Gli approfondimenti

Pubblicato il 11 Novembre 2014 in

APPROFONDIMENTI

 1La “maschera” di Charlot

Non è la maschera in sé che fa l’originalità di Chaplin. Tipi e figure simili a lui (baffetti, bombetta, pantaloni troppo larghi, scarpe lunghe e canna da passeggio) esistevano in quantità nel vaudeville, nel music-hall e persino nel burlesque, generi teatrali minori, molto popolari a fine ‘800. Più che la genesi esteriore della maschera è importante il processo storico che la determina. Come vedremo nei paragrafi successivi.

 

 

 

 

 

Il principio dell’automatismo

Nel 1914 compare per la prima volta il personaggio che renderà immortale il suo autore. Chaplin in questo momento è alla Keystone di Mack Sennett, dove avviene il suo apprendistato cinematografico. I cortometraggi d’esordio si strutturano sulle collaudate tecniche della slapstick (lett: schiaffo e bastone), ossia su una comicità unicamente fisica e acrobatica, senza alcun intento psicologico né, tanto meno, di critica sociale. Bisbetico, petulante, dispettoso, a volte anche imbroglione, vendicativo, cinico, sleale, perfino violento e crudele, il personaggio non tenta di nascondere o giustificare questi suoi atti, ma sembra soltanto voler sfogare sugli altri un suo intimo rancore. Spesso le gag poggiano sul puro e semplice automatismo delle reazioni. Più che un essere umano dalla azioni motivate, il personaggio di Charlot è quasi un meccanismo che, provocato, ribatte d’istinto. Nessuna motivazione psicologica sta alla base del suo comportamento. Questo genere di “automatismo” contrassegna gran parte della comicità nella fase iniziale.

Processi stilistici

Le short-stories Mutual esibiscono per lo più gli stessi procedimenti comici dei periodi Keystone ed Essanay, ora però sottoposti a una più rigorosa dis2ciplina. Il movimento, l’espressione mimica e gestuale della “maschera” si definiscono meglio. I tempi si precisano, ubbidiscono a un ritmo studiato nei dettagli. Lentamente Chaplin rinuncia alla tipologia cristallizzata della “maschera” per farle assumere ruoli e atteggiamenti contrastanti con la sua essenza. Chaplin sottopone insomma il suo personaggio a un processo straniamento. “La sua comica sembra un balletto. Lei è un vero ballerino” sembra aver detto il celebre coreografo Nižinskij vedendo un cortometraggio degli anni 1918-19. A questa particolare forma si unisce il sostanziale individualismo del personaggio e la parodia dei romanzi vittoriani come cornice sociale delle avventure del vagabondo. La saldezza della composizione filmica poggia sempre in Chaplin sull’unità dell’arco narrativo concepito come un insieme omogeneo. La cornice sociale non è mai un pretesto narrativo, ma l’intelaiatura dell’intero svolgimento ossia la determinazione essenziale per il rilievo dei personaggi, delle situazioni e delle invenzioni comiche.

 immagine da Il campione (1915)

 Un regista drammatico

Con Una donna di Parigi (1923) Chaplin si impone anche come regista drammatico. Senza comparire in scena come attore. Non si tratta, peraltro, di una svolta improvvisa o impreveduta. La nuova forma, la forma del dramma, non fa che cristallizzare la disposizione drammatica già implicita nella struttura di opere come Il monello (1921) o Il pellegrino (1923). In altri termini Chaplin innalza qui a livello di antagonismi drammatici gli antagonismi già espressi in forma comica nei film del “vagabondo”. Realizzato con la totale libertà che gli offriva l’essere regista e produttore con la sua United Artists, il film fu un fiasco al botteghino. Il pubblico non era ancora pronto per un Chaplin che non fosse identificabile con la propria “maschera”. Il ritorno al personaggio avviene nel 1925 con La febbre dell’oro in cui lo spirito del capitalismo si mostra per quello che è: una spietata sopraffazione. La lotta per il profitto spinge alla violenza e all’omicidio.

La destrutturazione del comico

Con Il circo (1928) la maschera chapliniana arriva all’apice della sua trasformazione da marionetta a personaggio. Chaplin lavora sulla natura del comico componendo e scomponendo le classiche gag. Il suo è qui uno straordinario lavoro sulla natura del cinema e dei suoi meccanismi. Quasi ogni gag viene proposta secondo il canone classico e quindi rielaborata secondo varianti inedite che ne rafforzano il significato. La comicità è più elaborata, obbliga a uno sforzo intellettuale, a uno spiazzamento e a una ricomposizione delle situazioni e della scena. Molti i casi emblematici: la sequenza nel labirinto degli specchi, gli inseguimenti sulla pista del circo, le acrobazie sulla corda e molte altre. Il vagabondo non rinuncia alla sua identità, anzi la rafforza con una precisa scelta di campo sociale. E alla fine, per lui, non c’è posto nemmeno all’ultimo gradino del “sogno americano”, tra la segatura di una pista e il trucco dei clown.

Il commiato della “maschera”

3Con Luci della città (1931, foto), commedia romantica in forma di pantomima, l’afflato umanistico di Chaplin e della sua “maschera” rimane astratto o, nel migliore dei casi, scade al livello di un generico umanitarismo. Nel successivo Tempi moderni (1936), invece, l’autore si congeda dal suo personaggio con un capolavoro tra i più graffianti. Il vagabondo ha finalmente trovato un lavoro alla catena di montaggio di una avveniristica fabbrica, molto simile a un lager. La ripetizione meccanica dei gesti può provocare solo alienazione o follia. Ma è proprio il salutare germe della pazzia che lo salva, pagando però il prezzo di una nuova e più radicale incompatibilità con il sistema. A parziale riscatto, però, questa volta nell’allontanarsi verso il sole al tramonto, il vagabondo non è più solo. Una donna è con lui, animata dalla stessa spinta eversiva e dalla stessa speranza verso un futuro nebuloso e pieno di incognite.

 

La normalità del male

Chaplin e Adolf Hitler, nati a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, rappresentano attraverso Il grande dittatore (1940) il corto circuito storico-artistico a più alto potenziale che si sia mai verificato su uno schermo. Alla fine delle ostilità Chaplin confessò che, forse, non avrebbe girato il suo film se fosse stato al corrente delle atrocità che si andavano compiendo contro gli ebrei (ma anche contro zingari, omosessuali, oppositori del regime) nei campi di sterminio nazisti. Di fatto il film, fortemente satirico anche se con un edulcorato finale inneggiante a una im4probabile pace mondiale, ha avuto non poca rilevanza nell’orientare l’opinione pubblica americana a favore di un coinvolgimento diretto nel conflitto. Nel dopoguerra la poetica di Chaplin ha modo di affermarsi in tutto il suo potenziale eversivo co n Monsieur Verdoux (1947, foto). Qui il regista attua una mescolanza di comico e tragico che non ha forse l’analogo in nessun altro campo dell’arte moderna, eccetto forse alcune pagine di Thomas Mann che, pare, mostrò grande interesse per questo film. Nel personaggio di Henry Verdoux, Chaplin ritrae un tipo sociale che viene inghiottito suo malgrado dalla ferocia dei tempi. Uomo all’antica, cede a debolezze sentimentali incompatibili con la spietatezza delle “leggi di mercato”. La sua sconfitta assume dunque il senso profetico di una sconfitta storica. Il delitto non paga… se non su larga scala.

 

Sul filo della memoria

La vecchiaia toglie a Calvero, protagonista di Luci della ribalta (1951), la forza del suo spirito comico e viene il momento in cui si sente davvero finito. Di autentico gli resta il senso di dignità della vecchiaia, strettamente unito a un imperioso bisogno di “verità”. Perseguitato dal maccartismo, in questo film Chaplin, oltrepassata la soglia della sessantina, pare avvertire il bisogno di rivolgersi alla memoria, ai meandri profondi e segreti della sua infanzia londinese. Calvero è modellato, in parte, sulla figura del padre, Charles sr., così come la ballerina Terry evoca la triste parabola della madre Hannah. Molti i familiari e i congiunti coinvolti nel progetto, quasi per un desiderio di protezione a fronte delle avversità che si vanno addensando. Come il coinvolgimento del vecchio amico-rivale Buster Keaton in una delle più celebri sequenze comiche della storia del cinema con Keaton al pianoforte e Chaplin al violino per la capriola finale con cui il vecchio attore esce definitivamente di scena. Fuori da quell’America che gli ha dato fama e denaro ma che è stata anche capace di voltargli le spalle. Per questo in Un re a New York (1957) l’America non si rivela come la terra della libertà e del sogno realizzato, ma come uno strano mondo in cui imperano sospetto, violenza, isterismo collettivo, indifferenza e disprezzo per l’uomo, strapotere del denaro e dei mass media. Difetti inconciliabili con l’umanesimo di Chaplin.

 

Rielaborazione dal libro di Guido Oldrini, Il realismo di Chaplin, ed. Laterza

 

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