FILM IN DVD: “La chiave di Sara”, di Gilles Paquet-Brenner

Pubblicato il 22 Gennaio 2018 in Humaniter Cinema
la chiave di sara

sceneggiatura Gilles Paquet-Brenner e Serge Joncour dal libro “La chiave di Sarah” di Tatiana De Rosnay (Mondadori) cast Kristin Scott-Thomas (Julia Jarmond) Mélusine Mayance (Sarah Starzynsky) Niels Arestrup (Jules Dufaure) Frédéric Pierrot (Bertrand Tezac) Michel Duchaussoy (Édouard Tezac) Aidan Quinn (William Rainsferd) Gisèle Casadesus (Mamè) genere drammatico durata 98 min

 

“A volte le storie che non possiamo raccontare sono proprio le nostre. Ma una storia mai raccontata diventa qualcos’altro: una storia dimenticata”. È la frase-esergo del film. La sua chiave di lettura, il suo filo conduttore. Perché “La chiave di Sara” non è l’ennesimo film sull’Olocausto (anche se di quello tratta), ma un intrigante e avvincente thriller che ha per oggetto una famiglia ebrea francese inghiottita dal mostro dell’antisemitismo di stato. Papà, mamma e due bambini, maschio e femmina, che vivono nel Marais, oggi quartiere chic di Parigi, negli anni ’40 del ‘900 rione molto più modesto e popolare. Francesi deportati da altri francesi, perché il governo fantoccio filonazista che amministra il paese occupato non è secondo ai momentanei vincitori in fatto di atrocità. Nella più classica e aberrante logica dell’emulazione. Sessant’anni dopo Julia Jarmond, redattrice di una rivista culturale, ripercorre quei lontani eventi scoprendo di esserne personalmente coinvolta, sia pur in maniera casuale. L’appartamento di proprietà della famiglia di suo marito (architetto con qualche ambizione professionale e poca sensibilità affettiva) apparteneva a una delle famiglie ebree deportate nel 1942. Anzi, proprio a quella famiglia Starzynsky di cui era sopravvissuta solo una bimbetta di nome Sara. La ricerca di questa persona, emigrata in America a guerra finita, porta Julia da Parigi a New York e quindi a Firenze, mentre, di pari passo, il suo matrimonio va in crisi complice anche una tardiva quanto inattesa gravidanza. La storia scorre bene in costante equilibrio tra presente e passato che si fondono e si confondono nei numerosi flash-back che a ogni avanzamento dell’indagine giornalistica frappongono nuovi elementi inattesi che la complicano sempre più. In una suspense di genere, appunto, poliziesco. Nota stonata, la musica: melensa e posticcia. Ancor più stonato il consueto, assurdo doppiaggio. Nella versione originale, incredibile a dirsi, a Parigi e in Francia si parla francese, a New York inglese, a Firenze italiano. Nelle riunioni, i redattori di una rivista anglosassone parlano inglese così come fa Julia con la figlia adolescente. Che fa invece il solito branco di stupra(t)tori nostrani? Violenta la polifonia originale e la trasforma in una impastata monodia dove tutti parlano sempre e solo italiano. Così abbiamo scoperto la lingua universale, ma abbiamo anche perso l’occasione di apprezzare come merita Kristin Scott-Thomas che recita, magnificamente, sia in francese sia in inglese.

 

E allora perché vederlo?

Perché il racconto di una storia, di tutte le storie, è l’unico baluardo contro il fluire del tempo.

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