 20 O 30 ANNI PRIMA, O C’È SUO FIGLIO. IN ENTRAMBI CASI IL DIRIGENTE SENTE SCHIACCIATO

di Adriano Bonafede

Lo leggo dopo

Milano «Purtroppo oggi i giovani manager se ne vogliono andare dal-l’Italia. I quarantenni si stanno guardando in giro. I trentenni, poi, sono letteralmente in fuga. Inutile negarlo, è in atto un processo di deindustrializzazione che si accompagna anche a una demanagerializzazione». Riccardo Monti di manager ne sa più di qualcosa. È l’ad della filiale italiana di The Boston Consulting Group, una delle principali società di consulenza del mondo. E, come tale, lui e il suo staff affiancano quotidianamente il management di molte aziende nello studio e nella ricerca delle strategie vincenti. Ingegner Monti, perché i giovani manager se ne vanno? «Lo fanno semplicemente perché vogliono avere una chance di crescere». Perché in Italia non pensano di avere questa stessa chance? «Il discorso è lungo e complesso. La crisi del management è in qualche modo la crisi dell’azienda. Il motivo è la governance dell’impresa. Qui i casi sono due: o c’è un anziano, magari lo stesso che ha fondato l’impresa 20 o 30 anni prima, o c’è suo figlio. In entrambe le eventualità il manager si sente schiacciato: per questo i più giovani, appena comprendono questa verità, preferiscono emigrare per cercare altrove le chance di crescita». E ci riescono? «Sì, ci riescono. Perché in Italia i talenti ci sono. Abbiamo ottime scuole di management, tra cui la Bocconi, da cui sono emersi in questi anni

molti personaggi di primo piano. Penso a Diego Piacentini, numero due di Amazon. Penso ad Alberto Cribiore, che è stato ceo mondo di Merril Lynch, Lorenzo Simonelli, ceo di General Electric Transportation, Vittorio Colao, ceo di Vodafone. E consideriamo che anche l’economista Nouriel Roubini ha fatto la Bocconi». Ma se tanti giovani dirigenti se ne vogliono andare, che succederà alle nostre imprese? «Lei ha toccato un tasto dolente. I giovani manager che se ne vogliono andare sono la manifestazione di un problema più serio, più profondo: la deindustrializzazione. E guardi che non si tratta solo di giovani in cerca di buone occasioni. Guardiamo la cosa al contrario: quanti sono i manager stranieri presenti nelle nostre imprese?». Quanti sono? Ce lo dica. «Sono pochi: se prendiamo le trenta principali società quotate italiane i membri esecutivi stranieri dei cda sono circa il 3%. Se invece prendiamo le trenta principali società quotate francesi, siamo al 21%. A Carrefour due degli ultimi tre ceo non erano francesi, e sappiamo quanto i francesi siano nazionalisti. Inoltre, in Italia, se guardiamo alle aziende quotate, scopriamo che tra presidente e ceo almeno il 40 per cento è un familiare». Insomma, il male dell’Italia è l’incapacità del proprietario di allontanarsi dalla sua creatura, o, peggio ancora, di evitare di mettere il figlio al suo posto? «Sì, se il figlio non è all’altezza, soprattutto in un momento difficile come questo, sarebbe meglio se non facesse l’amministratore delegato. Guardi, non è che io non comprenda la difficoltà del passaggio: è naturale che un padre veda il proprio figlio come l’erede naturale dell’impresa, ma va detto che nella maggior parte dei casi il figlio non ha, da vari punti di vista, le stesse capacità del padre». Quale sarebbe la soluzione? «E’ implicita in quel che ho già detto. Il proprietario deve staccarsi dalla propria creatura e cercare un talento esterno. Guardi quello che ha fatto Warren Buffett: ha donato a ciascuna delle due fondazioni di beneficienza gestite dai figli 2,1 miliardi di dollari ma a capo dell’azienda si prepara a scegliere un manager di talento come suo successore». Immagino che il problema in Italia sia ancora più acuto per la presenza di un tessuto produttivo fatto di tante piccole e medie imprese. «Altroché. Direi che in questo caso la resistenza al cambiamento e alla managerializzazione dell’impresa vengono anche da altri fattori, oltre a quelli che abbiamo già visto». Quali sono? «Ad esempio, la mancata volontà del fondatore di crescere consolidando i concorrenti. Si vuole mantenere a ogni costo il 100 per cento della propria azienda perché così si può mettere al comando il proprio figlio. E poi ci sono anche altri motivi, meno nobili…». Ci dica. «Nel dna delle piccole medie imprese del dopoguerra c’è la tendenza a non investire la liquidità nella crescita dell’azienda. Assumere un manager, fare fusioni con altri creando società più grandi costringerebbero gli imprenditori ad una gestione meno ‘privata’ delle risorse aziendali. Ecco perché le imprese italiane fanno così fatica a crescere, a internazionalizzarsi. Se l’azienda fosse guidata da un manager, questi avrebbe interesse a farla crescere, a fare fusioni, ad andare in Borsa. Ma c’è di più». Che cosa? «L’imprenditore solitario di un’impresa italiana, che magari è nata e cresciuta grazie a una geniale intuizione, non si rende conto che i tempi sono cambiati, che servono competenze nuove». Quali? «Oggi qualsiasi nuovo prodotto si fa in team. La complessità è tale che servono competenze, know how, conoscenza delle geografie, delle culture. L’imprenditore italiano pensa invece sempre di saperla più lunga degli altri, ma la verità è che quei tempi sono finiti. Occorre un’organizzazione che ruoti attorno a un manager capace di lavorare in squadra e di crearsi una sua prima linea di manager. Purtroppo nelle scuole e nelle università italiane si insegna molto raramente a lavorare in squadra». Ingegner Monti, la sua è un’analisi impietosa, che ha anche pochi spunti d’ottimismo. Che bisognerebbe fare? «C’è la necessità di cambiare la testa alla gente, che non è cosa che si fa in un anno o due. Chissà, ci vorrà un lustro, forse due, non ho idea». E nel frattempo? «Nel frattempo i nostri giovani talenti se ne vanno all’estero, purtroppo. Speriamo che possano rientrare, forti di esperienze internazionali, quando il Paese avrà recuperato competitività e capacità di offrire un futuro ai manager di qualità».
Da Repubblica Affari e Finanza

(29 ottobre 2012)