Guidati dallo psichiatra che ha assistito con noi alla visione del film, navighiamo all’interno delle pieghe psicologiche e simboliche del film “Elisa”, diretto da Leonardo Di Costanzo e presentato alla Biennale di Venezia. Attraverso l’analisi della protagonista, ispirata a un caso reale, e dei concetti di memoria rimossa, senso di colpa e giustizia riparativa, ecco una lettura profonda di un’opera cinematografica che non lascia indifferenti
Vorremmo iniziare chiedendole un commento generale su “Elisa”, il nuovo film di Leonardo Di Costanzo presentato alla Biennale Cinema Venezia82. Che impressione le ha lasciato?
L.R.- Elisa è un’opera intensa e raffinata, che si addentra con delicatezza e rigore nel dramma umano di una donna condannata per l’uccisione della sorella. Il film ha il coraggio di affrontare non solo l’evento delittuoso, ma soprattutto il vuoto di senso, la rimozione e il silenzio interiore che circondano il gesto. Di Costanzo ci propone una narrazione rarefatta, ma densissima, centrata più sui dialoghi e sul non detto che sull’azione. È un film sul peso della memoria e sul lungo, doloroso cammino verso una possibile consapevolezza.
Nel film, Elisa — condannata a trentacinque anni per l’omicidio della sorella — sembra non ricordare nulla del crimine. Cosa ci dice questo sulla psicologia del personaggio?
L.R.- È proprio questo il cuore del film. Elisa vive come avvolta in un velo: ha rimosso o forse mai veramente elaborato il delitto. Questo stato di oblio non è solo un meccanismo di difesa, ma diventa un tratto esistenziale. Negare l’atto significa negare la colpa, e quindi mantenersi in una zona emotiva neutra, anestetizzata. Quando incontra il criminologo Alaoui — personaggio ispirato agli studi di Ceretti e Natali — ha finalmente davanti a sé un interlocutore capace di ascoltare, di non giudicare, ma anche di non cedere: è lui a richiamarla alla realtà, a sottolineare che non si parla di semplici “fatti”, ma di “omicidio”.
Come si articola questo rapporto tra Elisa e il criminologo?
L.R.- È un incontro complesso, terapeutico. Elisa agisce spesso per impulsi e poi nega l’azione, come se potesse cancellarla. Il criminologo le fa da specchio, ma anche da guida. Non indulge, non cede alla pietà, ma insiste su un punto fondamentale: la presa di coscienza non può essere evitata. È solo attraverso questa lenta emersione dei ricordi — e della responsabilità — che Elisa può forse riconciliarsi con se stessa, o almeno iniziare a farlo.
Lei ha citato Ceretti e Natali. Che ruolo hanno avuto questi due criminologi nel concepimento di questo film?
L.R.- Fondamentale. Il film è ispirato ai loro studi sulla criminologia dell’incontro, una corrente che propone un confronto diretto, seppure mediato e protetto, tra vittime e autori di reato. Il caso reale da cui parte Elisa è quello di Stefania Albertani, condannata per un crimine molto simile. Ceretti e Natali hanno documentato un intero anno di colloqui con lei, confluiti nel volume Io volevo ucciderla. Il personaggio del criminologo Alaoui nel film è la sintesi simbolica di questa esperienza.
Il film sembra suggerire che anche in assenza di una diagnosi psichiatrica o di contesti di marginalità sociale, il male possa comunque emergere. È così?
L.R.- Assolutamente. Ed è ciò che più inquieta. Elisa non è una paziente psichiatrica, né una persona emarginata. È — o era — una donna apparentemente normale. Eppure ha commesso un atto irreparabile. Questo costringe a interrogarci sul potenziale distruttivo insito in ciascuno, sulla fragilità del nostro equilibrio. È un film che scuote, proprio perché non permette di relegare il crimine alla patologia o alla devianza.
Che ruolo ha la famiglia nella formazione psicologica di Elisa?
L.R.- Decisivo. Una nota di Laura Ambrosiano nel libro a cui il film si ispira lo evidenzia bene: Elisa ha assorbito, fin da bambina, un sistema educativo fondato su aspettative implicite, sulla compiacenza e sul sacrificio di sé. È cresciuta cercando di essere all’altezza, tentando di superare la mortificazione di essere una figlia non desiderata e la più piccola. Ma crescere troppo in fretta significa non crescere affatto. Questa dinamica affiora potentemente nel film, anche attraverso i silenzi e le espressioni trattenute della protagonista.
Parliamo dell’interpretazione di Barbara Ronchi…
L.R.- Barbara Ronchi è davvero notevole. Il suo volto, spesso in primo piano, non nasconde le ferite del personaggio. La sua preparazione culturale — è laureata in Scienze storiche e archeologiche — le consente di affrontare ruoli complessi con profondità e misura. La sua Elisa è trattenuta, mai teatrale, ma proprio per questo autentica. Ogni suo silenzio parla, ogni sguardo comunica.
Nel film compare anche un altro personaggio chiave: una madre che ha perso il figlio in un’aggressione. Qual è la funzione di questa figura nella narrazione?
L.R.- È un raffinato cameo, interpretato da Valeria Golino. La madre, ferma nel suo rifiuto di incontrare o perdonare gli assassini del figlio, incarna l’altra faccia dell’immobilità: non quella della memoria negata, ma del risentimento alimentato. Lei ha bisogno dell’odio per continuare a vivere. È un potente contrasto con Elisa e suggerisce come la criminologia dell’incontro possa avere un ruolo anche per le vittime: per riattivare, se non la speranza, almeno una forma di giustizia più profonda, più umana.
Un’ultima domanda: che lettura dà del lavoro di Di Costanzo in questa regia?
L.R.- Con Elisa, Di Costanzo cambia prospettiva rispetto a opere precedenti come Aria ferma, che raccontava il carcere. Qui entra nell’intimità di un percorso interiore. Sceglie un ritmo lento, pochi eventi, dialoghi precisi e compiuti. Anche la musica è discreta, non manipola l’emozione. Il pathos nasce dalle parole e dai silenzi. È un film che richiede attenzione e rispetto. Ma chi accetta il suo passo, ne esce profondamente toccato.

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