Sangue del mio sangue

SANGUE DEL MIO SANGUE

regia Marco Bellocchio sceneggiatura Marco Bellocchio cast Pier Giorgio Bellocchio (Federico Mai) Roberto Herlitzka (il Conte) Lidiya Liberman (Benedetta) Fausto Russo Alesi (Cacciapuoti) Alba Rorhwacher (Maria Perletti) Federica Fracassi (Marta Perletti) Alberto Bellocchio (Federico Mai anziano) Toni Bertorelli (dr. Cavanna) durata 108

Non è usuale che Marco Bellocchio accompagni i primi passi delle sue creature cinematografiche nel cammino in sala, presso il pubblico. Il fatto che tenga a battesimo questo suo ultimo film all’Anteo di Milano il 10 settembre (vedi la nostra segnalazione) significa, quantomeno, che lo considera una tappa importante del suo percorso artistico. E importante lo è, nel mediamente desolante panorama del cinema italiano di cui si può solo dire, con un certo rammarico, che per vedere opere interessanti bisogna rivolgersi ancora a dei panthers molto, ma molto grey. Bellocchio a novembre taglierà infatti la torta dei 76 anni.

VICENDE FAMILIARI C’è del personale, intimo, familiare in questo film, forse più che in tutti gli altri fatta eccezione per I Pugni in tasca, di cui ricorre il 50° anniversario. Non a caso entrambi sono stati girati a Bobbio, piccola patria di Bellocchio e della sua tribù domestica che appare abbondantemente nel film con i figli Pier Giorgio ed Elena e il fratello maggiore Alberto. Bobbio come “natura non indifferente” alla storia, anzi, per certi versi, motore della storia e teatro degli snodi drammaturgici più importanti. A partire da quelle Prigioni, ex convento delle Clarisse, che occupano gran parte dei set anche se il chiostro è quello della chiesa di San Francesco. Vicende familiari nel tema del fratello gemello morto (Marco ha vissuto questa esperienza) e la profonda religiosità della madre, mai presente in scena, ma motore dell’azione con il suo tentativo di “riabilitare” il figlio prete, suicida a causa della seduzione di una monaca di cui era confessore. E qui passiamo dritti a un altro capolavoro di Bellocchio che mette in scena questioni analoghe: L’ora di religione.

COME WELLES CON BUÑUEL Una volta Orson Welles definì il senso del cinema di Luis Buñuel con questa folgorante espressione: «Odia Dio come solo un cristiano può fare. È il regista più eccelsamente religioso della storia del cinema». Ebbene, le stesse parole calzano a pennello per Marco Bellocchio con la semplice aggiunta dell’aggettivo “italiano” al sostantivo cinema. Giusto per distinguere i ruoli. Il cinema di Bellocchio è un costante, tenace, quasi maniacale tentativo di affrancarsi dall’Essere supremo come può fare solo chi è cresciuto in un humus dove la religione dettava regole e modi, espressioni e stati d’animo, definiva i ruoli sociali e individuali. Che fosse la Spagna del primo Novecento o il Profondo Nord democristiano, bigotto, ipocrita e perbenista del secondo dopoguerra in Italia. Non a caso i bersagli costanti della critica di Bellocchio sono la famiglia (vedi appunto I pugni in tasca e L’ora di religione) e, più in generale, il principio di autorità (Nel nome del padre, Marcia trionfale, Enrico IV, Il principe di Homburg) che nel trascendente ha la sua massima espressione.

RESURREZIONE LAICA E FEMMINISTA Il film (con una magnifica fotografia caravaggesca) è scandito da una grammatica cinematografica estremamente libera e priva di condizionamenti. Non solo per il cortocircuito temporale tra passato e presente, ma per la capacità di rendere attraverso le immagini stati d’animo e pulsioni psicologiche che definiscono alla perfezione i personaggi e il loro contesto. Che è un contesto attuale, anche se i protagonisti indossano sai e cappe seicenteschi. Come in altri suoi film recenti (Buongiorno notte su tutti) Bellocchio non esita neppure di fronte alla forzatura storica, alla metafora irrealistica pur di colpire il bersaglio. L’amore umano e terreno è l’unica espressione sensata dell’animo. Le sofferenze e le torture inflitte alla monaca affinché confessi il suo commercio con il demonio sono una passione laica e femminista che culmina nella più pura e blasfema al tempo stesso delle resurrezioni. Ci sono echi di Dreyer nella storia di Benedetta, con il coro delle novizie nel chiostro, la tonsura, le lacrime, le torture dell’Inquisizione. E come in Dreyer, altro regista fatto passare indebitamente per religioso se non addirittura per mistico, “tutto è amore”. Ma non quello di Dio, bensì quello terreno e carnale di un uomo e di una donna. Anche se lui è un prete (o il suo gemello) e lei una monaca.

TRA PASSATO E PRESENTE L’episodio ambientato ai nostri giorni (comunque nello stesso luogo, le Prigioni) rappresenta a sua volta la cartina di tornasole delle vicende di quattro secoli prima. Non a caso sottolineato da analoghi frammenti visivi. Il coro delle ragazze e quello degli alpini in luogo delle novizie, la congrega framassonica al posto del tribunale inquisitorio, il frenetico girare a vuoto della gente, l’acqua stessa del fiume Trebbia e il Ponte Gobbo, lo skyline della cittadina rappresentano altrettante forme di continuità tra passato e presente. Così come l’ipocrisia e la violenza (anche se in forme più attenuate e quasi garbate) sono sempre le stesse. Al pari della ferocia e della volontà di Bellocchio di opporvisi e denunciarle. Nonostante dai Pugni in tasca siano passati 50 anni e il mondo sia completamente cambiato. L’uomo no. L’uomo, invece, è sempre lo stesso.

Auro Bernardi: Nel 1969, quando ero al liceo, il film La Via Lattea di Luis Buñuel mi ha fatto capire cosa può essere il cinema nelle mani di un poeta. Da allora mi occupo della “decima musa”. Ho avuto la fortuna di frequentare maestri della critica come Adelio Ferrero e Guido Aristarco che non mi hanno insegnato solo a capire un film, ma molto altro. Ho scritto alcuni libri e non so quanti articoli su registi, autori, generi e film. E continuo a farlo perché, nonostante tutto, il cinema non è, come disse Louis Lumiére, “un'invenzione senza futuro”. Tra i miei interessei, come potrete leggere, ci sono anche i viaggi. Lo scrittore premio Nobel portoghese José Saramago ha scritto: “La fine di un viaggio è solo l'inizio di un altro. Bisogna ricominciare a viaggiare. Sempre”. Ovviamente sono d'accordo con lui e posso solo aggiungere che viaggiare non può mai essere fine a se stesso. Si viaggia per conoscere posti nuovi, incontrare altra gente, confrontarsi con altri modi di pensare, di affrontare la vita. Perciò il viaggio è, in primo luogo, un moto dell'anima e per questo è sempre fonte di ispirazione.
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