Lo schermo di Allah: come il mondo musulmano rappresenta se stesso

I recenti, tragici fatti di Parigi hanno riportato ancora una volta alla ribalta della cronaca le questioni geopolitiche irrisolte in Medio Oriente e in Africa. Il cinema si è spesso interessato all’argomento, ma se i successi al botteghino rispondono agli interessi e all’ideologia occidentale (vedi American Sniper), c’è stato e c’è chi, all’interno del mondo islamico, di quello ebraico e anche nelle società multietniche europee, prova a riflettere e a raccontare una realtà diversa.

Altro aspetto non trascurabile: da noi arriva una percentuale infinitesima di quello che si produce nei paesi arabi o musulmani. La cinematografia della Nigeria, per esempio, è la terza al mondo (dopo India e Usa) per fatturato e la seconda (sempre dopo l’India, ma davanti agli Usa) per numero di film prodotti ogni anno. Eppure dal Paese africano dove imperversano i terroristi di Boko Haram non è mai arrivato alcunché. Lo stesso si può dire per Iran, Algeria, Tunisia, Marocco, Turchia e, soprattutto, per l’Egitto, altro grande Paese produttore di filmografia. E anche per Israele, i cui autori cinematografici non sono sempre allineati con le politiche governative. Qualcosa esce dagli studios dei Paesi europei, soprattutto la Francia, dove lavorano artisti di origine araba o dove vengono a girare i loro film registi che in patria non potrebbero realizzare ciò che hanno in mente. In ogni caso il cinema può essere una finestra privilegiata per affacciarsi su una cultura ancora troppo poco conosciuta.

Vediamo allora cosa c’è disponibile, nel settore dell’home video, in vendita o a noleggio, che possa aiutarci a entrare nel mondo islamico. In attesa che anche il pubblico e i distributori italiani si accorgano finalmente che il cinema non comincia e non finisce a Hollywood.

FRA DRAMMI E COMMEDIE – Spesso la finzione cinematografica ha puntato in anticipo i suoi riflettori là dove poi li avrebbe diretti la cronaca. È il caso di Il profeta (2009), di Jacques Audiard, film francese premiato con 9 César (gli Oscar d’oltralpe) il cui copione sembra preso dalla biografia di Sherif Kouachi, uno dei due attentatori di Charlie Hebdo. Anche qui il carcere è la scuola di vita del protagonista, un magrebino di seconda generazione, con la differenza che l’apprendistato dietro le sbarre prelude a una carriera ai vertici della mala còrsa anziché tra le fila del fondamentalismo islamico.

Lo stile sincopato degli action movie hollywoodiani su un copione che parla invece della Guerra d’Algeria caratterizza Uomini senza legge (2010) del franco-algerino Rachid Bouchareb coprodotto da Francia, Belgio e Algeria. La storia immagina che tre fratelli restino coinvolti nei sanguinosi fatti che hanno portato il paese africano all’indipendenza da Parigi mescolando cronaca e storia, drammi familiari a tragedie collettive.

Dello stesso anno è Uomini di Dio, di Xavier Beauvois, anch’esso ambientato in Algeria (ma girato in Marocco). Lo spunto per la sceneggiatura viene a questo film francese da un fatto di cronaca: il massacro nel 1996 di una piccola comunità di frati cistercensi ad opera (forse) di fondamentalisti islamici. Il regista mostra chiaramente che le violenze messe in atto dall’esercito regolare contro i tagliagole non sono meno feroci delle gesta dei terroristi e che la popolazione locale è la vera vittima del conflitto. Ed è proprio per questo motivo, per dare aiuto alla gente comune di un povero villaggio sperduto tra le montagne, che i frati decidono di restare, sapendo di rischiare la vita. Tra gli interpreti del film figurano le star internazionali Lambert Wilson e Michel Lonsdale nei ruoli del priore e del frate medico.

La donna che canta (2010), film di produzione franco-canadese diretto da Denis Villeneuve, parla della guerra civile libanese degli anni ’80 i cui i conflitti religiosi condizionano la vita di una madre e dei suoi tre figli. Tra separazioni, lutti, violenze e la ricerca di un’impossibile verità.

Sull’appartenenza a un determinato credo si può anche ironizzare. Lo fa ancora un regista francese, Josh Appignanesi, con un altro film uscito nel 2010: Infedele per caso, commedia interpretata dal corpulento attore Omid Djalili nei panni di Mahmud Nasir, musulmano (quasi) osservante che da adulto, dopo la morte di quella che credeva essere sua madre, si scopre figlio di genitori naturali… ebrei. Identità e alienazione irrompono così nella sua vita e gli fanno sperimentare in prima persona i pregi e i difetti delle due culture antagoniste presenti, l’una accanto all’altra, sia in Terrasanta sia in molte banlieu europee.

UN POKER IRANIANO – Dal paese degli ayatollah arriva la trilogia di Asghar Farhadi che comprende About Elly (2009), Una separazione (2011) e Il passato (2013). Nel primo, girato in Iran, un gruppo di amici, borghesi e benestanti, si prende un breve periodo di vacanza al mare. L’occasione dovrebbe servire a mettere in contatto un giovane con una ragazza reduce da una relazione infelice. La scomparsa della donna alla vigilia del rientro in città porta invece alla luce alcune questioni del passato di ciascuno che tutti vorrebbero occultare. Una separazione è stato il primo film iraniano ad aggiudicarsi l’Orso d’oro a Berlino seguito poi dal Golden Globe e dall’Oscar come miglior film non in lingua inglese. Anche qui la storia si svolge nei quartieri alti di Teheran e ruota attorno a questioni private (una coppia che si separa, appunto) e al coinvolgimento di una donna in attesa che però perde il bambino. Siccome per la legge iraniana l’aborto è un reato assimilabile all’omicidio, ne segue una lunga vicenda giudiziaria. Ogni personaggio che sfila davanti alla corte fornisce una propria versione dei fatti chiedendo di essere creduto e quindi scagionato, ma viene regolarmente smentito da una versione diversa, più credibile, fornita da un altro. Alla fine tutti mostrano così dei dubbi sulla propria innocenza. Non solo di fronte alla legge, ma soprattutto per quanto riguarda le questioni etiche. Farahadi dice di ammirare molto il cinema di Krzysztof Kieslowski e in effetti questo film appare ispirato alle opere del regista polacco. Il passato è invece girato a Parigi ed è, a tutti gli effetti, un film francese anche se il protagonista maschile è un iraniano che torna, appunto, nella città per concludere le pratiche di divorzio. Su questa storia si innesta il tema del rapporto genitori-figli e della comprensione tra culture diverse.

Un altro iraniano, Bahman Ghobadi, gira nel 2009 I gatti persiani, storia di alcuni ragazzi appena usciti di prigione che vogliono formare un complesso rock (musica proibita nel paese) e contemporaneamente trovare documenti falsi per espatriare e cercare nuove opportunità all’estero. Su di loro incombe però il pericolo che la polizia religiosa (i pasdaran) li scopra mentre al mercato clandestino il prezzo dei passaporti aumenta sempre di più.

ISRAELIANI E PALESTINESI – Al cuore del conflitto scatenato dall’Islam radicale sta, come da oltre mezzo secolo a questa parte, l’irrisolta questione israelo-palestinese. Dunque uno sguardo anche sulla cinematografia con la stella di Davide può essere utile. Specialmente se fatta da autori “non allineati” alle politiche dello stato ebraico perché osteggiare le azioni di Israele non significa essere antisionisti e nessuna delle sofferenze patite dagli ebrei nel corso della loro storia può giustificare le sofferenze inflitte da loro ad altri popoli. Un regista israeliano molto critico con il proprio Paese, al punto da trasferirsi prima negli Usa e poi in Europa in polemica con le scelte governative, è Amos Gitai, autore negli anni ’80 del ‘900 di una trilogia detta dell’esilio o dell’emigrazione. Esther (1984), Berlin-Jerusalem (1989), e Golem-Lo spirito dell’esilio (1992) sono disponibili anche il cofanetto. Il primo è la messa in scena della storia dell’eroina biblica, salvatrice del popolo eletto al tempo dell’esilio babilonese mentre il secondo è ambientato tra Germania e Palestina dal 1919 al 1937, con una coda contemporanea. È la storia di due donne e delle prime comunità ebraiche in Terrasanta mentre in Europa infuria la barbarie nazista. Golem-Lo spirito dell’esilio non è altro che l’ambientazione nella Parigi contemporanea delle vicende di un’altra eroina biblica: la moabita Ruth, madre di Jesse e nonna di Davide, il fondatore della dinastia giudaica, nonché antenata di Gesù. Con il racconto di questa donna donna coraggiosa, straniera in terra d’Israele, il regista vole richiamare il fatto che la “contaminazione” della razza (e per la discendenza ebraica conta la linea femminile) sta addirittura alla base della sua gente come alla base del cristianesimo.

Alla stretta attualità si poggia invece un film molto bello del 2008 di un altro regista israeliano, Eran Riklis, tratto da un episodio reale. Il film si intitola Il giardino di limoni e narra la storia di Salma Zidane, una vedova palestinese che vive nella casa di proprietà della famiglia da generazioni, mandando avanti un frutteto di limoni. Il suo piccolo appezzamento di terra si trova, però, proprio al confine tra Cisgiordania e Israele, nel punto in cui il ministro della difesa dello stato sionista ha deciso di farsi costruire una villa. Per il suo nuovo vicino quegli alberi cari a Salma perché legati alla memoria del padre (e sua unica fonte di reddito) non sono altro che una minaccia alla sicurezza e perciò devono essere abbattuti. La storia prosegue narrando la determinazione della donna nel condurre una battaglia legale per far valere i propri diritti, disposta persino a sacrificare la vita perché il frutteto resti al suo posto. Il regista non si tira indietro nel mostrare l’ottusità e la violenza dei soldati e della polizia israeliana nei confronti una persona inerme così come nel racconto delle fasi processuali non nasconde che la pseudo ragion di stato finisca con il prevalere mentre l’unica voce che si leva (purtroppo inutilmente) a favore della donna palestinese è quella della moglie del ministro. Il finale è amaro e tutti escono sconfitti dalla vicenda.

UNA STORIA ESEMPLARE – Nella biografia del regista Youssef Chahine (1926-2008), il dato saliente relativo agli anni della sua formazione ad Alessandria d’Egitto è il pluralismo culturale. Che si ritrova in tutta la sua ampia produzione cinematografica nota in parte anche in Europa grazie ai riconoscimenti ottenuti in vari festival. Nel cinema di Chahine traspare il suo impegno civile e una presa di posizione contro gli integralismi di cui lo stesso regista rimase vittima nel 1994 per il film L’emigrante, libera interpretazione del racconto biblico di Giuseppe. Di Chahine si trova in dvd Il destino (1997) significativo proprio al fine del nostro discorso. Si è parlato e si parla spesso di radici cristiane dell’Europa dimenticandosi che l’Europa ha anche radici pagane, ebraiche e islamiche. Ed è toccato proprio ai musulmani, ovvero agli arabi di Spagna, il compito storico di salvare il continente dalle tenebre della cultura in cui era sprofondato nell’alto medioevo. Furono gli islamici di El-Andalus a impedire che andasse perduta la cultura classica, la filosofia, la geometria, l’astronomia, la medicina dei greci e dei romani. Il film, Palma d’oro a Cannes, mette in scena un breve periodo (circa sei mesi) della vita del filosofo Averroè, vissuto a Cordoba tra il 1126 e il 1198. Chahine mette in scena l’intolleranza e la violenza di una setta di fanatici contro questo personaggio che è il loro peggior avversario in quanto insegna la compatibilità della fede con la ragione, commenta il Corano in armonia con Aristotele e incarna l’ideale di un islam aperto al confronto, tollerante, illuminato e rispettoso della dignità dell’uomo.

«Un pigro ignorante che recita a memoria due versetti del Corano… È questo un uomo pio?» si domanda Averroè, che subito aggiunge: «Mio Signore, accresci la mia scienza». Un fondamentalista, gli ribatte: «Scienza? Dimenticate la fede!». «Dopo la rivelazione si è aperta la via all’interpretazione del testo» ribatte ancora il filosofo, ma la risposta integralista è: «Il testo non va interpretato». «La rivelazione integra la ragione» è la conclusione di Averroè. Chahine, che non è né un imam né un teologo, colloca la questione interpretativa (ossia l’ermeneutica) al centro del dibattito e il punto è proprio questo. Per ogni religione e per ogni libro sacro: Corano, Torah o Vangelo. Il fanatismo comunque avanza, con il terrore e l’indottrinamento. Qualcuno viene ucciso, la casa di Averroè incendiata. Sembra cronaca di questi giorni. Istigato dai fanatici, il califfo Al-Mansur esilia Averroè e ordina la distruzione delle sue opere. Solo in extremis il filosofo viene riabilitato, ma intanto sulla piazza principale di Cordoba si sono già levate le fiamme che bruciano i suoi libri. L’immagine si fissa sulle fiamme del rogo con queste parole, firmate da Youssef Chahine: «Il pensiero ha le ali e nessuno può impedirgli di volare».

 (I titoli citati  si possono trovare da Video Brera, Milano, tel. 026698817 www.videobrera.com, che ringraziamo per la collaborazione)

Auro Bernardi: Nel 1969, quando ero al liceo, il film La Via Lattea di Luis Buñuel mi ha fatto capire cosa può essere il cinema nelle mani di un poeta. Da allora mi occupo della “decima musa”. Ho avuto la fortuna di frequentare maestri della critica come Adelio Ferrero e Guido Aristarco che non mi hanno insegnato solo a capire un film, ma molto altro. Ho scritto alcuni libri e non so quanti articoli su registi, autori, generi e film. E continuo a farlo perché, nonostante tutto, il cinema non è, come disse Louis Lumiére, “un'invenzione senza futuro”. Tra i miei interessei, come potrete leggere, ci sono anche i viaggi. Lo scrittore premio Nobel portoghese José Saramago ha scritto: “La fine di un viaggio è solo l'inizio di un altro. Bisogna ricominciare a viaggiare. Sempre”. Ovviamente sono d'accordo con lui e posso solo aggiungere che viaggiare non può mai essere fine a se stesso. Si viaggia per conoscere posti nuovi, incontrare altra gente, confrontarsi con altri modi di pensare, di affrontare la vita. Perciò il viaggio è, in primo luogo, un moto dell'anima e per questo è sempre fonte di ispirazione.
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