Gli approfondimenti dell’ISPI: Attacco al petrolio saudita, choc dei mercati e accuse all’Iran

Pubblicato il 10 Ottobre 2019 in Ideas

Sono pochissime le certezze attorno a quanto accaduto lo scorso sabato agli impianti petroliferi sauditi di Abqaiq e Khurais. Attacchi perpetrati con ogni probabilità da droni che hanno inflitto pesanti danni alla produzione petrolifera del regno, con pesanti ripercussioni sui mercati energetici globali. E mentre l’attacco viene ufficialmente rivendicato dai ribelli Houthi – che in Yemen combattono sul fronte opposto rispetto a Riyadh e che hanno minacciato nuovi attacchi – non si esclude che possa esser stato perpetrato da altri gruppi non statuali, e che sia arrivato da territorio yemenita così come da territorio iracheno. Nelle ore successive all’attacco, il Segretario di Stato USA Mike Pompeo ha accusato l’Iran, mentre il presidente Donald Trump in un tweet ha affermato che gli Stati Uniti sarebbero pronti a rispondere. Ciò che è certo è che quanto accaduto è ascrivibile alla scia di tensioni che interessano la regione del Golfo dopo l’avvio della strategia Usa di “massima pressione” nei confronti dell’Iran. Quali sono i danni per l’industria petrolifera e per le infrastrutture saudite? Cosa c’entrano le quotazioni in borsa della Aramco? E perché gli USA accusano l’Iran?

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Attacco ai pozzi sauditi, la reazione del mercato

L’attacco ha colpito al cuore la produzione petrolifera saudita, causandone una diminuzione di più del 50%. Con un totale di 5,7 milioni di barili in meno al giorno sul mercato, si registra oggi la maggiore interruzione imprevista della produzione mondiale di petrolio nella storia. La corrispondente riduzione del 5% dell’offerta globale di petrolio ha provocato un drastico aumento dei prezzi del greggio, che all’apertura del mercato lunedì mattina è aumentato di circa il 20% rispetto alle quotazioni di venerdì, raggiungendo i 71,9$ al barile. Una simile impennata del prezzo di apertura giornaliero del Brent non si verificava dall’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein nel 1990.

Al fine di attenuare le conseguenze della crisi sui mercati, il presidente USA Donald Trump ha autorizzato l’impiego delle riserve strategiche americane. Permane però una situazione di incertezza legata da una parte alla difficoltà di stabilire con precisione l’entità dei danni e i tempi necessari al ripristino delle operazioni, dall’altra allimpossibilità di escludere attacchi simili o su scala più ampia in futuro. Difficile anche stabilire con certezza le conseguenze per l’Italia, che da Riyadh importa l’8% del proprio petrolio. Dopo Iraq, Azerbaijan, Libia e Russia, l’Arabia Saudita è il quinto fornitore di Roma, che già nello scorso anno aveva dovuto ridistribuire il proprio import in conseguenza dell’entrata in vigore delle sanzioni USA sul petrolio iraniano.

Infrastrutture saudite, quanto sono vulnerabili?

Nel luglio di quest’anno, l’allora ministro dell’energia saudita Khalid al Falih in un’intervista esprimeva la propria preoccupazione riguardo alla sicurezza delle forniture di petrolio nel contesto dell’escalation di attacchi a petroliere e oleodotti nella regione da parte di attori statuali e non statuali, come “milizie che agiscono per conto dell’Iran e che mettono a repentaglio l’offerta globale di petrolio”. Negli scorsi mesi gli Stati Uniti hanno gradualmente aumentato la propria presenza nella regione – dapprima con il dispiegamento di 500 soldati presso la base aerea Prince Sultan in Arabia Saudita, poi con il dispiegamento di ulteriori 600 uomini, di una squadra di Air Force e B-52 e con la messa in allerta della USS Abraham Lincoln – allo scopo di ripristinare la deterrenza nei confronti di Teheran. Ciononostante, la regione – e in particolar modo l’Arabia Saudita – sembra rimanere vulnerabile a eventuali iniziative militari asimmetriche da parte dell’Iran. Teheran dispone del principale arsenale missilistico nella regione, con la capacità di colpire obiettivi fino a 2500 km di distanza dai propri confini. Alcuni di questi strumenti offensivi sono a disposizione anche degli alleati dell’Iran, come gli Houthi yemeniti che negli ultimi tre anni si sono resi responsabili di attacchi – seppur su scala minore – su infrastrutture saudite, come l’attacco del maggio 2019 su due impianti lungo la East-West Pipeline saudita. Teheran dispone inoltre di competenze estremamente avanzate in campo cyber, l’arma per eccellenza della guerra asimmetrica: in passato Saudi Aramco è stata oggetto di attacchi cyber, come nel caso dell’utilizzo del malware Shamoon, nel dicembre 2018. Infine, come dimostrato negli scorsi mesi, Teheran gode di significative capacità Anti-accesso (“anti-access/area denial”) marittime, in grado di minacciare le imbarcazioni in transito in punti strategici, come gli stretti di Hormuz e Bab el-Mandeb. L’Iran è inoltre l’unico paese della regione a disporre di una flotta sottomarina, oltre che di fregate, pattugliatori e motobarche veloci. In questo contesto, nonostante il crescente dispiegamento statunitense e l’aumento delle capacità difensive saudite – come anche i passi avanti registrati da Aramco in campo cyber – le infrastrutture critiche saudite rimangono vulnerabili all’azione iraniana. Potenziali target sono, come nel caso di Abqaiq, le infrastrutture petrolifere – tanto i giacimenti quanto gli impianti di separazione gas-petrolio (gas-oil separation plants, GOSPs) e di stabilizzazione – le raffinerie e gli oleodotti. Anche i porti sono bersagli critici: Ras Tanura e Ras al-Juaymah – sul Golfo persico – e Yanbu – sul Mar Rosso – rappresentano le tre principali facilities per l’esportazione del petrolio, da cui transitano rispettivamente 3,4, 3 e 1,3 milioni di barili al giorno di petrolio. Al di là del settore petrolifero, altri obiettivi critici sono rappresentati dagli impianti di desalinizzazione – dai quali deriva il 70% dell’acqua potabile distribuita nelle città saudite – e le reti di trasmissione elettrica. Queste ultime, oltre a rappresentare un obiettivo di per sé, sono anche esposte a ripercussioni negative derivanti da attacchi al settore petrolifero: circa ⅔ dell’elettricità viene infatti prodotto utilizzando petrolio.

Il nodo della quotazione in borsa di Saudi Aramco

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Produzione petrolio dal 2008 a oggi

L’attacco alle infrastrutture petrolifere saudite rischia di rallentare il processo di quotazione in borsa di Saudi Aramco, che proprio nelle ultime due settimane aveva subito una improvvisa accelerazione per mano del principe ereditario Mohammed bin Salman (MBS). Nelle ultime due settimane, infatti, diversi segnali hanno sembrato indicare un imminente approdo in borsa – entro la fine dell’anno – della compagnia petrolifera. Tra questi, l’estromissione di Khalid al Falih, chairman di Aramco e ministro dell’Energia e dell’Industria e il fatto che questi due dicasteri siano stati separati. Quindi la nomina di due uomini di fiducia di MBS, il fratello Abdulaziz bin Salman e il capo del fondo sovrano saudita Yasir al-Rumayyan rispettivamente a nuovo ministro dell’energia e nuovo chairman di Aramco. Il motivo principale dietro al rimpasto sembra essere stato il noto scetticismo di Khalid al Falih nei confronti dell’Initial Public Offering (IPO, cioè l’offerta iniziale al pubblico quando una società entra in Borsa) di Aramco. L’ex ministro dell’energia, dalla decennale esperienza nel settore, avrebbe cercato negli scorsi mesi di imporre un approccio più cauto alla questione della quotazione, in parte per le incognite legate alle conseguenze legali e agli obblighi di trasparenza derivanti dalla quotazione, in parte per difficoltà nel dimostrare che il target di valore fissato da MBS per la quotazione – 2 trilioni di dollari – fosse effettivamente raggiungibile. Con un approccio decisionista già dimostrato in questi due anni, MBS avrebbe dunque rimosso gli ostacoli al proprio obiettivo: la quotazione di Aramco è infatti al centro del piano di riforme “Vision 2030” per la diversificazione dell’economia del paese, l’emancipazione dalle rendite petrolifere e l’attrazione di capitali privati. Gli attacchi di sabato rischiano però ora di rallentare ulteriormente l’IPO. Ora è infatti più difficile convincere i potenziali investitori della stabilità e dell’affidabilità dell’azienda e della sua capacità di ripristinare celermente la produzione e far fronte a simili attacchi in futuro, anche e soprattutto in considerazione dei recenti cambiamenti al vertice.

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Un’altra conseguenza della “massima pressione” Usa

Gli attacchi dello scorso sabato rappresentano un ulteriore tassello di un quadro di sicurezza regionale in rapida disintegrazione. Da più di un anno si è infatti aperta nella regione una ulteriore crisi – che va ad aggiungersi alle numerose già aperte – scaturita dalla decisione statunitense di ridefinire la propria politica verso l’Iran, abbandonando l’accordo sul nucleare e implementando una politica sanzionatoria sempre più stringente. Dal maggio di quest’anno Teheran ha chiaramente segnalato l’intenzione di rispondere a tale politica, da una parte con la graduale violazione di alcune parti dell’accordo sul nucleare, dall’altra con l’adozione di una postura più aggressiva nel quadrante del Golfo Persico. Obiettivo iraniano è il sollevamento delle draconiane sanzioni sul petrolio che hanno privato Teheran della principale fonte di entrate economiche. In questo contesto, gli attacchi e i sabotaggi alle petroliere in transito attraverso lo stretto di Hormuz così come i plausibili attacchi alle infrastrutture petrolifere saudite sarebbero tesi a segnalare la propria capacità di infliggere danni ai propri avversari ma anche alle economie occidentali, in primis a quella statunitense (nei prossimi mesi, un eccessivo innalzamento del prezzo del petrolio potrebbe influire negativamente sulle possibilità di rielezione di Donald Trump). Al contempo, però, nella strategia iraniana è possibile ravvisare una certa cautela: l’obiettivo è quello di lanciare un segnale, mantenendo una certa opacità rispetto al proprio ruolo (“plausible deniability”), non quello di infliggere danni su vasta scala (che inevitabilmente costringerebbe gli Usa a una risposta militare). Questa strategia è funzionale a un ritorno al tavolo negoziale da una posizione di forza. Dopo la partecipazione a sorpresa del ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif a colloqui sul futuro del JCPOA a margine del G7 di Biarritz lo scorso agosto, sembra aver preso forma la possibilità dell’apertura di una linea di credito francese verso Teheran da 15 miliardi di dollari. L’iniziativa del presidente francese Emmanuel Macron, che aveva ricevuto la secca condanna dell’allora Consigliere per la sicurezza nazionale Usa John Bolton – poi estromesso dalla Casa Bianca – sembra esser stata salutata positivamente da Trump. Il licenziamento di Bolton, così come il desiderio ripetutamente espresso da Donald Trump di incontrare il presidente iraniano Hassan Rouhani a margine dei prossimi lavori dell’Assemblea generale ONU hanno effettivamente aperto la possibilità di una ripresa del dialogo. In questo senso, gli attacchi di sabato potrebbero fungere da ennesimo reminder della posta in gioco e della necessità di cercare una via di uscita dall’attuale escalation.

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Fonte: ISPI

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