Fuocoammare

soggetto e regia Gianfranco Rosi cast Samuele Puccillo, Pietro Bartolo, Mattias Cucina, Samuele Caruana, Giuseppe Fragapane, Maria Signorello, Francesco Paterna, Francesco Mannino, Maria Costa (tutti nel ruolo di loro stessi) genere documentario durata 108′

La normalità dell’emergenza è il filo conduttore del film di Gianfranco Rosi, fresco vincitore del massimo premio al Festival di Berlino. Premio che si somma al Leone d’Oro veneziano di tre anni fa assegnato a Sacro Gra, un altro documentario. Due premi del genere, nonché la relativa grancassa mediatica, fanno di Rosi (sei film girati finora) il nuovo Gran Maestro del cinema italiano? La risposta purtroppo è no. Il discorso sui premi sarebbe lungo e non è certo da oggi (e neppure solo nell’ambito cinematografico) che i vari Oscar, César, Nastri e Donatelli (nonché gli Strega, i Bagutta e persino i Nobel) vengano assegnati per motivi, diciamo così, “politici”. Come spiegarsi, si domanda lo scrittore Tim Parks, il periodo dei Nobel ai dissidenti del blocco sovietico o agli scrittori sudamericani contro le varie dittature o al turco Pamuk se non in quest’ottica? Dunque un Orso alla Berlinale può ben servire innanzitutto a lavarsi la coscienza collettiva di un continente, l’Europa, che finora ha balbettato a più voci di fronte a un fenomeno, la migrazione di massa dall’Africa e dal Medio Oriente, che la scuote alle radici.

Tuttavia non bastano le buone intenzioni, né i mesi passati a Lampedusa (o sul Grande Raccordo Anulare) a produrre il capolavoro. Il documentario di Rosi sul primo avamposto europeo nel Mediterraneo è un film frammentario e soporifero, del tutto simile in questo a Sacro Gra. Manca un filo conduttore (che non sia la generica propensione all’accoglienza del lampedusani) e non c’è fusione sostanziale tra le storie del piccolo Samuele e dei suoi amici, del medico Pietro Bartolo, raccontate con ammiccante partecipazione, e le odissee dei migranti. Allo stesso modo alcune suggestioni iconografiche restano inspiegabili o fini a se stesse. È il caso, per esempio, della scelta di mostrare i migranti prevalentemente come silhouette, per sottolineare la loro spersonalizzazione nel momento in cui da uomini, donne e bambini diventano “numeri” da catalogare, classificare e smistare, anche quando arrivano avvolti in sacchi di plastica. Non a caso il momento topico, regolarmente ripreso dai vari passaggi televisivi dell’Orso pellegrino, è lo sfogo del dottor Bartolo sull’incapacità di assuefazione alla morte. Ma sono pochi minuti nell’arco di tutto il film.

Terza e ultima questione: il genere. Sommerso da fiction e da effetti speciali sempre più speciali, il pubblico del XXI secolo sembra essere ormai disassuefatto al potere straniante e alla violenza dell’immagine cinematografica quando questa ci mostra senza infingimenti il mondo che ci circonda. O meglio: ciò che del mondo che ci circonda i telegiornali e i vari talkshow se ne guardano bene dall’esibire con il motivo (legittimo) della “fascia oraria protetta”. Vedere al cinema ciò che il tv non passerà mai (a cominciare dai corpi inerti con cui Rosi chiude il suo film) può generare l’idea che il minimo sindacale di un buon documentarista sia un azzardo al massimo grado. È lo stesso processo mentale che porta un affamato di tre giorni a scambiare una minestrina per un pranzo luculliano. E il punto è questo: Rosi si innesta su una tradizione, quella del cinema documentario che ha una sua storia, diverse scuole e fior di autori. Più nel passato che nel presente appunto per la piega che il cinema ha preso dagli anni ’50 del secolo scorso. Tuttavia, senza scomodare i nomi di Robert Flaherty o Joris Ivens, anche l’Italia ha avuto fior di documentaristi a cominciare da un autore, come Ermanno Olmi, che del documentario ha fatto largo impiego accanto alla produzione di film a soggetto. Ma anche in America, Paese che Rosi conosce bene, vive e lavora un certo Michael Moore, che del documentario di denuncia sociale ha fatto il proprio cavallo di battaglia. Con risultati decisamente più interessanti di quelli visti in Fuocoammare.

Auro Bernardi: Nel 1969, quando ero al liceo, il film La Via Lattea di Luis Buñuel mi ha fatto capire cosa può essere il cinema nelle mani di un poeta. Da allora mi occupo della “decima musa”. Ho avuto la fortuna di frequentare maestri della critica come Adelio Ferrero e Guido Aristarco che non mi hanno insegnato solo a capire un film, ma molto altro. Ho scritto alcuni libri e non so quanti articoli su registi, autori, generi e film. E continuo a farlo perché, nonostante tutto, il cinema non è, come disse Louis Lumiére, “un'invenzione senza futuro”. Tra i miei interessei, come potrete leggere, ci sono anche i viaggi. Lo scrittore premio Nobel portoghese José Saramago ha scritto: “La fine di un viaggio è solo l'inizio di un altro. Bisogna ricominciare a viaggiare. Sempre”. Ovviamente sono d'accordo con lui e posso solo aggiungere che viaggiare non può mai essere fine a se stesso. Si viaggia per conoscere posti nuovi, incontrare altra gente, confrontarsi con altri modi di pensare, di affrontare la vita. Perciò il viaggio è, in primo luogo, un moto dell'anima e per questo è sempre fonte di ispirazione.
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