“Dalla rivoluzione a Raúl Castro, una parabola dal finale ancora aperto”, di Raffaele Nocera

Pubblicato il 19 Aprile 2018 in

A metà degli anni Cinquanta del Novecento, Cuba riassumeva molti dei mali dell’America Latina. Corruzione, malaffare, profonde disuguaglianze economico-sociali erano alcuni dei tratti dominanti di questa piccola isola situata a poche miglia dalle coste statunitensi. La disparità fra una minoranza di ricchi e una maggioranza di popolazione che viveva in condizioni disagiate se non di vera e propria povertà, era abnorme, in particolar modo a livello rurale. Costituiva un esempio tipico di paese “dipendente”, la cui economia, basata unicamente sull’esportazione della canna da zucchero, era praticamente nelle mani delle imprese nordamericane, anche grazie alla compiacenza della dittatura di Batista.

Quando, nel gennaio del 1959, dopo quasi tre anni di lotta, i guerriglieri entrarono vittoriosi all’Avana, probabilmente neanche immaginavano di essere i protagonisti di un evento epocale, che avrebbe avuto un impatto tale da modificare il quadro stesso delle relazioni interamericane e non solo. La loro era, in quel momento, una battaglia fondamentalmente nazionalista e antimperialista, ispirata alle gesta dell’eroe nazionale José Martí e a valori quali quelli d’indipendenza, democrazia, giustizia sociale, moralità. Non a caso, le prime misure del nuovo governo rivoluzionario furono finalizzate a mettere fine a quel mondo di case da gioco e di tolleranza, di alberghi di lusso e locali notturni esclusivi, che aveva fatto dell’isola caraibica una sorta di gigantesco luna park a uso e consumo dei turisti statunitensi, nonché meta privilegiata degli investimenti della criminalità organizzata nordamericana. La radicalizzazione del processo di trasformazione interno, che colpì pesantemente il capitale statunitense, condusse a un rapido deterioramento delle relazioni con Washington.

Al fine di provocare un immediato collasso del regime rivoluzionario, la Casa Bianca optò per la rottura delle relazioni diplomatiche, per un embargo sul commercio con l’isola e, infine, per un tentativo di invasione. Il fallimento di queste operazioni, che testimoniava, fra le varie cose, la profonda sottovalutazione da parte degli analisti statunitensi del consenso popolare di cui già allora godeva il governo cubano, spinse gli Stati Uniti, sempre più preoccupati che la rivoluzione castrista potesse rappresentare un esempio replicabile altrove, a estendere e approfondire l’isolamento diplomatico ed economico. L’Avana fu espulsa anche dall’Organizzazione degli Stati Americani. Lo scoppio della drammatica “crisi dei missili” dell’ottobre del 1962 testimoniò l’avvicinamento sempre più evidente del governo di Castro all’orbita sovietica. Tuttavia, il modo in cui questa crisi si concluse, dimostrò come l’isola caraibica non fosse altro che una pedina nelle mani delle due superpotenze sullo scacchiere della Guerra Fredda. Fu anche questa consapevolezza a spingere Cuba a sposare la causa della liberazione di tutti i popoli oppressi, promuovendo e supportando le guerriglie nel resto della regione e in altre aree del cosiddetto “Terzo Mondo”, impegno che avrebbe trovato nel “sacrificio” di Ernesto ‘Che’ Guevara la sua più famosa espressione. Cuba diveniva un simbolo di portata mondiale, ma anche un esempio concreto da seguire.

Intanto il regime si andava consolidando sul piano interno e non mancarono, certo, le contraddizioni e le criticità. Il tentativo di controllare gli intellettuali rientrò fra queste. Il regime si scontrò, inoltre, con l’impossibilità di trasformare quella che, sino ad allora, era stata una sorta di “prigione di zucchero” in un’economia più diversificata, con risultati tutt’altro che brillanti nel settore secondario e con tanti altri problemi. Eppure, le profonde difficoltà di natura economica, la compressione del pluralismo e il diniego a confrontarsi con la dissidenza interna, il controllo opprimente della società, l’accentramento dei poteri nelle mani di Fidel, non scalfirono il consenso popolare, che continuò a essere garantito dalla realizzazione di grandi trasformazioni sociali, in particolar modo nel campo dell’istruzione e in quello medico-sanitario.

A differenza di altri governi latinoamericani spazzati via dai colpi di stato che, in nome della guerra antisovversiva, avrebbero spianato la strada alle feroci dittature degli anni Sessanta e Settanta, Cuba uscì pressoché indenne dalla Guerra Fredda, nonostante il progressivo venir meno dell’aiuto sovietico. E, forse anche per questo, non smise di preoccupare i policy makersstatunitensi. L’Avana, infatti, continuò a essere un punto di riferimento per parecchie sinistre radicali, anche grazie alla popolarità di cui godeva il líder máximo. Non a caso, nel corso degli anni Novanta, si cercò la spallata finale al regime castrista. L’embargo venne rafforzato e la sua cancellazione condizionata alla formazione di un governo democraticamente eletto e all’esclusione dei fratelli Castro dalla vita politica. Durante l’amministrazione di George W. Bush, di certo, le cose non migliorarono; anzi, i rapporti sempre più stretti fra Cuba e il Venezuela di Chávez condussero a un ulteriore inasprimento delle relazioni. Ma quasi cinquant’anni di condotta ostile e aggressiva nei confronti dell’isola caraibica non avevano sortito alcun effetto tangibile. Di qui, l’obiettivo di normalizzare le relazioni bilaterali, favorito dall’uscita di scena di Fidel e dall’ascesa al potere del fratello Raúl, obiettivo che divenne centrale durante l’amministrazione Obama. Eppure, al di là dei buoni propositi iniziali, delle dichiarazioni di intenti e della disponibilità al dialogo dimostrata a più riprese dai presidenti dei due paesi, il processo di apertura si sarebbe arrestato definitivamente dinanzi allo scoglio decisivo dell’embargo economico. L’avvento di Donald Trump alla Casa Bianca ha significato l’immediato azzeramento dei progressi compiuti sul fronte del disgelo. A distanza di quasi sessant’anni dalla rivoluzione, questa piccola isola situata a poche miglia di distanza dalle coste statunitensi rappresenta ancora una spina nel fianco.

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