La fabbrica delle idee: Luciano Gallino sulla fabbrica Olivetti

Pubblicato il 14 Giugno 2012 in , da redazione grey-panthers

Ad essere in crisi in Italia oggi è soprattutto la cultura del lavoro così come la intendeva Adriano Olivetti. E il lavoro sembra aver perso valore anche tra gli stessi lavoratori. L’analisi di Luciano Gallino.  L’eredità tradita di Adriano Olivetti, dice Luciano Gallino, è ciò che ha fatto del nostro paese il vecchio legno alla deriva su cui stiamo galleggiando tutti da ormai troppo tempo. L’industria italiana ha perso la rotta, e non senza colpe: il dissesto dell’economia, la crisi, nascono soprattutto da lì. Galliano è stato al fianco di Olivetti nell’ultima fase della vita dell’ingegnere di Ivrea, a studiare il lavoro e i lavoratori, a elaborare idee e metodi per rendere ancora migliore, ogni giorno di più, la sua fabbrica. Oggi, a ottantacinque anni, il sociologo torinese continua ad occuparsi di lavoro con la forza dell’esperienza e la lungimiranza delle menti acute. E non si ferma mai, Gallino, dirige riviste e centri studio, scrive, viaggia per convegni a raccontare il suo pensiero. La sua analisi della situazione del mondo industriale italiano è impietosa e tranchant: probabilmente è già troppo tardi, ma le cose cambino comunque al più presto.
A essere in crisi in Italia, in realtà, oggi è innanzitutto la cultura del lavoro, inteso come fatto sociale in grado di fornire valore aggiunto alle collettività e agli individui. Un male che ha radici profonde, dice il professore: «C’è stato un evidente regresso nella politica e nelle scienze sociali, la sociologia su tutte. Negli anni Sessanta e Settanta, dopo la fine dell’impresa olivettiana, si studiavano ancora i problemi del lavoro, mossi dal bisogno di migliorarne la qualità e di superarne l’organizzazione scientifica. Tutto ciò è scomparso nel lessico e nella pratica della politica e delle scienze sociali. Una grande svolta si è avuta nel 1989, con la caduta del Muro: molti hanno pensato che occuparsi di lavoro, di operai e di classi sociali significasse mantenere legami forti con quel brutto esperimento che era stato il socialismo reale, e hanno tagliato ogni riferimento».
Ma il lavoro sembra aver perso valore anche tra gli stessi lavoratori. Sempre meno, al di là della crisi occupazionale, è riconosciuto come strumento principale di affermazione sociale. In Italia, come nel grosso del resto del mondo occidentale, si sta facendo strada in maniera crescente l’idea che sia preferibile percorrere altre vie per imporsi nella società. Il guadagno facile, su tutte: stiamo diventando un popolo di speculatori, scommettitori, giocatori d’azzardo.
Si tratta del risultato degradato dell’ideologia neoliberale, fondata sulla priorità del calcolo in ogni attività umana. Secondo quest’ideologia qualunque aspetto dell’organizzazione sociale – la famiglia, l’istruzione, il lavoro – può basarsi sul calcolo. A forza di insistere su tale concetto si è arrivati al punto che sempre più gente è tentata dal voler saltare direttamente alla lotteria, al casinò, alla vincita senza impegno. C’è una grande stretta tra predominanza del calcolo e quest’aspetto.
Con il suo Centro on line per la Storia e la Cultura dell’industria è molto impegnato a promuovere la cultura e la memoria del lavoro nelle scuole piemontesi. Come recepiscono, i ragazzi, un tema così ostico?
Queste iniziative stanno avendo un notevole successo. I ragazzi stanno reagendo con grande interesse, e c’è una spiegazione precisa: noi gli parliamo della storia dell’industria in Piemonte, e in particolare, scuola per scuola, gli proponiamo la storia dell’industria nel loro quartiere, nella loro circoscrizione. Questo li stimola molto: l’idea che in quelle stesse strade e in quelle stesse case cinquanta o cento anni fa c’erano uomini e donne che faticavano e lavoravano li porta a riflettere e spesso a cercare testimonianze di quel passato, antichi documenti in soffitta.
Se la cultura del lavoro è in crisi ancora più in crisi è la cultura della sicurezza sul lavoro. Perché, al di là della scarsa attenzione degli organi di informazione, è così difficile imporla a imprenditori e lavoratori?
La cultura della sicurezza sul lavoro è declinata insieme al suo oggetto. Non so quanti politici e intellettuali continuano a sostenere che in Italia non esistono più operai, quando sono sette milioni, che l’industria è in fase calante, che verrà presto sostituita in tutto dal terziario, dai servizi. C’è un declino della considerazione della figura dell’operaio. Poi c’è da considerare l’impatto negativo della precarietà. Con contratti di così breve durata gli imprenditori non hanno nessun interesse a spendere denaro e tempo nella formazione alla sicurezza. Lo stesso lavoratore, pur sapendo di poterci rimettere la pelle, non ha interesse alla sicurezza, perché sa che dopo due o tre mesi probabilmente dovrà cambiare impiego. E non solo non impara la manualistica sulla sicurezza: non impara neanche le condizioni che creano un ambiente sicuro. Sapere come ci si muove in una fabbrica, come si muovono gli altri, conoscere i rumori e le abitudini delle macchine è fondamentale. Senza, trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato è molto più facile. Questa cultura dell’ambiente tecnico in cui si lavora è scomparsa con l’aumento dei lavoratori precari, quelli legali e quelli irregolari, che operano nel sommerso.
Quanto conta, nella crisi dell’impresa italiana, la mancanza di investimenti in ricerca e sviluppo?
La mancanza è gravissima, e conta moltissimo. Il privato in Italia investe in ricerca somme molto modeste: tra i trentaquattro paesi Ocse siamo uno degli ultimi. Si tratta dello 0,67 per cento del Pil, dato del 2010, circa metà dei francesi, un terzo dei tedeschi, un quinto o un sesto degli scandinavi. Il confronto è davvero quasi imbarazzante. Eppure il valore aggiunto viene da lì, dalla novità dei prodotti, dalle nuove idee su come stare nel mercato, sulla distribuzione. Poi c’è la vecchiezza degli impianti: quelli italiani sono mediamente vecchi il doppio di quelli europei. Le fabbriche italiane, tranne rare eccezioni, investono molto poco in ricerca, formazione e capitale fisso, e i risultati sono questi.
A maggior ragione sembra lampante l’attualità della fabbrica di Adriano Olivetti.
Sì. La fabbrica di Olivetti si distingue per tutto il contrario di quanto detto fino ad adesso. Dentro alla fabbrica si faceva molta formazione, c’era molta cura del design del prodotto, dell’armonia. Un tasso di innovazione elevatissimo. Tutto ciò le permetteva di essere un formidabile concorrente per le industrie di tutto il mondo.
E adesso, cosa rimane da fare?
Il fatto è che si è perso grande terreno in molti anni. Ora, anche se qualcuno avesse un colpo di genio, cosa di cui peraltro dubito, sarebbe difficilissimo recuperare venti o trent’anni in pochi mesi. Eppure è quello che si deve fare, bisogna imboccare questa strada. O l’economia italiana peggiorerà sempre di più.

da Europaquotidiano.it