Torneranno i prati

regia Ermanno Olmi cast Francesco Formichetti (il Capitano), Alessandro Sperduti (il Tenente), Andrea di Maria (il Mulattiere), Claudio Santamaria (il Maggiore), Camillo Grassi (l’Attendente), Domenico Benetti (il Sergente), Andrea Benetti (il Caporale), Niccolò Senni (un Soldato), Andrea Frigo (un Soldato), Davide Rigoni (il Cappellano) durata 80′

Il racconto di un racconto. Per capire l’ultimo film di Olmi bisogna tenere ben presente questa chiave di lettura cui ci indirizza la didascalia finale: “Al mio papà, che quando ero bambino mi raccontava della guerra dov’era stato soldato”. Non si spiegherebbe diversamente il fatto che in tutta la vicenda i personaggi in scena non facciano nulla di ciò che normalmente avviene in una trincea (fumo, bestemmie, spari…), ma riflettano, pensino, raccontino i loro sentimenti. Un film di sentimenti, allora, non certo di guerra anche se la cornice è un avamposto italiano sull’altopiano di Asiago durante una notte nell’inverno del 1917. Sentimenti di cui la natura, secondo la poetica di Olmi, è parte integrante, con gli animali e le piante trasfigurati quasi in entità in cui Dio si riflette. Anche qui, significativa è una battuta del dialogo, sempre verso la fine, in cui uno dei protagonisti ragiona sul fatto che anche in quei luoghi desolati la natura riprenderà il sopravvento e cancellerà anche le tracce della guerra. Nel “racconto del racconto” di Olmi il desiderio che la natura cancelli tutte le guerre è palese. Sottolineato da un’altra didascalia posta a esergo del film: “La guerra è una brutta bestia che gira il mondo e non si ferma mai”. Citazione popolare, non dotta, come piace a Olmi che della scelta evangelica degli “ultimi” ha fatto un’altra tipica cifra della sua arte. E questi fanti senza nome che non alzano mai la voce, che solidarizzano con gli ufficiali, assolti dal cappellano senza che sia nemmeno necessaria un’esplicita confessione, sono esattamente l’umanità idealizzata dal regista bergamasco specialmente nelle sue ultime prove, da Terra madre al Villaggio di cartone. Che altro dire? La suggestione visiva del film emana da ogni inquadratura, merito anche della fotografia di Fabio Olmi e la musica, discreta e funzionale, esalta i momenti topici con brani di autentica poesia, come le due canzoni napoletane (Tu ca nun chiagne e Fenesta ca lucive) cantate da un fantaccino nel chiaro di luna di una scintillante notte di neve.

Auro Bernardi: Nel 1969, quando ero al liceo, il film La Via Lattea di Luis Buñuel mi ha fatto capire cosa può essere il cinema nelle mani di un poeta. Da allora mi occupo della “decima musa”. Ho avuto la fortuna di frequentare maestri della critica come Adelio Ferrero e Guido Aristarco che non mi hanno insegnato solo a capire un film, ma molto altro. Ho scritto alcuni libri e non so quanti articoli su registi, autori, generi e film. E continuo a farlo perché, nonostante tutto, il cinema non è, come disse Louis Lumiére, “un'invenzione senza futuro”. Tra i miei interessei, come potrete leggere, ci sono anche i viaggi. Lo scrittore premio Nobel portoghese José Saramago ha scritto: “La fine di un viaggio è solo l'inizio di un altro. Bisogna ricominciare a viaggiare. Sempre”. Ovviamente sono d'accordo con lui e posso solo aggiungere che viaggiare non può mai essere fine a se stesso. Si viaggia per conoscere posti nuovi, incontrare altra gente, confrontarsi con altri modi di pensare, di affrontare la vita. Perciò il viaggio è, in primo luogo, un moto dell'anima e per questo è sempre fonte di ispirazione.
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