Chissà per quale perversione alcuni soggetti sviluppano passioni intense per coloro che non danno motivo di essere amati, che non lasciano l’impressione di voler corrispondere il trasporto di cui sono oggetto.
“Tu mi piaci, Costanza, ma sono un po’ confuso.” Ma come aveva fatto a pronunciare una frase del genere? Come aveva potuto svilirsi in tanto misera banalità? Confuso, quando mai era stato confuso in vita sua? Da quanto gli pareva di ricordare, aveva sempre saputo cosa voleva, sempre saputo cosa faceva. Forse quella era la prima volta, o magari era per via dell’argomento.
“Non ci crederai, lo so, ma sono confuso.” Disse di nuovo. “Sei sicura di volertene andare?”
“Domani avrai le mie dimissioni. Non me ne vado per dispetto, ma perché così non va bene. Non è sano. Avrai i quindici giorni di preavviso e poi proprio ti dovrò salutare.”
“Non c’è bisogno che resti con me nemmeno per un altro minuto. Sei libera da subito.”
“Voglio fare i miei quindici giorni di preavviso. Tutti.”
“Perché?”
“Per vederti.” Costanza non voleva controllare le parole. Aveva già spasimato abbastanza, e tanto doveva resistere solo due settimane.
“Resta a casa e vieni a cena con me. Domani e dopo e dopo ancora non posso. Ti va bene giovedì? Vengo a prenderti alle otto.”
“Non sai dove abito.” Disse lei. Ma sì che lo sapeva. Alessio si teneva informato sulla residenza dei suoi dipendenti. La macchina accostò al numero civico 1 di Viale Abruzzi.
“A cosa serve mangiare insieme?” chiese Costanza mentre scendeva.
“Niente. Però mi farebbe piacere. Puoi non venire a cena e non venire al lavoro, se preferisci. Vedi tu.”
“Non verrò più a lavorare e verrò a cena. Vorrei evitare, ma non posso stare senza vederti. Buonanotte e grazie.” Chiuse la portiera e non si voltò. Non serve girarsi quando si ama una persona che ama tutt’altro.
“Buonanotte.” Le disse, ma lei era lontana. Alessio non sapeva cosa stava facendo. L’aggettivo confuso gli suonava nella testa come il batacchio di una campana.
Fece un giro in macchina, lungo le strade percorse negli ultimi otto anni. Erano otto? Gli era difficile incasellare gli eventi della sua vita milanese. C’era l’ufficio, c’erano i soldi, c’era l’altra finanza. Tutte cose che hanno una data precisa sulle carte, ma che per lui non avevano più spessore del foglio su cui erano scritte. Una sommatoria di azioni senza visione: ecco ciò che aveva accumulato per anni.
Solo quando passò dalle parti di Brera gli sembrò che ci fosse un punto fermo, il Van Gogh. Lo spessore di un disegno sulla tela è tutto diverso, non c’è dubbio.
“Anni sprecati.” Tutto tempo buttato. Sì, guidare gli faceva bene. Doveva restituire a se stesso il proprio nome e il proprio tempo.
Tornò in albergo a notte fonda.
Nei quattro giorni che seguirono lavorò sedici ore al giorno, prendendo accordi e contatti e depositando firme e facendo colloqui. Vide decine di persone, prese decine di decisioni.
Il pomeriggio di giovedì lasciò l’ufficio alle quattro senza dare spiegazioni, andò dal barbiere e dal sarto a ritirare un abito nuovo che aveva dimenticato da mesi. Tornò in albergo, si sistemò e andò a prendere Costanza.
Lei salì in macchina sospettosa, ma elegante. Profumata, ma distaccata.
“Ti porto in un ristorante bellissimo, adatto a te.”
“Perché mi parli così?” chiese lei.
“Ti corteggio. Faccio male?”
“Sì, fai male.” Costanza lo disse con dolore, come se quel male lo provasse da anni.
Posto meraviglioso, cena ottima, compagnia brillante: Costanza non riconosceva l’uomo seduto davanti a lei, ma non ne era attratta di meno. Al dolce ebbe la certezza di essere vittima di una possessione demoniaca.
Alessio non si conosceva più, e di quella sera cercò di immettere nella memoria ogni particolare. Si sentiva rilassato, perché per lui in un certo senso era finito il tempo di dimenticare.
Fecero una passeggiata e lui le prese la mano. “Non sono una donna viziosa, né annoiata, non psicopatica e tantomeno arrivista. Ti amo per qualcosa di interiore che non posso governare. Perché tu sei bello come il sole, in tutto.”
Non era la prima volta che Alessio sentiva parole del genere. Pensò alle donne che aveva mandato via, e pensò che era ora di smetterla. Così disse a Costanza che la amava e la amò per quasi un giorno, quasi con passione e pressoché con intensità.
Costanza si svegliò nella suite di Alessio e scoprì prima di colazione che lui se n’era andato. Sullo scrittoio aveva lasciato un foglio con un numero di telefono e tre parole: chiama Arnaldo Cattaneo. Per il resto il nulla.
Lo chiamò al cellulare, chiese al portiere dell’albergo, provò in ufficio. Niente.
Le aveva detto che la amava e la mattina dopo se n’era andato via, scomparso del tutto. Certo gliel’aveva detto solo perché aveva intenzione di sparire. Era tutto premeditato, anche il bigliettino di addio. Il numero che aveva lasciato faceva intendere che non sarebbe tornato, almeno per un po’. Chiamò Arnaldo Cattaneo. Era l’avvocato prediletto di Alessio, per quanta predilezione si possa nutrire per un avvocato, ed era ciò che di più vicino a un amico lui avesse. Costanza lo conosceva da tempo. Arnaldo era un’anima sensibile, tutto l’opposto di quello che avrebbe dovuto essere uno che faceva il suo mestiere. Uno che alle udienze sudava, e sudava di più quando sapeva di avere torto. Però Alessio, che era uno squalo maestro di squalitudine, si fidava di lui. Chissà perché.
“Buongiorno, avvocato Cattaneo. Sono Costanza Galimberti. Il dottor Accardi mi ha lasciato il suo numero e …”
“Sì, Costanza, Alessio vuole che lei sappia che ha deciso di prendersi una vacanza dalla propria vita. Si occuperà dei suoi affari per via telematica, e nel frattempo ha assunto un team di professionisti. Starà via sei mesi, massimo un anno. Per tutte le sue esigenze, signora, Alessio ha stabilito un fondo che lei può venire a ritirare qui da me quando vuole, anche oggi.”
“Non poteva dirmelo di persona, che se ne andava?”
“Non se l’è sentita, ha preferito chiedere a me.”
Alessio era un bastardo, ecco cos’era. E un verme. Ma no, forse era solo un disgraziato con turbe relazionale. A ogni modo, Costanza sentì la sua anima incrinarsi.
“Grazie, avvocato. La saluto.”
“Non se la prenda Costanza, Alessio è fatto così, ma è un buon diavolo. Quando pensa di passare per firmare i documenti?”
“Mai. Non passerò mai.”
Costanza era a pezzi. Aveva creduto – a torto – che una passione come quella che aveva per Alessio si sarebbe alimentata anche se non corrisposta. Lei si era illusa di avere questo potere. Uno sbaglio. L’evidenza era un’altra. Quanto ci vuole per arrendersi alla maledetta evidenza? Tutta la vita? Una sera? Un pomeriggio infelice? Un cattivo risveglio?
Avrebbe trascorso molto tempo a cercare di ricordare, superare, affrontare, rivisitare. Poi avrebbe deciso che non aveva più l’età né la volontà di aspettare e avrebbe ripreso la sua vita. Sapeva che sarebbe andata così e si consolò dicendo che almeno una cosa da Alessio si sarebbe impegnata a impararla: la rimozione di chi trascorre molesto nella tua vita. Senza evidenza, non ci vuole che un attimo, per dimenticare. Magari un attimo un po’ più lungo del previsto, nel suo caso disperato.
Alessio quel pomeriggio arrivò al mare. Dimenticare ciò che si è stati costretti a essere, e diventare ciò che si deve essere: questo lo scopo che Alessio aveva da sempre perseguito, con successo. Diventare ciò che si vuole essere: questo il passo successivo, ciò che Alamaro avrebbe fatto a partire da quel pomeriggio di sole nella baia di Garavan.
Fece una passeggiata fino al più lussuoso albergo della zona, dove prese una suite.
Alamaro disse addio ad Alessio e iniziò la sua carriera di barbone in Costa Azzurra. Si alzava quando voleva, andava a spasso su un lembo aggettante di spiaggia, chiedeva l’elemosina senza vergogna. Guardava gli altri, ascoltava i discorsi, lasciava che tutte le impressioni e le emozioni che per anni aveva sistematicamente appiattito rifluissero e prendessero volume.
Verso sera si univa agli altri clochard nella piazzetta centrale del paese. Sedevano insieme su un divano sfondato, i cani randagi raccolti per strada giocavano e loro, uomini e donne, bevevano birra e vini infimi, piangendo e ridendo, in quella forma di limbo della disperazione che è tipico di chi ha rinunciato alla vita così come la intende la società che tanto per ridere definiamo civile.
Alamaro preferiva l’aranciata amara, che assomigliava alla birra ma lo dissetava di più. Gli altri non facevano domande. Nessuno faceva domande sul prima e sul dopo, ma solo sul sole del mattino e su cosa comprare per cena.
Rimosso infine se stesso, poteva ricostruirsi dalle fondamenta, e accettare i ricordi.
Riguardo a Costanza, confidava nella rimarginazione cosmica, quell’intangibile che aggiusta l’inaggiustabile, sperando funzionasse. Però da quel giorno non smise più di pensare a lei.



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