Bisogni e risorse delle persone che abitano da sole

Pubblicato il 10 Aprile 2021 in Pensieri Ideas

I 988 questionari validi hanno individuato una popolazione costituita in prevalenza da donne (il 78% dei rispondenti) e di nazionalità italiana nella quasi totalità dei casi (soltanto 20 soggetti – ovvero circa il 2% del totale – hanno dichiarato nazionalità diverse, nella maggior parte dei casi europee).

Relativamente alle fasce di età, si possono individuare 3 raggruppamenti, dal punto di vista numerico relativamente omogenei, corrispondenti ai soggetti di età inferiore a 50 anni, ai soggetti di età compresa tra 50 e 64 anni e agli ultrasessantacinquenni. Tale distribuzione nelle diverse classi di età appare sostanzialmente sovrapponibile a quella dei nuclei unipersonali milanesi, con scostamenti non decisivi nelle classi 60-69 anni (maggiormente rappresentate nella coorte dei rispondenti) e una differenza invece particolarmente marcata nelle fasce di età più anziane, in particolare nella classe degli/delle ultraottantenni, scarsamente presenti nel campione nonostante a livello cittadino risultino costituire la fascia numericamente più consistente.

La difficoltà per questa popolazione di disporre delle competenze necessarie per accedere alle tecnologie informatiche, che hanno costituito il principale e più immediato veicolo di diffusione del questionario, nonché le restrizioni dovute alla pandemia che hanno limitato la possibilità di interazioni dirette possono spiegare il gap evidenziato.

Per quanto riguarda il titolo di studio, la maggior parte delle persone che hanno compilato il questionario risulta essere in possesso di un livello di istruzione universitario o post-universitario. Un terzo circa di soggetti ha un diploma di scuola media secondaria di secondo grado. Valori più bassi per la scuola secondaria di primo grado. Per nulla o pochissimo rappresentati i soggetti privi di titoli di studio o con licenza elementare.

 

La concentrazione nelle fasce più alte dei corsi di studio è stata verosimilmente influenzata dalle modalità di rilevazione che non hanno previsto un campionamento probabilistico. Nondimeno essa risulta coerente sia con il progressivo innalzamento del livello di istruzione, in particolare di quella femminile, che si è verificato negli ultimi decenni in Italia, sia con quanto emerso da numerose ricerche che hanno mostrato una significativa differenza nel tasso di adesione, sia a survey condotte via web sia in studi su larga scala, in relazione al livello socio-economico della popolazione target e, in particolare, in relazione al titolo di studio.

Per quanto riguarda lo stato occupazionale la quota maggioritaria di rispondenti (40% circa del totale) risulta svolgere un lavoro dipendente. Tra essi poco più di 1/4 è lavoratore dipendente pubblico mentre il restante è dipendente privato.

Un altro terzo di soggetti è titolare di pensione, nella maggior parte dei casi pensione da lavoro. Assumendo che i titolari di pensione e i lavoratori dipendenti pubblici siano fasce maggiormente tutelate rispetto a rischi secondari della pandemia, quali la perdita del lavoro e/o del reddito percepito nel periodo pre-coronavirus, si può osservare come queste categorie rappresentino poco più del 40% del totale dei soggetti reclutati.

Il 17% del campione svolge attività libero professionale, mentre l’8% è costituito da lavoratori/lavoratrici con contratti a termine, o comunque precari, e da persone senza occupazione. Valori inferiori per artigiani, commercianti e attività non previste dalle codifiche proposte.

Relativamente allo stato civile oltre il 60% dei rispondenti risulta single. Quote inferiori sono costituite (in ordine di numerosità decrescente) da divorziati, vedovi e separati.

Poco più di quarto dei soggetti ha figli (in oltre la metà dei casi 1 solo figlio, in un restante terzo 2 figli e in percentuali inferiori 3 figli o più).

Una parte consistente di coloro che hanno compilato il questionario (anche in questo caso superiore al 60%) dichiara di vivere da solo/a da oltre 10 anni. Percentuali progressivamente più basse per chi vive da solo/a da un periodo compreso tra 6 e 10 anni, tra 4 a 5 anni, tra 1 a 3 anni e da meno di un anno. Un terzo circa del totale risulta aver sempre, fatta eccezione per la famiglia di origine, abitato da solo/a.

Come ha vissuto questa popolazione il lockdown della scorsa primavera e più in generale la pandemia? I dati rilevati autorizzano a definire, come frequentemente accade, coloro che vivono da soli come una fascia di per sé particolarmente vulnerabile e a rischio?

Un primo dato interessante rilevabile dai questionari emerge osservando come alla domanda esplicita sui vissuti sperimentati durante il lockdown la maggioranza dei soggetti coinvolti nella rilevazione non abbia ritenuto di segnalare problematiche importanti: il 38% circa dichiara, infatti, di aver vissuto il lockdown ‘senza particolari ansie e fatica’ e il 30% l’ha addirittura definita ‘una esperienza nonostante tutto positiva e/o costruttiva’, portando a un totale complessivo decisamente elevato la percentuale di soggetti che non sembrano aver sperimentato disagi rilevanti durante e/o a causa del confinamento.

 

A esprimere invece situazioni di maggiori difficoltà è il 22% di coloro che hanno dichiarato di aver vissuto l’esperienza del lockdown ‘con ansia e insofferenza’ e poco meno del 10% di coloro per i quali il lockdown è stato causa di ‘grande fatica e angoscia’. Interessante rilevare come, in modo particolare nella coorte femminile, le valutazioni positive siano più frequenti tra coloro che hanno sempre vissuto da soli e tra coloro che vivono da soli da oltre 10 anni a testimonianza di quanto già riscontrato in altre ricerche e analisi sul tema che hanno evidenziato come il grado di soddisfazione per la propria condizione di ‘singolitudine’ crescesse con l’aumentare del numero degli anni in cui la si era sperimentata (ovvero più a lungo si vive da soli più se ne apprezzano i vantaggi e più si diventa competenti nel gestire in maniera efficace gli svantaggi).

Certamente influenza il risultato sopra descritto il non aver intercettato, se non in misura molto parziale, le situazioni di disagio più marcate. Così come è legittimo ipotizzare che ripetendo la rilevazione alla data attuale, che vede il perdurare delle restrizioni e l’allontanarsi del ritorno alla ‘normalità’, le valutazioni potrebbero essere diverse.

Ciononostante quello riscontrato appare comunque un esito molto interessante che già da subito contraddice una narrazione dell’abitare da soli come condizione di debolezza e come fattore di rischio. Anzi, ci si potrebbe persino spingere a ipotizzare che il vivere da soli possa, quantomeno a certe condizioni, esercitare al contrario una funzione protettiva. Si pensi, per esempio, al maggiore agio con cui le persone che non devono condividere il proprio spazio con altri abbiano potuto organizzare il lavoro da remoto o al fatto di non essere stati costretti durante il confinamento a sostenere una conflittualità familiare più elevata a causa della convivenza forzata o un aggravio del carico legato al lavoro di cura, per lo meno non nei termini e con l’estensione con cui tale conflittualità e tale aggravio si sono frequentemente prodotti all’interno di nuclei familiari pluripersonali.

Una ricerca dell’Università Cattolica di Milano[1] condotta nel primo mese di lockdown e finalizzata a comprendere come le famiglie avessero reagito ai vincoli imposti dalla pandemia non a caso attribuisce i livelli più elevati di stress e i livelli più bassi di benessere psicologico alle famiglie con figli (in particolare con figli piccoli o adolescenti) con valori che si modificano progressivamente passando alle coppie e alle famiglie con figli fuori casa per raggiungere i livelli di stress più bassi e quelli di benessere psicologico più elevati nel caso dei singles.

Una indiretta conferma di quanto sopra è rintracciabile anche nelle risposte alle domande volte a indagare se e in che misura non vivere da solo/a avrebbe potuto modificare i propri vissuti.

Alla domanda se una convivenza avrebbe consentito di sopportare meglio il confinamento in casa la popolazione coinvolta nella rilevazione si è divisa a metà, ovvero una parte dei rispondenti ha dichiarato che non abitare da soli non avrebbe sostanzialmente modificato i propri vissuti, mentre per l’altra, di numerosità sostanzialmente uguale, la coabitazione con altre persone avrebbe reso più facile affrontare il periodo di isolamento sociale.

Le percentuali sopra riportate si modificano però nelle risposte alla domanda del questionario volta ad appurare se la coabitazione farebbe sentire più sicuri non rispetto al periodo di confinamento, ma più in generale rispetto al futuro. La percentuale di chi sarebbe più ottimista, infatti, in questo caso si dimezza e solo un quarto delle persone ritiene che se non vivesse da solo/a guarderebbe al futuro con maggiore serenità. Un altro quarto, infatti, pensa che ‘dipende’, ovvero che la valutazione sia subordinata a condizioni la non conoscenza delle quali rende impossibile formulare un giudizio. La metà delle persone che hanno compilato il questionario, infine, dichiara che non vivere da solo/a non cambierebbe molto rispetto alle proprie preoccupazioni circa il futuro.

Questi dati sembrerebbero indicare che poter contare su una presenza accanto sia stata ritenuta, per lo meno da una parte della popolazione coinvolta nella rilevazione, una risorsa preziosa e desiderabile nella gestione della situazione contingente rappresentata dal lockdown ma appaia molto meno decisiva per far fronte a un futuro incerto le cui incognite e le cui variabili appaiono non controllabili dal/i singolo/i e pertanto non modificabili dalle personali condizioni di vita. Interessante sottolineare che le risposte delle donne e degli uomini non sono esattamente sovrapponibili.

Nella coorte maschile, infatti, risulta più elevata la percentuale di coloro che guarderebbero al futuro con più ottimismo se non vivessero da soli confermando quella che la letteratura ha identificato come maggiore capacità da parte delle donne di convivere con se stesse e, al limite, con la solitudine.

Con quali motivazioni coloro (la metà, come si è visto, dei soggetti) che hanno dichiarato che la convivenza non modificherebbe le immagini e/o le preoccupazioni rispetto al futuro hanno spiegato la propria convinzione?

Nelle loro risposte sono rintracciabili alcune categorie ricorrenti.

Ci sono infatti coloro che ribadiscono come il vivere da soli sia una condizione ben strutturata e solida che vuoi per scelta radicata vuoi per età e abitudini consolidate non ritengono plausibile discutere e pensare di modificare. Anche perché è per loro una condizione in cui si trovano ben acclimatati e che rende difficile ipotizzare come una eventuale convivenza potrebbe portare dei cambiamenti significativi o addirittura dei miglioramenti. Anzi, fa notare qualcuno, nel fatto stesso di porre la domanda è implicita una idea del vivere da soli come qualcosa di limitativo e di qualità inferiore rispetto ad altre condizioni, cosa che per coloro che appartengono a questo sottogruppo decisamente non è. Altri ribadiscono che il nodo è rappresentato dalla qualità e dalla ricchezza delle relazioni che si intrattengono per cui a fare la differenza non sono tanto le condizioni abitative ma le caratteristiche delle reti sociali entro cui si è collocati. ‘Abitare’ da soli, ribadiscono, non significa necessariamente ‘essere’ soli. E se manca qualcosa è piuttosto quella socialità, quella libertà di spostarsi, di viaggiare, di incontrarsi che facevano parte della vita ‘di prima’ e che non possono certo essere restituiti da una convivenza.

Ci sono poi, in grande numero, coloro che ritengono che le preoccupazioni di questo tempo e di quello prossimo futuro non cambierebbero se le si affrontasse vivendo insieme ad altre persone.

Al primo posto compaiono infatti l’incertezza su quando sarà possibile un pieno ritorno alla normalità e le preoccupazioni connesse alla crisi economica del Paese. Uno spazio importante nelle risposte delle persone coinvolte nella rilevazione hanno occupato anche le preoccupazioni legate all’infezione da coronavirus, ovvero il timore che possano ammalarsi di coronavirus le persone care e/o il timore di potersi ammalare in prima persona così come la paura di dover affrontare altri periodi di isolamento.

Diverse risposte hanno a che vedere con problematiche più strettamente personali, anche se ovviamente fatte emergere o esacerbate dalla situazione generale: vengono riferite, pure se in percentuali ridotte, preoccupazioni legate alle proprie difficoltà economiche o viene evidenziata la difficoltà di aver dovuto fare i conti con fragilità personali fino a quel momento non note o segnalate preoccupazioni per le proprie condizioni di salute o  la paura di perdere il lavoro e quella di non poter recuperare i livelli di reddito precedenti.

Di conseguenza, nelle risposte alla domanda relativa alle condizioni che farebbero sentire più sereni rispetto al futuro, compaiono come fattori più frequentemente citati una maggiore chiarezza a livello regionale e nazionale nelle strategie di gestione dal punto di vista sanitario delle prossime fasi e, con frequenza decrescente, la certezza di poter contare su assistenza sicura e stabile in caso di malattia (qualsiasi malattia, non solo il coronavirus), il poter contare in caso di bisogno su relazioni di amicizia, la ripresa del lavoro o più specificamente del lavoro in presenza, il poter contare in caso di bisogno su relazioni di parentela e di vicinato, poter contare su aiuti economici, avere un sostegno psicologico.

Quello che i dati sopra riportati sembrano nel complesso indicare è un buon adattamento dei rispondenti alla propria condizione di singletons[2].

Naturalmente le caratteristiche del campione possono avere influenzato questo esito e condizioni di maggiore fragilità potrebbero verosimilmente determinare vissuti molto diversi. Resta comunque un risultato capace di mettere in discussione stereotipi e rappresentazioni del vivere da soli ancora largamente diffusi e di fornire una visione della città più corrispondente alla realtà dei suoi abitanti intercettando quelli, tra di loro, che normalmente restano invisibili.

 

( Dati Ricerca e Testi di Graziella Civenti, Alessandro Magni, Orleo Marinaro, Gianna Stefan)


[1] Centro di Ateneo Studi e ricerche sulla famiglia Università Cattolica del Sacro Cuore La famiglia sospesa Vita e Pensiero, 2020

[2] La lingua inglese conosce e usa due diversi termini per designare il fenomeno della ‘singolitudine’.

Sono infatti definite singles le persone che ‘non hanno una seria/stabile relazione di coppia’ (De Paulo B. Singled out. How singles are stereotyped, stigmatized and ignored and still live happily ever after St Martin’s Press, New York, 2006) mentre singletons indica le persone che vivono da sole (Klinenberg E. Going Solo. The extraordinary Rise and Surprising Appeal of Living Alone The Penguin Press, New York, 2012). I due termini non si equivalgono (una persona single infatti non necessariamente vive da sola, così come una persona che vive da sola non necessariamente è single). La lingua italiana non permette tale distinzione e usa indifferentemente il termine single per designare categorie di persone anche molto diverse tra loro

Lascia un commento

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.