Le nanotecnologie ci salveranno?

Pubblicato il 26 Novembre 2014 in , , da Vitalba Paesano

Esiste un filo rosso che lega i destini dei Paesi benestanti e di quelli poveri. E’ assolutamente ingenuo pensare che una situazione in cui il 20% della popolazione sfrutta l’80% delle risorse sia sostenibile e senza conseguenze. Se l’umanità vorrà un futuro, dovrà sviluppare tecnologie capaci di ridurre le differenze e di preservare l’ambiente. Il primo passo è quello di innalzare il livello del welfare, là dove ancora si muore di fame e si diffondono epidemie come l’Ebola. Le nanotecnologie potrebbero rappresentare una grande opportunità offerta dalla scienza in questa direzione. Potrebbero, infatti, portare profonde innovazioni nell’analisi e nella diagnosi precoce; nelle terapie personalizzate; nel rilascio selettivo di medicinali sulle singole cellule malate, senza effetti collaterali; nella creazione di nuovi materiali artificiali biocompatibili e anche nell’ingegneria tissutale e degli organi. Per esempio, le nanotecnologie potrebbero permettere diagnostiche portatili a basso costo, di tipo «usa e getta», in grado di verificare molto rapidamente e con altissima sensibilità l’insorgenza di una malattia, ma anche una mutazione genetica o la presenza di determinati elementi inquinanti e pericolosi in quantità piccolissime di campioni prelevati dal paziente (per esempio saliva, sangue o capelli) oppure dal sistema che si vuole analizzare (come cibo o animali).

Questi sensori sono pensati per effettuare screening di ampi campioni di popolazione in assenza di ospedali, per analizzare lo stato di conservazione e sofisticazione dei cibi che devono essere trasportati in giro per il mondo o per effettuare analisi rapide negli aeroporti, prevenendo la diffusione di malattie contagiose. Lo sviluppo di questa tipologia di sensori biologici e medicali ad altissima sensibilità – noti come «point of care technology» -, in grado di rilevare la presenza di una o più specie chimiche in un campione biologico in soluzione, è una sfida scientifica di capitale importanza: porterebbe, infatti, la cura nel luogo esatto in cui c’è bisogno di intervento (sia cura o prevenzione), rovesciando così il paradigma per cui, in caso di sospetta malattia o contagio, è il paziente a doversi recare in un ospedale.

Questa tecnologia ha un comprensibile significato sociale: basti pensare alla possibilità di portare tecnologie di screening massivo e a basso costo nei Paesi affetti da malattie epidemiche o di utilizzarle per l’analisi in loco dell’inquinamento delle falde acquifere. Questa stessa tecnologia potrebbe consentire anche di rivelare la presenza di enzimi specifici, connessi a marcatori tumorali noti, attraverso la loro azione biocatalitica su nanoparticelle metalliche. La sensibilità di questo metodo è straordinaria: consente infatti di rivelare concentrazioni enzimatiche nell’ordine di una molecola ogni 100 miliardi di miliardi.

Il successivo passaggio, poi, sarà dotare il sensore della capacità di distruggere questa cellula, una volta individuata. Purtroppo questo passaggio nella realtà del corpo umano è difficile. Uccidere le cellule è semplice. Il problema è la capacità di uccidere in un essere vivente solo le cellule malate, distinguendole da quelle sane. Lo sviluppo di sensori avanzati che consentono di riconoscere con grande accuratezza mutazioni genetiche, oltre a cellule malate e proteine, rappresenta quindi solo il primo passo. Le tecnologie di «intelligent drug delivery», cioè di rilascio mirato di medicinali, rappresenta ancora una frontiera della ricerca, anche se molti passi sono già stati fatti: basti pensare, per esempio, alle «nanocipolle» al carbonio sviluppate all’Istituto Italiano di Tecnologia, già oggi in grado di illuminare con grande precisione le cellule malate e senza problemi di tossicità.

Lo sviluppo di sistemi multifunzionali che garantiscano simultaneamente il contrasto diagnostico e la capacità terapeutica, in risposta a stimoli di tipo diverso, è una delle sfide più appassionanti della nanomedicina. Perché tutto questo si realizzi, tuttavia, è necessario un grande impegno dei governi dei Paesi benestanti attraverso visioni di sviluppo scientifico e tecnologico centrate sull’uomo e politiche di respiro: capaci, queste ultime, di portare le nuove tecnologie nei Paesi poveri. Più che una «decrescita felice» – anche se una certa riduzione degli eccessi è auspicabile – è urgente un innalzamento del benessere là dove non c’è, in connessione ad una nuova idea di sviluppo, là dove il benessere già esiste. Si tratta di un circolo virtuoso con benefici diffusi. Queste nuove tecnologie, inoltre, potrebbero guidare una nuova rivoluzione manifatturiera, creando materiali a bassissimo impatto ambientale, senza ulteriori aggravi per il pianeta in termini di risorse e inquinamento. Anzi. Potrebbe essere il primo passo per un’inversione di tendenza.

Questo futuro è all’orizzonte e, con ogni probabilità, lo vedremo già nella seconda metà del secolo. Non è più un problema tecnologico. D’ora in avanti sarà determinante la volontà politica di realizzare una nuova idea di società.

ROBERTO CINGOLANI
ISTITUTO ITALIANO DI TECNOLOGIA
(fonte: La Stampa Scienze)