Da vedere in DVD: “Café Society”, di Woody Allen

sceneggiatura Woody Allen cast Jesse Eisenberg (Bobby Dorfman) Kristen Stewart (Veronica Vonnie Sybil) Steve Carell (Phil Stern) Blake Lively (Veronica Hayes) Parker Posey (Rad Taylor) Corey Stoll (Ben Dorfman) Ken Stott (Martin Dorfman) Jeannie Berlin (Rose Dorfman) Stephen Kunken (Leonard) genere commedia durata 92 min

 

Il caro, buon, vecchio Woody non delude mai. O non cambia mai, se preferite. Al suo 47esimo film Allan Stewart Koenigsberg (questo il vero nome del regista) ricucina il solito menu della nostalgia canaglia in salsa agrodolce, con ininterrotta colonna sonora jazz e i toni felpati dell’America anni ’30 (quelli della sua infanzia) mitizzati e rimpianti. L’America dei gangster spietati e dei generi cinematografici, tutta lustrini e paillettes, ma soprattutto l’America dei sogni che si realizzano. Anche quando non sembra. Come nel caso del giovane Bobby Dorfman, ebreo newyorkese, che sbarca a Hollywood alla corte dello zio Phil, re degli agenti cinematografici, capace di creare o stroncare carriere al semplice schiocco di dita. Sul sogno dei sogni (il cinema) si innesta poi uno strano triangolo che al terzo vertice, oltre zio e nipote, vede la giovane segretaria di Phil, di cui entrambi sono innamorati. Anche quando il ragazzo torna all’ovile (ossia a New York) la musica non cambia se non che il triangolo si allarga a quadrilatero. Buon, caro, vecchio Woody, dicevamo, con tutto il suo repertorio abbondantemente collaudato nei 46 titoli precedenti e riconfermato nel successivo “La ruota delle meraviglie”. Che altro aggiungere? Ciascuno di noi ha avuto sicuramente un’infatuazione per Allen e per qualche suo film (magari non proprio i recentissimi), stemperata poi nel tempo proprio per la tendenza del regista a rifarsi il verso, cosa che, alla lunga, può anche un po’ annoiare. Bravi gli attori, sontuoso il décor delle scene e, siccome “Café Society” passa alla storia per essere il primo che Allen gira in digitale, segnalazione d’obbligo per il contributo determinante del direttore della fotografia Vittorio Storaro. Forse la cosa migliore del film.

 

E allora perché vederlo?

Perché l’America che non c’è più è sempre migliore di quella che c’è

Auro Bernardi: Nel 1969, quando ero al liceo, il film La Via Lattea di Luis Buñuel mi ha fatto capire cosa può essere il cinema nelle mani di un poeta. Da allora mi occupo della “decima musa”. Ho avuto la fortuna di frequentare maestri della critica come Adelio Ferrero e Guido Aristarco che non mi hanno insegnato solo a capire un film, ma molto altro. Ho scritto alcuni libri e non so quanti articoli su registi, autori, generi e film. E continuo a farlo perché, nonostante tutto, il cinema non è, come disse Louis Lumiére, “un'invenzione senza futuro”. Tra i miei interessei, come potrete leggere, ci sono anche i viaggi. Lo scrittore premio Nobel portoghese José Saramago ha scritto: “La fine di un viaggio è solo l'inizio di un altro. Bisogna ricominciare a viaggiare. Sempre”. Ovviamente sono d'accordo con lui e posso solo aggiungere che viaggiare non può mai essere fine a se stesso. Si viaggia per conoscere posti nuovi, incontrare altra gente, confrontarsi con altri modi di pensare, di affrontare la vita. Perciò il viaggio è, in primo luogo, un moto dell'anima e per questo è sempre fonte di ispirazione.
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