“Father” di Teresa Nvotovà: memoria, colpa e giudizio sociale

Pubblicato il 31 Agosto 2025 in Outdoor Cinema
Father

Visto a Venezia82, il film affronta la Forgotten Baby Syndrome come chiave per interrogarsi su responsabilità morale, fragilità psichica e stigma collettivo. Ne discutiamo con lo psichiatra Leonardo Resele

D: Dottor Resele, quali sono i temi principali che emergono da Father, alla cui proiezione lei ha assistito per Grey Panthers, in anteprima, alla Biennale di Venezia82?
R: Il film si apre su interrogativi drammatici: un tragico errore può distruggere la vita di un uomo, isolandolo nel senso di colpa e minando il suo matrimonio. E soprattutto: l’amore può sopravvivere a ciò che nessun cuore sembra in grado di sopportare? La regista Nvotovà affronta una tematica scomoda, difficile da definire, ma di estrema attualità, che ben si colloca nella linea dei suoi lavori precedenti che hanno toccato problemi sociali e intimi con coraggio.

D: In che continuità si colloca Father rispetto alla filmografia di Teresa Nvotovà?
R: La regista non teme mai i tabù. Nei suoi film ha parlato di femminismo (Nightsiren, 2022), violenza sessuale in ambito familiare (Filthy, 2017), corruzione politica (The Lust for Power, 2017), fino agli intrecci di potere di Our People (2025). Con Father decide di affrontare la cosiddetta Forgotten Baby Syndrome, un evento raro e tragico, spesso ridotto a un titolo di cronaca.

D: Può spiegarci di cosa si tratta dal punto di vista clinico?
R: La Forgotten Baby Syndrome si verifica quando un bambino, di solito sotto i due anni, viene dimenticato in auto dal genitore. L’esito più noto è la morte per colpo di calore, che può sopraggiungere in meno di un’ora. L’opinione pubblica tende a reagire con accuse di negligenza, sospetto di uso di sostanze o di patologica instabilità psichica. Ma nella maggioranza dei casi, e come in questo film, i genitori sono persone amorevoli e responsabili. La spiegazione più fondata è un deficit transitorio della “memoria di lavoro”: un’interruzione momentanea nel meccanismo che integra percezioni, ricordi e azione.

D: Come viene rappresentato Michael, il protagonista?
R: È un uomo comune, brillante manager sotto pressione, marito affettuoso, padre presente. In un’unica giornata deve affrontare compiti multipli e stressanti: la figlia da portare all’asilo, il futuro incerto dell’azienda, le continue richieste della moglie. È in questa sovrapposizione di compiti, pensieri e falsi ricordi che avviene la tragedia. Lo spettatore vive con lui il momento in cui scopre che la figlia è rimasta in auto: prima incredulità, poi la caduta brutale nella colpa.

D: E come reagisce l’ambiente attorno a lui?
R: La moglie lo accusa di non aver mai accettato la bambina. Gli amici si mostrano solidali, ma con diffidenza. È una dinamica che conosciamo bene: il giudizio sociale amplifica il senso di colpa. Nvotovà riesce a trascinare lo spettatore dentro questo meccanismo, inducendolo a identificarsi con Michael, a sperimentare in prima persona sospetto, vergogna e isolamento.

D: Lei accennava al dibattito giuridico. Quanto pesa la responsabilità morale in casi simili?
R: È un tema complesso. Alcuni esperti sostengono che la Forgotten Baby Syndrome non possa essere ridotta a colpa cosciente, ma a un cedimento temporaneo della “memoria di lavoro”. Freud stesso avrebbe parlato di “atto mancato”, una manifestazione di ambivalenza inconscia. La domanda è: quanto questa spiegazione debba tradursi in attenuazione della responsabilità legale. È legittimo che un giudice eviti di infliggere una pena, se la vita stessa ha già imposto una condanna devastante?

Venezia82- tereza Nvotova

D: Dal punto di vista stilistico, che scelte compie la regista?
R: Rifiuta la struttura episodica convenzionale, che avrebbe ridotto la vicenda a una sequenza di fotografie di un funerale. Vuole, invece, un cinema immersivo, esperienziale. I lunghi piani sequenza obbligano lo spettatore a vivere senza filtri l’esperienza del protagonista, senza interruzioni né distanze. È un cinema che chiede partecipazione emotiva totale.

D: Che impatto ha avuto questa scelta sugli attori?
R: Milan Ondrík, interprete di Michael, ha dichiarato che è stato il ruolo più difficile della sua carriera. In riprese da venti minuti non si poteva fingere: era costretto a provare davvero quelle emozioni. Questo ha dato al film un’autenticità emotiva rara, ma al prezzo di uno sforzo psichico enorme.

D: In conclusione, che lettura offre lei, da psichiatra, di Father?
R: Non è un film su una tragedia, ma su un amore che si misura con la perdita assoluta. È un viaggio nei luoghi psichici dove il controllo vacilla e l’identità si incrina, un terreno che di solito non compare nelle biografie né nei racconti filmici. È qui, in questi “momenti intermedi” in cui nessuno ci guarda e siamo nudi davanti a noi stessi, che Father trova la sua verità.

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