Spreco alimentare domestico: cibo a perdere? No grazie

Pubblicato il 1 Luglio 2015 in

Non esiste una definizione standard di spreco alimentare, così come non esistono metodologie uniformi per calcolarlo. Gli studi finora realizzati sullo spreco sono carenti, i dati raccolti spesso insufficienti.
Di certo il cibo viene sprecato ad ogni stadio della filiera alimentare – dal campo alla tavola – nella produzione, trasformazione, vendita e consumo.

La maggior parte delle ricerche – a livello globale – si concentra sulla formazione dello spreco nelle fasi di produzione e distribuzione. In questi ambiti lo spreco pare inevitabile: molti scarti sono inedibili o derivanti da erronea gestione del magazzino, sovrapproduzione, prodotti deformati o danneggiati.

Poche ricerche si concentrano invece sullo spreco alimentare generato a livello domestico. Nei Paesi Membri dell’Unione Europea, infatti, le famiglie – secondo dati elaborati da Eurostat- sono le principali responsabili dello spreco.

Secondo la Fao, ogni europeo spreca ogni anno 179 chili di alimenti. Il cibo perso o buttato via in Europa potrebbe nutrire 200 milioni di persone. Uno studio dell’Università di Stoccarda afferma che i tedeschi gettano nel cestino 11 milioni di tonnellate di cibo, mentre secondo WRAP nel Regno Unito il 60% dello spreco nelle famiglie potrebbe essere evitato, con un risparmio pari a €565 per famiglia ogni anno.

Last Minute Market, spin off accademico che si occupa di ridurre e recuperare lo spreco, ha stimato che a livello domestico in Italia si sprecano mediamente il 17% dei prodotti ortofrutticoli acquistati, il 15% di pesce, il 28% di pasta e pane, il 29% di uova, il 30% di carne e il 32% di latticini. E da un punto di vista economico, per una famiglia italiana lo sperpero alimentare significa una perdita di 1.693 euro l’anno.

Vi sono molte spiegazioni sul perché gli alimenti vengano sprecati a livello domestico: in genere si fa riferimento alla consapevolezza, alle attitudini degli individui, all’abilità di gestione pratica del cibo come la pianificazione, la porzionatura e la conservazione, ma anche allo status socio- economico dei membri famigliari e alla loro cultura di riferimento.

Per inquadrare lo spreco alimentare domestico in Italia e gettare luce su dati contrastanti emersi da diversi studi finora realizzati da centri di ricerca, associazioni e organizzazioni non governative, la tesi – dopo aver presentato dati a livello globale, europeo e italiano – si concentra sull’analisi di dati estrapolati da un questionario sullo spreco domestico che tra il mese di novembre e quello di dicembre 2012 è stato compilato da 3.087 italiani. L’indagine – di valenza socio-economica- è stata realizzata in collaborazione con la Commissione Europea (DG JCR, Istituto per la Tutela della Salute dei Consumatori) e il Karlsruhe Institut für Technologie.

Il questionario è stato posto sulla piattaforma surveymonkey (una tecnica di compilazione d’interviste/formulari online che si rivela particolarmente utile quando si tratta di esaminare campioni auto-selezionati) e ha avuto come obiettivi l’identificazione di dati quantitativi circa “quanto si spreca” , “cosa si spreca”, l’individuazione delle cause sociali, valoriali, comportamentali e di stile di vita, dello spreco alimentare delle famiglie italiane, l’impatto economico dello spreco sul budget domestico e l’elaborazione di profili di consumatori attraverso la cluster analysis.

Troppi consumi, tanti sprechi

Il consumo di carne in Europa è il doppio della media mondiale, per i latticini è persino il triplo.21 Il consumo totale di proteine pro capite è il 70% più alto di quello raccomandato dal WHI.

Dal Dopoguerra a oggi, in Europa, siamo passati da circa 7-15 chili di consumo di carne procapite all’anno a 85-90 (110-120 negli Stati Uniti) così ripartiti: 44 kg di carni suine, 20 kg di carni bovine e 23 kg di carni di pollame . In termini generali il consumo di carne negli ultimi anni è stato stabile o in aumento, anche se questo dato nasconde oscillazioni settoriali molto rilevanti. A partire dal 1996, le vendite di carni bovine hanno fortemente risentito delle conseguenze della crisi dell’encefalopatia spongiforme bovina (BSE), ma dopo la seconda crisi del 2000-2001 le vendite sono in ripresa. Ad oggi il Paese che consuma più carne è la Danimarca, quello che ne consuma meno la Norvegia.

green-waste-006Per quanto riguarda il consumo di frutta e verdura l’EFSA23 ha rilevato che l’assunzione di verdure media (inclusi legumi e frutta secca) in Europa è di 220 g al giorno, il consumo di frutta è in media 166 gr al giorno. Quindi il consumo medio complessivo di frutta e verdura è 386 g al giorno.

I dati inoltre mostrano che il consumo di verdura è maggiore al Sud rispetto al Nord Europa e che le regioni con il più alto consumo di frutta sono quelli dell’Europa centrale e orientale.

Per quanto riguarda il consumo di grassi, si evince chiaramente come la dieta degli adulti europei ne sia eccessivamente ricca: la percentuale di lipidi varia infatti dal 30% fino a oltre il 40% dell’apporto calorico totale, quando quella raccomandata sarebbe del 15-30%. Anche la quota di energia derivata dai carboidrati eccede spesso quella raccomandata (10%).

Consumo domestico e consumi  fuori casa

I consumi alimentari fuori casa valgono 483 miliardi di euro nell’Unione a 27 Paesi e rappresentano il 7% dei consumi complessivi delle famiglie. L’Italia, con il 7,3% è uno dei Paesi europei dove il consumo alimentare extra domestico pesa di più. Italia, Germania, Francia, e Spagna registrano consumi extradomestici che valgono insieme 257 miliardi di euro, il 77% del valore complessivo dei tredici paesi dell’unione monetaria e il 54% del valore complessivo riferito ai 27 paesi dell’Unione Europea. Il minimo dei consumi fuori casa si registra in Slovenia e, curiosamente, in Olanda (600 euro) Modesti sono i livelli di spesa riscontrati nei Paesi del nord Europa.

Il cambiamento durante la crisi

Crisi economica, recessione, mancanza di lavoro: le famiglie, soprattutto quelle meno abbienti, a fronte di spese difficilmente comprimibili – come l’affitto, le spese sanitarie e di trasporto – sono state “costrette” a riconfigurare il loro paniere alimentare acquistando relativamente più pasta, uova e pane e meno olio d’oliva e bevande; più pollo e maiale e meno manzo, più conserve ittiche e meno pesce fresco, più latte Uht e meno latte fresco.

Una forma affiorante di acquisto, legata in parte all’affermazione di nuove preferenze dei consumatori e in parte alla crisi, ma ancora relativamente piccola (copre solo il 3% dei consumi alimentari italiani), è quella che si rivolge ai punti di vendita diretta variamente organizzati e denominati (farmers’ market, mercati del contadino, vendita diretta). Le ragioni che spingono i consumatori a preferire la vendita diretta sono diverse: dal reddito agli stili di vita, dall’età ai prezzi, agli aspetti culturali.

La crisi ha contribuito a modificare le abitudini di spesa anche delle famiglie benestanti, che si sono spostate dai negozi tradizionali ai super e agli ipermercati, dove possono acquistare prodotti di qualità simile, ma a prezzi mediamente più bassi. In generale, è calata la fedeltà verso tutti i formati distributivi mentre è cresciuta la pratica del nomadismo da un punto di vendita all’altro alla ricerca delle migliori opportunità di risparmio e delle più vantaggiose occasioni prezzo/qualità.

Spreco alimentare: parliamone

L’accezione più comune di spreco alimentare (in inglese, food waste) è quella di «cibo acquistato e non consumato che finisce nella spazzatura». Pur riferendosi sicuramente a una parte consistente degli sprechi alimentari, questa non è certo l’unica definizione valida, poiché lungo tutta la filiera agroalimentare sono svariati i motivi per cui prodotti ancora commestibili vengono scartati.

Non esiste una definizione univoca di sprechi alimentari né a livello istituzionale, né nella letteratura scientifica specializzata.
Una prima definizione di food waste è stata data dalla FAO e comprende qualsiasi sostanza sana e commestibile che – invece di essere destinata al consumo umano – viene sprecata, persa, degradata o consumata da parassiti in ogni fase della filiera agroalimentare.

La definizione di spreco alimentare varia a seconda dei Paesi. In Europa non esiste ancora una definizione unica, ma recentemente, in seno alla Commissione per l’Agricoltura e lo Sviluppo Rurale, lo si è considerato come «l’insieme dei prodotti scartati dalla catena agroalimentare, che – per ragioni economiche, estetiche o per la prossimità della scadenza di consumo, seppure ancora commestibili e quindi potenzialmente destinabili al consumo umano –, in assenza di un possibile uso alternativo, sono destinati ad essere eliminati e smaltiti, producendo effetti negativi dal punto di vista ambientale, costi economici e mancati guadagni per le imprese».55 In alcuni Paesi europei sono state proposte altre definizioni.
In Italia, un lavoro completo sul tema è quello svolto da Andrea Segrè e Luca Falasconi, che definisce lo spreco come «prodotti alimentari scartati dalla catena agroalimentare, che hanno perso valore commerciale, ma che possono essere ancora destinati al consumo umano».

In Gran Bretagna, il Waste Resources Action Program (WRAP) propone una definizione di food waste, distinguendolo tra:
evitabile: cibo e bevande gettati via pur essendo ancora commestibili (ad esempio, pezzi di pane, mele, carne ecc.);

possibilmente evitabile: cibo e bevande che alcune persone consumano e altre no (ad esempio, croste di pane), o cibo che può essere commestibile, se cucinato in un modo piuttosto che in un altro (ad esempio, la buccia delle patate ecc.);

inevitabile: sprechi risultanti dalla preparazione di cibo o bevande che non sono, e non potrebbero essere, commestibili (ad esempio, ossa di carne, bucce d’uovo, di ananas.).

Negli Stati Uniti, l’Environmental Protection Agency (EPA)58 definisce food waste come «alimenti non consumati e scartati durante la loro preparazione, provenienti dalle abitazioni e dai locali commerciali come supermercati, ristoranti, bar e mense aziendali». Si tratta di una definizione generale che consente ai diversi Stati americani di stabilire arbitrariamente quale sia lo spreco, a seconda dei propri propositi e obiettivi.

Identikit dello spreco alimentare domestico in Italia

Se nei Paesi in via di sviluppo lo spreco alimentare domestico è limitato (la scarsa disponibilità di reddito delle famiglie rende, infatti, inaccettabile lo spreco del cibo), nei Paesi industrializzati la situazione è diversa: in questi, infatti, lo spreco è ingente, sia in casa che nell’ambito della ristorazione.

Ecco quali sono gli sprechi domestici evitabili:
1) il cibo viene cucinato, preparato e servito in quantità eccessive e vengono così prodotti i cosiddetti “avanzi”, tra cui rientrano anche gli alimenti che vengono “danneggiati” durante la cottura (ad esempio, cibo bruciato).

2) gli alimenti non vengono consumati in tempo: cibo e bevande vengono “gettati via” perché hanno superato la data di scadenza indicata sulla confezione o se sono deperiti o non sembrano essere più commestibili.

Ogni anno in Italia vengono buttati via 12,3 miliardi di euro di cibo, di cui la metà direttamente dai consumatori (6,9 miliardi). Si tratta di 42 kg a persona di avanzi non riutilizzati e alimenti scaduti o andati male, per uno spreco procapite di 117 euro l’anno.
( http://www.avvenire.it/Economia/Pagine/sprechi-alimentari.aspx )

Lo spreco alimentare complessivo per persona è di ben 94 kg, di cui 55% è generato nella filiera (dai mercati fino alla ristorazione) e il 45% nelle famiglie. In termini macroeconomici la cifra corrisponde a 12,3 miliardi di euro di cibo consumabile pari a 5,5 milioni di tonnellate. In casa, dunque, un singolo individuo butta nel cestino 42 kg di cibo, alimenti scaduti, avanzi, frutta e verdura andati a male che equivalgono a 117 euro l’anno. In una famiglia media (2,5 componenti) la spesa annua è di 292 euro. (http://www.ecoblog.it/post/46201/sprechi-alimentari-ogni-anno-nel-cestino-94-kg-di-cibo-pro-capite)

Nel nostro Paese ogni anno buttiamo via circa 8 milioni di tonnellate di alimenti. (http://www.linkiesta.it/spreco-alimentare#ixzz2IF2TGupx)

In Italia lo spreco alimentare è materia di dibattito da tempo. Così come per gli altri Paesi europei è difficile averne una stima precisa, dal momento che manca una metodologia condivisa. Alcuni studi analizzano solo alcuni anelli della filiera alimentare, altri l’intera filiera dal campo al tavola: ne risulta che i dati che emergono sono spesso in contrasto tra loro.

Secondo quanto risulta dal “Libro Nero dello Spreco in Italia” (Segrè A. Falasconi L. -2011, Edizioni Ambiente.)  le famiglie italiane, già detentrici del primato europeo di consumi idrici domestici (78 metri cubi all’anno per abitante, dati Eurostat) sprecano mediamente il 17% dei prodotti ortofrutticoli acquistati, il 15% di pesce, il 28% di pasta e pane, il 29% di uova, il 30% di carne e il 32% di latticini.

In media gli italiani sprecano il 25% del cibo che acquistano (gli Stati Uniti ne sprecano il 40%).

Si tratta di spreco legato a diversi fattori, tra i quali: acquisti in eccesso, prodotti scaduti o andati a male, offerte speciali acquistate in eccedenza, prodotti acquistati come novità ma non soddisfacenti e prodotti acquistati ma rivelatisi poi non necessari.

Le famiglie italiane ancora buttano via enormi quantità di cibo: circa 42 kg procapite (che equivalgono a 117 euro a persona e quasi 300 euro per una famiglia “media” di 2,5 componenti), di cui il 42% sono alimenti scaduti o andati a male, il 58% sono avanzi non riutilizzati.
Il picco dello spreco, secondo dati forniti dalla CIA117 (Confederazione italiana agricoltori) si ha nelle periodo delle feste natalizie durante le quali gli italiani gettano in media nella spazzatura 440 mila tonnellate di alimenti, per un valore complessivo di 1,32 miliardi di euro, il 20% della spesa complessiva.

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