Domenica elettorale

Pubblicato il 24 Febbraio 2013 in , da redazione grey-panthers

Riceviamo da un amico grey-panther e volentieri pubblichiamo

La politica nel sogno di Olivetti

Una domenica elettorale conserva sempre un che di suggestivo, di non ancora svelato che cova nell’urna, legato a quel clima di attesa in cui riascoltare una vampata di infinite discussioni protratte nel sonno delle vigilie.
A casa mia le votazioni si vivono così: si torna indietro alle stagioni ruggenti del dopoguerra, ai manifesti incollati di notte sopra quelli degli avversari, Garibaldi o Scudocrociato, mentre uno faceva il palo all’angolo per spiare se arrivavano gli «altri». Comizi, scazzottate, rincorse, sberleffi. I discorsi vagano in aria come se la parentesi che ci separa da quegli anni (in cui mio padre fu sindaco del paese dove sono nato) avesse la lunghezza di un respiro e tutto appartenesse al calcolo delle cose enormi, meravigliose, inaudite. La politica, per quel che mi appartiene, continua a esprimersi con il fiato dell’epica. Non la parata, non la voce stentorea, non la fronte spaziosa che l’oratore mostra alle folle, ma lo sguardo di Rocco Scotellaro in mezzo a un gruppo di uomini (così lo dipinge Carlo Levi nel telero di Lucania ’61, ora conservato nel Museo di Palazzo Lanfranchi a Matera): un piccolo dio con la pelle lentigginosa e i capelli rossi, che insegna ai discepoli il vangelo della libertà contadina. Il sindaco-poeta non urla, non arringa; è lì, fra gli umili (come Danilo Dolci e lo stesso Carlo Levi), a dimostrazione che gli intellettuali, se proprio devono interessarsi del potere, dovrebbero farlo per gli ultimi. Naturalmente la stagione di Scotellaro è morta improvvisa con lui, la politica quale grammatica delle parzialità ha preso il sopravvento e i suoi interpreti hanno imparato a tradire per gli interessi di corrente, come ci ha raccontato Raffaele Crovi nel romanzo Il franco tiratore (1968).
Sicché potrebbe apparire persino una provocazione Democrazia senza partiti di Adriano Olivetti, che fu pubblicato come opuscolo del Movimento Comunità, nel 1949, e che le rinate Edizioni di Comunità hanno mandato in libreria in questi giorni. Risale al periodo della ricostruzione, è il manifesto di una rinascita che nell’utopia dell’ingegner Adriano invitava a superare gli steccati. Oggi questo ragionare potrebbe spalancare il rischio dell’antipolitica, assai diffuso nelle nostre piazze, ma sarebbe come travisare le intenzioni del suo autore, che non si rivolse mai ai settori nevralgici del Paese con le strategie del populismo o della demagogia. Semmai intuì dove sarebbe finita la «repubblica dei partiti», visse e prefigurò il travaglio della nostra nazione che all’epoca a cui si rifanno queste pagine attuava lo scontro come celebrazione di una identità, vocabolario di una democrazia prossima ad ammalarsi. E sognò un mondo comunitario, che manifestava i segni della civitas cristiana e giocava d’azzardo con i termini di egualitarismo e solidarietà. Stefano Rodotà, accompagnando il testo, suggerisce che lo scritto andrebbe ripercorso come «una difesa appassionata di una dignità che la politica non può abbandonare».
Potrà apparire paradossale che in una fase in cui la voce degli individui era destinata a smorzarsi dinanzi al vociare scolorito delle masse si cercasse di ridare valore alla singola persona. Ma ciò rientra nell’imprevedibilità del pensiero di Olivetti, né più né meno come quando pochi anni dopo, il giorno in cui inaugurava lo stabilimento di macchine da scrivere, avrebbe domandato agli operai di Pozzuoli: «Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita della fabbrica?». Quel discorso (che ora possiamo rileggere in Ai lavoratori, mandato in libreria sempre dalle Edizioni di Comunità) rimane un segno di scandalo per quell’epoca, un’incursione corsara nella mentalità degli imprenditori, una scommessa eretica, ma è attraverso queste forme di eresie che si cambia la faccia della terra.