“Nella nostra Cuba la sfida più grande si chiama ancora libertà”, di Dimas Castellanos

Pubblicato il 19 Aprile 2018 in Pensieri Ideas

Poiché le società sono perfettibili, qualsiasi tentativo di frenare la loro evoluzione porta alla stagnazione. E se, invece di lavorare a questo perfezionamento, i governi responsabili si impegnano a protrarre l’immobilismo, allora ecco che cominciano a saturare le prime pagine con la difesa dei propri “successi”. A Cuba, il proposito rivoluzionario era ancorato al passato e ha fatto precipitare il paese nella più profonda crisi della sua storia.

La nefasta combinazione tra violenza, populismo, volontarismo e l’ignoranza delle leggi che governano l’economia si è manifestata dal momento in cui il líder rivoluzionario Fidel Castro ha annunciato che “avrebbe aumentato la produzione agricola in modo significativo, raddoppiato la capacità di consumo della popolazione rurale e che Cuba avrebbe cancellato i terrificanti dati della disoccupazione cronica, facendo raggiungere al popolo un tenore di vita più elevato rispetto a qualsiasi altra nazione”.

Tuttavia, lo smantellamento delle istituzioni civiche, la sostituzione della Costituzione del 1940 con la Legge Fondamentale dello Stato di Cuba, la nazionalizzazione culminata con l’offensiva rivoluzionaria” del 1968 che liquidò gli ultimi residui di proprietà privata rimasta, ha gettato le basi per la costruzione di un modello alieno alla natura umana, che ha assunto il controllo assoluto della società e ha creato un sistema centralizzato di distribuzione di beni e servizi primari – liberi o sovvenzionati – in cambio di libertà e diritti.

La concentrazione del potere nel leader, la statalizzazione della proprietà e lo smantellamento delle istituzioni generarono l’inefficienza che ha portato alla perdita di potere d’acquisto, al disinteresse e alla crescita di illegalità e disperazione sull’isola. A tutto ciò, bisogna aggiungere gli effetti della Guerra Fredda, il conflitto con gli Stati Uniti e le sovvenzioni sovietiche e venezuelane.

Le riforme limitate e tardive avviate nel 2008, imprigionate dall’ideologia e prive della volontà politica di cambiare realmente le cose, non hanno potuto correggere gli squilibri di un modello insostenibile. Ne sono risultati il fallimento produttivo, le importazioni di cibo che poteva essere prodotto a Cuba, il mancato pagamento a istituti di credito e fornitori, il declino degli investimenti stranieri, la perdita di potere d’acquisto e la generalizzazione di una corruzione ormai fuori controllo. Tutto ciò che ha impedito il decollo dell’economia e ha generato un esodo inarrestabile, soprattutto dei giovani.

Il primo congresso del Partito Comunista, tenutosi nel gennaio 2012, invece di approfondire le riforme, riprese la politica tracciata da Fidel Castro nel 1961. Allora, Castro aveva chiesto: “quali sono i diritti degli scrittori e degli artisti rivoluzionari e non?” La risposta la diede lui stesso: “all’interno della rivoluzione: ogni diritto; contro la rivoluzione, nessuno (…) Artisti e scrittori non fanno eccezione. Questo è un principio generale per tutti i cittadini”.  Si tornò così a limitare le libertà, e proprio in un momento in cui da tali libertà dipendeva il successo delle riforme.

Al di là di ogni ostacolo esterno, il governo cubano aveva tutto il necessario per intraprendere una transizione ordinata: il desiderio di cambiamento dei cubani, la politica di Barack Obama, l’aiuto dell’Unione europea, il condono da parte dei creditori della maggior parte del debiti, il pieno sostegno dei paesi della regione, l’assenza di classi sociali all’interno e l’inesistenza di una società civile autonoma. All’origine della situazione in cui Cuba versa oggi vi sono dunque le responsabilità e gli interessi interni al potere.

Si noti bene che la separazione delle figure di Capo di Stato e Capo del Partito Comunista – per la prima volta in 60 anni – non è un atto volontario, ma imposto dalla realtà. Ad ogni modo, è un cambiamento insufficiente. Mantenere il corso attuale è impossibile. L’unico modo per salvare Cuba è l’efficienza economica, la normalizzazione delle relazioni con gli Stati Uniti e la democratizzazione.

È chiaro: o Cuba cambia o sprofonderà nell’abisso. Questo è il dilemma del nuovo governo che dovrà portare avanti le riforme, unificare le valute (la Moneda nacional e il Peso Cubano Convertible) e i vari tassi di cambio, ottenere un aumento degli investimenti – sia esteri che interni – e ricostruire le infrastrutture. Tutto questo dovrà essere accompagnato da un adeguato quadro giuridico per la rinascita di una società civile indipendente dallo Stato. Il fatto che questo svolga una funzione necessaria è indiscutibile; ciò che deve essere discusso, invece, sono le prerogative dell’una o dell’altra istituzione. Prima di tutto sarà indispensabile ratificare i trattati internazionali sui diritti umani – firmati dal 2008 – e provvedere all’adeguamento della legislazione cubana a tali trattati.

Nell’attuale contesto nazionale e internazionale, né il Partito Comunista né una Giunta militare possono garantire una continuità a medio termine. Le nuove figure istituzionali, anche se lo volessero, non potranno limitarsi a svolgere le funzioni che verranno loro assegnate dall’alto.

L’invito a Cuba del Segretario del Partito Comunista del Vietnam (tre settimane prima dell’inaugurazione del nuovo governo), insieme alla conferenza che questi ha tenuto all’Università dell’Avana sui cambiamenti in atto nel proprio paese e sugli effetti dell’economia di mercato, sembrano indicare la strada percorsa dai vietnamiti, la quale altro non è che un tentativo del governo di cambiare qualcosa pur conservare il potere. Per Cuba, a differenza del Vietnam, la vera difficoltà sta nel fatto quella strada sarà imboccata troppo tardi, in un contesto culturale differente e con maggiori restrizioni dovute alla paura di perdere il controllo del potere.

Se il cambiamento includesse anche la separazione tra il Consiglio dei Ministri e il Consiglio di Stato, allora si aprirebbero le porte a un ricambio istituzionale che coinvolgerebbe non solo un unico, ma diversi ‘sostituti’ appartenenti alla generazione che assumerà la responsabilità. Se, da un lato, questa prospettiva renderebbe più agevole un controllo delle nuove figure istituzionali, dall’altro stimolerebbe comunque un decentramento positivo per le trasformazioni che Cuba deve intraprendere.

Per lo sviluppo sociale è decisivo il ruolo del cittadino, e la libertà è la condizione necessaria per il suo adempimento. È questa la grande sfida di Cuba. Una sfida difficile ma ineluttabile, a prescindere dalle intenzioni delle autorità di oggi, o di quelle che le sostituiranno.

* Traduzione dallo spagnolo di Eleonora Tafuro Ambrosetti, ISPI Research Fellow

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