Libia: il secondo conflitto civile

Pubblicato il 4 Giugno 2019 in
Libia

Quando sembrava delinearsi un passaggio importante nella roadmap libica voluta dalle Nazioni Unite, ossia la convocazione per il 12-14 di aprile della Conferenza Nazionale (Al Multaqa Al Watani)[1], un incontro definito di nation building che avrebbe dovuto costituire un passaggio importante nel processo di costruzione di fiducia reciproca tra gli attori libici più influenti, Khalifa Haftar ha deciso di compiere un’azione militare che aveva la finalità di prendere possesso della capitale Tripoli. Tuttavia, questo attacco non è andato a buon fine e ora la Libia sembra ripiombata in una nuova fase di conflitto, definito da taluni come “seconda guerra civile libica” dopo quella del 2011. Questa conflagrazione sembra avere sempre più i connotati di una guerra di prossimità tra attori esterni, in particolare tra quelli mediorientali. Di conseguenza l’attività delle Nazioni Unite appare al momento priva di ogni spazio di manovra dato lo scarso supporto della comunità internazionale a una reale azione di mediazione.

Quadro interno

La Libia è sprofondata nuovamente nel conflitto civile: le forze agli ordini del generale Khalifa Haftar, uomo forte della Cirenaica, il 4 aprile hanno lanciato un’offensiva militare per prendere possesso di Tripoli, controllata dalle milizie del Governo di Accordo Nazionale (Gna) guidato da Fayez al-Sarraj e sostenuto dall’Onu[2]. Nonostante a cavallo tra la fine del 2018 e l’inizio del 2019 non si siano ripetuti gli scontri avvenuti nella capitale tra fine agosto e inizio settembre 2018, una serie di azioni militari di Haftar nel Fezzan, la regione nel sud del paese, non aveva fatto presagire nulla di buono e aveva già messo a serio rischio il rilancio del processo politico in tutto il paese africano. Tra gennaio e febbraio di quest’anno l’operazione militare di Khalifa Haftar verso il confine meridionale, tesa a ottenere il controllo di alcuni centri strategici, e allargare così la propria area di influenza, aveva dato il via a una serie di reazioni politiche interne che tuttavia non hanno rappresentato un argine alla futura azione di Haftar contro Tripoli. Anzi, con una valutazione a posteriori, questa presa del sud del paese, avvenuta quasi senza colpo ferire, ha incoraggiato Haftar stesso e i suoi protettori internazionali all’ingresso nella capitale. L’avanzata nella Libia meridionale dell’esercito nazionale libico (Lna), il gruppo militare sotto il controllo di Haftar, è sembrato infatti ottenere il sostegno di un’ampia parte della popolazione nella regione. A Sebha, il Lna è stato in grado di raggiungere accordi con vari intermediari di tribù arabe, tuareg e tebu della città. Ciò ha sostanzialmente assicurato una pacifica consegna delle posizioni chiave e dei depositi di armi, precedentemente controllati dai combattenti tribali Awlad Suliman e Tebu, ai nuovi comandanti nominati dal Lna, sotto la “Sala Operativa di Sebha”[3]. Tuttavia, una serie di rapporti dei media locali e internazionali avevano accusato chiaramente il Lna di aver commesso crimini di guerra e violazioni contro le comunità tebu nel sud[4]. Alcuni membri tebu della Camera dei rappresentanti (HoR) e il parallelo governo orientale, infatti, si sono dimessi dalle rispettive cariche in risposta alla campagna militare.

È probabile quindi che, con il precedente del Fezzan a proprio favore, l’obiettivo di Khalifa Haftar fosse entrare a Tripoli come salvatore della patria contando sul supporto di una popolazione stanca del caos e su capi miliziani con la pancia troppo piena per voler combattere. Una valutazione che Haftar ha probabilmente compiuto guardando anche alla frammentarietà delle forze militari sotto il cappello del Gna. Quest’ultimo infatti stava ancora cercando di implementare i piani di sicurezza[5] stabiliti negli scorsi mesi, anche con lo scopo di porre termine al potere del cartello di milizie che occupa settori nevralgici della capitale. L’iniziativa avrebbe dovuto riunire le molteplici forze di sicurezza sotto un’unica cabina di regia e avrebbe dovuto includere il servizio di intelligence generale, il ministero dell’Investigazione pubblica e la polizia militare[6]. Tuttavia, le milizie di Tripoli hanno continuato a resistere a queste riforme, eludendo l’attuazione del piano guidata dal nuovo ministro dell’Interno Fathi Bashaaga.
Eppure il generale Haftar (o feldmaresciallo come preferisce definirsi) ha chiaramente sovrastimato le proprie forze e sottostimato la resistenza. Quello attuale non è certamente uno scontro ideologico, le milizie libiche raramente sono portatrici di una visione ideologica a eccezione probabilmente di alcune milizie salafite “makdalis” che operano all’interno del Lna di Haftar[7]. In generale prevalgono interessi opportunistici ed è probabilmente ciò su cui puntava Haftar: esercitare un nuovo potere di deterrenza tale da attirare a sé o almeno nel campo della neutralità diversi gruppi armati della capitale.
L’azione militare di Haftar è il risultato di un mix tra spregiudicatezza e rischio calcolato. Il generale si è probabilmente fatto forza di un supporto esterno generatosi negli incontri delle ultime settimane che ha percepito come un via libera al tentativo di presa della capitale libica. Dal 28 febbraio scorso – ovvero dall’incontro conclusosi ad Abu Dhabi con una stretta di mano tra al-Sarraj e Haftar[8] che aveva sancito l’intesa su elezioni entro fine anno – le due parti si sono incontrate con i rispettivi protettori internazionali: il 10 marzo Sarraj è stato a Doha (Qatar) dall’Emiro al-Thani[9] e il 20 ad Ankara dal presidente turco Erdoğan[10]. Il 27-28 marzo Haftar si è recato a Riyadh dal re saudita Salman e dal principe ereditario Mohammed Bin Salman[11]. È evidente che l’offensiva iniziata alcuni giorni dopo mirasse a una rapida presa della capitale, ma il risultato non è stato quello sperato: il confronto militare sembra ora in una situazione di stallo. Al momento appare difficile che Haftar possa ripiegare poiché sarebbe una sconfitta politica troppo rilevante. Sinora gli scontri si sono concentrati soprattutto nella zona periferica della capitale, a sud e a ovest. Dopo aver superato Gariyan e aver valicato la catena del Nafusa, i militari filo-Haftar hanno cercato di circondare Tripoli raggiungendo la fascia costiera per penetrare poi all’interno del centro urbano. I primi scontri a fuoco sono avvenuti vicino al Gate 27, sulla strada costiera tra Zawiya e Janzur, e nei pressi dell’aeroporto internazionale. Tuttavia l’offensiva non si è rivelata adeguata per superare la resistenza dei gruppi armati tripolini, e non è mai arrivata a meno di dieci chilometri dai quartieri più centrali della capitale, dove sono presenti tutte le istituzioni del Governo di Accordo Nazionale.

Questa situazione ha permesso alle milizie di riorganizzarsi e darsi un minimo di coordinamento, facilitando in questo modo una convergenza tra di esse e la creazione di un fronte piuttosto compatto con l’obiettivo di contrastare Haftar: una cooperazione tra milizie anche tradizionalmente rivali o concorrenziali, come le Brigate dei Rivoluzionari di Tripoli di Haitem al-Tajouri, la Forza Rada di Abdelraouf Kara, le milizie di Salah Badi o quelle di Bashir al-Bugra. Inoltre, come già detto, l’arrivo a supporto di Tripoli di alcuni dei migliori reparti di Misurata, tra cui la Brigata Halbous e la Brigata 166, hanno condotto la situazione sul terreno a un sostanziale stallo. Inoltre, dato militarmente assai rilevante, le forze di Haftar si trovano molto distanti dal proprio quartier generale in Cirenaica, con una catena di rifornimenti molto lunga, e in un’area desertica, che rendono molto difficili gli approvvigionamenti. È probabile che l’attuale scontro si trasformi in un conflitto di più lunga durata nel quale il supporto (o la mediazione) dei sostenitori internazionali di Haftar sarà decisivo. Se la risposta della comunità internazionale, come peraltro sembra evidente, non sarà dura nei suoi confronti, Haftar potrebbe percepire che c’è ancora spazio per continuare, magari con maggior insistenza e violenza, l’azione militare.

Libia

Attori esterni

Ciò che è certo dalle dichiarazioni pubbliche degli attori internazionali è che il generale gode del supporto economico e militare emiratino, egiziano e saudita, nonché di quello militare russo, che è presente in Libia con diversi mercenari del gruppo Wagner, mentre ha potuto contare nel recente passato anche sul supporto politico e probabilmente di intelligence dei francesi. Haftar ha agito nel suo stile: si è detto pronto a trattare, si è seduto ai tavoli dei negoziati a stringere le mani ma poi ha agito sul terreno mettendo la comunità internazionale davanti ai fatti compiuti. Altro elemento da tenere presente è quello relativo al fatto che Haftar si sia sentito imbrigliato nell’iniziativa di mediazione Onu e non avesse altre armi per uscirne se non l’azione militare. L’inviato speciale delle Nazioni Unite Ghassan Salamé aveva infatti convocato per il 12-14 di aprile la Conferenza Nazionale (Al Multaqa Al Watani): da questa conferenza Haftar ne sarebbe probabilmente uscito con la carica di capo dell’esercito ma avrebbe dovuto sottoporsi al potere civile rappresentato dal Gna. Proprio Salamé, nel corso di un’intervista rilasciata a marzo a Libya’s Channel, ritenuta vicina all’uomo forte della Cirenaica, aveva precisato che la missione Onu (Unsmil) stava ponendo le condizioni per svolgere “le elezioni presidenziali e le parlamentari” nelle giuste condizioni di sicurezza, cercando di ottenere l’impegno da parte di tutti gli attori coinvolti nel processo elettorale ad accettare i risultati ed evitare che si ripeta lo scenario del 2014 (ossia una nuova fase di polarizzazione politica e militare), aggiungendo che desiderava vedere un’alta affluenza e un accordo tra i libici sulle scadenze temporali per quanto riguarda il referendum costituzionale e le elezioni[12].

Proprio in vista di questa conferenza Haftar ha deciso per l’azione militare, sapendo benissimo che non avrebbe trovato grandi argini alla propria azione. Non lo sembrano infatti le Nazioni Unite e la comunità internazionale, che al di là delle dichiarazioni di facciata, esercitano un flebile, e nulla più che formale, supporto nei confronti di Fayez al-Sarraj. È certamente rappresentativo il fatto che l’attacco sia avvenuto nel momento in cui il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres era a Tripoli. Neppure gli Stati Uniti sono sembrati decisi nel sorreggere il governo delle Nazioni Unite e il ruolo dell’Onu. Lontana spettatrice di questa crisi perlomeno dall’avvento dell’amministrazione Trump, dall’inizio della nuova fase di conflitto Washington ha tenuto posizioni molto ambigue, prima ritirando un piccolo contingente di consiglieri militari che supportava il governo di Tripoli, poi con una telefonata tra Trump e Haftar che sembrava incoraggiare l’azione o perlomeno non dissuaderla, poi ancora con una serie di dichiarazioni più equilibrate di Pentagono e Dipartimento di Stato, e infine con il riposizionamento dei militari nella città di Misurata. Ma neppure l’Unione europea, divisa nell’approccio tra Francia e Italia, ha costituito sino al momento attuale un argine all’azione di Haftar: in uno dei primi comunicati sulla crisi non si faceva neppure menzione del nome di Haftar quale responsabile dell’attacco e della violazione degli accordi ma si limitava a richiamarne al rispetto “tutte le parti coinvolte”[13].

Per l’Italia, la Libia rappresenta una priorità di politica estera: la sua instabilità ha infatti ricadute importanti per il nostro paese, in particolare per quanto concerne i flussi migratori e gli approvvigionamenti energetici. Per questo motivo, lo sforzo dei vari governi italiani nel farsi promotori di un’iniziativa inclusiva e negoziata sulla Libia è sempre stato un impegno coerente alle esigenze del nostro interesse nazionale. La conferenza di Palermo tenutasi il 12 e 13 novembre scorso[14] rispondeva alla necessità di ritagliare all’Italia un ruolo da protagonista, e non da comprimaria, nella stabilizzazione di un teatro di conflitto che ormai da troppi anni infuria a pochi chilometri dalle nostre coste con incalcolabili costi umani e materiali, in un paese in cui per di più i nostri interessi economici e politici sono strategici e non immuni dalla competizione con quelli dei numerosi attori stranieri coinvolti a diverso titolo nello scenario libico.
In questo contesto, il tentativo italiano – perseguito almeno sin dallo scorso luglio con l’incontro tra Conte e Trump[15] – di riportare gli Stati Uniti dentro la gestione politica della crisi libica era tutt’altro che immotivato. Washington dispone infatti più di altri del leverage necessario per mediare tra gli interessi, spesso divergenti, degli attori internazionali coinvolti nella crisi (quelli europei, ma anche la Russia), così come di un’influenza significativa su molti degli attori regionali che hanno agito da battitori liberi fomentando il caos nel paese nordafricano (Arabia Saudita, Emirati, Turchia, Qatar). Tuttavia l’amministrazione Trump è risultata molto riluttante a impegnarsi in nuovi teatri di crisi internazionali. Malgrado il sostegno espresso da Trump all’iniziativa italiana, il fatto che né lui né il segretario di stato Mike Pompeo siano stati presenti a Palermo avrebbe dovuto mettere l’Italia nella condizione di dover procedere nel proprio impegno diplomatico a prescindere dalla reale volontà Usa di impegnarsi nella soluzione della crisi libica. Le recenti vicende internazionali, dapprima lo scontro politico tra Italia e Francia sfociato in una vera e propria crisi diplomatica, ma anche probabilmente l’adesione italiana al progetto della “via della seta” cinese[16], non sembrano affatto aver favorito un consenso internazionale anche a tutela dei nostri interessi in Libia. In questo contesto il nostro paese deve gestire una fase articolata delle proprie relazioni con gli attori libici. Haftar è sempre stato lontano dagli interessi italiani: fu da subito (2014) sponsorizzato e aiutato da Egitto e Emirati ma poi anche da Russia e Francia, perché si faceva da un lato protettore della Cirenaica dall’altro campione della lotta agli islamisti, mentre aveva un minor peso nelle aree di interesse dell’Italia: Fezzan e Tripolitania, dove passano i flussi energetici e i traffici di esseri umani.

Il presidente del Consiglio Conte ha cercato di utilizzare la nuova fase della crisi libica per ridare ruolo e centralità all’Italia. Un certo attivismo ha contraddistinto Conte, che approfittando di diversi incontri si è relazionato con Salamè, il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, quello russo Vladimir Putin, quello cinese Xi Jin Ping[17]; ha avuto conversazioni telefoniche con altri esponenti politici tra i quali il presidente statunitense Donald Trump; mentre il ministro degli Affari Esteri Enzo Moavero Milanesi ha incontrato a Roma l’omologo francese Jean-Ives Le Drian[18].  Non è emersa una politica sempre coerente: l’Italia è sembrata titubare bloccata a metà tra il rischio di mettere a repentaglio i propri interessi a causa di una presa di potere di Haftar e la conservazione degli stessi tramite una parte, quella Tripolina, sorretta da una minoranza di forze (soprattutto Qatar e Turchia) potenzialmente sempre più debole sullo scenario internazionale.
L’Italia ha osservato il ruolo di Haftar crescere nel tempo proprio grazie al supporto internazionale. Scegliendo a Palermo di aprire più palesemente al dialogo con il generale Haftar dopo che altri attori internazionali avevano creato con lui una relazione privilegiata, il governo di Roma già in precedenza aveva rischiato di generare una caduta di credibilità sia a ovest tra le componenti più vicine a Roma, sia a est tra quelle che sostengono il generale Haftar, e che hanno interpretato l’apertura italiana come una debolezza o una tacita ammissione dell’impossibilità di sostenere a lungo la propria strategia di supporto al premier Fayez al-Sarraj e al governo delle Nazioni Unite. La dichiarazione di Conte di fine aprile relativa a un posizionamento neutrale dell’Italia aveva il chiaro obiettivo di tenere una posizione di equilibrio ma rischia di essere percepita come troppo ambigua.

In conclusione, i tempi per un ingresso di Haftar nella capitale e per una presa di potere sul paese non appaiono maturi. Finché Misurata e altre milizie difendono la capitale l’ingresso del generale resta difficile. Haftar ha combattuto per anni prima di liberare Bengasi, ha già subito le prime perdite solamente affacciandosi ai sobborghi di Tripoli. La propaganda di Haftar lo presenta come un “liberatore” che combatte i terroristi, ossia le diverse milizie nella capitale. Tuttavia bisognerebbe sottolineare che parte delle milizie che l’Lna sta in queste settimane bombardando furono quelle che combatterono i miliziani dello Stato Islamico nel 2016 in possesso della città di Sirte. È vero che il Gna non è riuscito a porre fine al potere del cartello delle milizie che occupa le aree chiave della capitale. Ma la narrativa spesso usata per descrivere la questione dei gruppi armati è di scarsa utilità per risolvere il problema, poiché, in modo del tutto irrealistico, tende a considerare questi attori come un blocco unico, rifiutandoli nella loro interezza come “criminali”, gruppi terroristici e minacce allo stato (che peraltro non sembra esistere in Libia). Questo punto di vista non tiene conto della legittimità a volte ampia che le milizie godono all’interno delle loro comunità locali. Un prodotto evidente di questa crisi è inoltre la recrudescenza della rivalità tra est e ovest. Questa frattura è stata contenuta a fatica nei mesi passati anche grazie alla tenuta di alcune istituzioni fondamentali, come la Banca centrale libica, la Compagnia Nazionale del Petrolio e l’Autorità Libica per gli Investimenti. Nonostante il parlamento di Tobruk e le entità statuali dell’ovest abbiano provato a creare delle branche parallele e autonome, queste non hanno mai ricevuto alcun riconoscimento da parte della comunità internazionale. Il rischio che ora si palesa più apertamente è quello di un sostegno internazionale a questa divisione, soprattutto nel caso che la situazione sul campo non si volgesse a favore di Haftar. Il supporto internazionale che questi può vantare e un clima di generale appeasement nei suoi confronti lo favoriscono nel medio e lungo periodo.
Infine, un’ultima considerazione: anche ammettendo che Haftar sia capace di guadagnare il potere in breve tempo e di conservarlo a Tripoli in un paese dalle istituzioni inesistenti, visto che ha 75 anni e pare non goda di ottima salute dato il ricovero parigino di un anno fa, questa presunta stabilità che porterebbe il generale in Libia quanto potrebbe durare?

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