Lady Macbeth rappresenta per Šostakovič il tentativo più audace di coniugare innovazione musicale e impegno narrativo, secondo un’idea teatrale radicalmente moderna: un’opera che non nobilita, ma rivela gli abissi morali della Russia zarista e, in filigrana, della stessa società sovietica
Quando Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk vide la luce nel 1934, Dmitrij Šostakovič aveva appena ventotto anni, ma era già uno dei protagonisti più inquieti e discussi della scena musicale sovietica. Nato nel 1906 a Leningrado, formato nell’ambiente febbrile degli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione, Šostakovič mostrava un talento straordinario nel tenere insieme virtuosismo tecnico, tensione drammatica e una sottile vena di sarcasmo tragico che diventò la sua cifra più personale.
Gli anni Trenta, però, furono per lui un periodo di pericoloso equilibrio. Da un lato, il suo linguaggio musicale era vicino alle avanguardie europee, nutrito di Prokof’ev, Berg e del nuovo cinema sovietico. Dall’altro, il clima politico stava stringendo la morsa: il realismo socialista diventava dogma estetico, e ogni deviazione era sospettata di formalismo, cioè di “arte per l’arte”, considerata borghese e antisocialista.
In questo contesto, Lady Macbeth rappresentò per Šostakovič il tentativo più audace di coniugare innovazione musicale e impegno narrativo, secondo un’idea teatrale radicalmente moderna: un’opera che non nobilita, ma rivela gli abissi morali della Russia zarista e, in filigrana, della stessa società sovietica.

Una trama ampia, intensa, e senza moralismi
La vicenda di Katerina Izmajlova è quella di una donna trascinata verso il crimine non per vocazione malvagia, ma per una disperata sete di vita. Katerina è la giovane moglie di un ricco mercante della provincia russa. La sua esistenza scorre immobile, soffocata da un matrimonio senza amore e dalla sorveglianza ossessiva del suocero Boris, figura patriarcale brutale, custode di un ordine familiare fondato sul sospetto e sull’umiliazione. In questa casa non esiste tenerezza, né eros, né libertà.
L’apparizione di Sergej, operaio ambizioso e sensuale, rompe il guscio dell’apatia. Tra lui e Katerina nasce una passione travolgente, che non è solo desiderio, ma insurrezione emotiva: un rifiuto dell’intero mondo oppressivo che la circonda. La loro relazione, scoperta da Boris, conduce al primo omicidio: Katerina avvelena il suocero, scegliendo la colpa pur di difendere la sua unica fonte di vita.
Il ritorno improvviso del marito Zinovij, sospettoso e intimorito dall’autorità paterna, rischia di svelare tutto. Ne segue un secondo omicidio, questa volta più violento: Katerina e Sergej lo strangolano insieme. È un momento cruciale dell’opera: l’“iniziazione” criminale della protagonista, che diventa padrona della propria sorte, ma allo stesso tempo prigioniera irreversibile dei propri atti.
Durante i preparativi per le nozze tra Katerina e Sergej, un macabro ritrovamento — il corpo del marito murato in cantina — porta alla loro denuncia. L’ombra del potere sociale, che sembrava lontana, riappare con violenza. Gli amanti vengono condannati alla deportazione in Siberia.
Il viaggio al confino, in una processione di condannati, è il vero punto tragico dell’opera. Sergej rivela la sua natura opportunista e crudele: abbandona Katerina, la deride, si lega a un’altra donna più giovane. La passione che l’aveva liberata diventa la causa della sua distruzione.
Umiliata, isolata dai detenuti, abbandonata dal suo unico amore, Katerina compie il gesto finale: afferra la rivale e si getta con lei nel fiume gelato.
La sua fine è un atto di negazione del mondo, più che di punizione di sé: un ultimo, disperato atto di libertà.
Opera in quattro atti
Libretto di Aleksandr Prejs e Dmitrij Šostakovic
Dall’omonima novella di Nikolaj Leskov
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Nuova produzione Teatro alla Scala


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