Venti scatole di tè

Che c’è di vecchio in me? Tutto? Niente? Una buona metà? Le giunture di sicuro, i capelli, la pelle e altri gadget in decomposizione. Il cervello funziona abbastanza, anche se non mi sembra mai a pieno regime (impressione che peraltro avevo anche quando ero giovane). Ogni giorno prego il cielo perché il mio cervello continui a funzionare, anche così spoglio com’è adesso, giacché spero di poterlo utilizzare fino all’ultimo giorno della mia vita. Ecco, se ho una paura è quella di non essere più cosciente di me stessa, di cadere preda di quei mali ingiusti che portano una persona a perdersi. Mi ricordo un amico che mi raccontava che si era accorto che la madre era agli esordi dell’Alzheimer quando aveva visto in un mobiletto della cucina venti scatole di tè, tutte della stessa marca e dello stesso tipo. Venti scatole di tè uguali disposte sull’orlo dell’abisso: un’immagine che mi è rimasta impressa e che mi fa venire i brividi.

Di recente per sbaglio ho comprato ben tre volte il riso. Andavo a fare la spesa, mi pareva mi servisse, lo prendevo e poi lo trovavo nella credenza. In seguito ho acquistato tre confezioni di fette biscottate, però almeno tutte diverse, sempre convinta di aver terminato la scorta. L’altro giorno mi sono accorta di aver finito la pasta mentre l’acqua già bolliva nella pentola e il sugo era pronto. Non mi era mai accaduto prima. Anni fa ero di una precisione scientifica e, prima che finisse qualcosa, procuravo che ci fosse in casa il sostituto. Ero meglio di un furiere, insomma. Adesso non sono più un furiere, anche se non sono convinta che ciò sia un male, perché, non provvedendo sempre a tutto, do l’occasione a chi mi sta intorno di provvedere al mio posto e insieme sono meno schiava dei doveri. Invece il fatto di perdere colpi mi preoccupa, perché sentirsi vacillare non è una bella sensazione.

Il tempo che passa spaventa, non c’è che dire. È un mostro antropofago fatto di scatole di tè.

L’altro giorno ho visto al cinema un film di fantascienza che si intitola “In Time”, ambientato in una società geneticamente modificata dove si vive fino a venticinque anni e il bene più prezioso, quello su cui si fondano la vera ricchezza e i grandi patrimoni, è appunto il tempo. Il film non mi ha entusiasmato, ma l’idea è folgorante. Un mondo ossessionato dal tempo, che cerca ogni modo per accumulare con famelica cupidigia il tempo e che il tempo lo spreca nei modi i più vari. Un mondo dove i vecchi – quelli che riescono a diventarlo – sembrano ragazzini, ma ragazzini veri, non polimeri riassemblati da abili chirurghi plastici. Un mondo i cui abitanti hanno il proprio personale timer tatuato sul polso, con il conto alla rovescia della propria vita che scorre inesorabile. Un po’ logorante, non trovate? Poi il timer in realtà ce l’abbiamo tutti, per carità, ma almeno non tatuato sulla pelle. Il tipo di società descritto nella pellicola americana eviterebbe di sicuro i mali della vecchiaia e l’accumulo di filtri negli scaffali della cucina, ma personalmente preferisco il rischio dell’eccesso di tè all’incubo dei secondi che scorrono veloci sui miei arti. Comunque dalla mia paura di certe malattie e dai film sull’orrore dell’eterna giovinezza alla fine ho tratto un piccolo, ma utile insegnamento: Non bisogna ammazzare il tempo, perché tanto è lui che prima o poi ammazza te.

Clementina Coppini: scrive più o meno da quando aveva sei anni, un po’ come tutti. Si è laureata in lettere classiche ma non si ricorda bene come ci sia riuscita. Scrive su Giornalettismo, il Cittadino di Monza (la sua città), El-Ghibli, www.grey-panthers.it e su un paio di giornali cartacei. Ha pubblicato tanti libri per bambini, qualche romanzo come feuilleton su Giornalettismo, un romanzo con Eumeswil e adesso le è venuta questa idea del romanzo in costruzione. Ha una famiglia, due figli, un gatto e si ritiene, non è chiaro se a torto o a ragione, una discreta cinefila e una brava cuoca. Va molto fiera delle sue ricette segrete, che porterà con sé nella tomba.
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